Per il nostro bene… comune

Di seguito il comunicato stampa del Centro Servizi per il Volontariato e del Liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che pubblico volentieri e con l’invito alla più ampia divulgazione.
Sabato tutti in pineta!

“Per il nostro bene… comune”

Evento di animazione e cittadinanzattiva a cura degli studenti delle quarte classi del Liceo Scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC)

È questo il titolo dell’evento che, sabato 5 aprile a partire dalle ore 10.00 presso la Pineta Comunale, vedrà gli studenti delle quarte classi del Liceo Scientifico di Sant’Eufemia d’Aspromonte mettere in gioco valori, entusiasmo, energie e talenti per animare e dare vita ad un luogo che rappresenta un bene comune per tutta la cittadinanza.

L’iniziativa vuole essere un momento di sintesi e di condivisione di una micro-azione sperimentale promossa dal Centro Servizi al Volontariato di Reggio Calabria in collaborazione con la Dirigenza e lo staff-Docenti del Liceo aspromontano nell’ambito del più ampio ed ormai consolidato progetto di promozione del volontariato giovanile denominato “Scatti di Valore”.

“Per il nostro bene… comune”, infatti, è il risultato di un percorso ideato e sviluppato dal CSV su impulso degli stessi studenti e docenti di Sant’Eufemia, nato per promuovere consapevolezza circa le potenzialità materiali ed immateriali del territorio nonché per testimoniare un modo nuovo di abitare i luoghi e di prendersene cura, contribuendo così allo sviluppo dei territori ed all’accrescimento del ben-essere delle comunità, a partire proprio dalla capacità di mobilitazione delle nuove generazioni.
L’evento, affermando valori e rafforzando legami, vuole essere anche l’occasione per incentivare processi collettivi di partecipazione, cittadinanza responsabile ed impegno civile nelle comunità di Sant’Eufemia e della vicina Sinopoli.

Dopo i saluti istituzionali, protagonisti assoluti saranno i giovani studenti: il programma prevede infatti un prologo musicale a cura della band del Liceo e, subito dopo, uno speciale “Racconto di viaggio” durante il quale i ragazzi narreranno a più voci il percorso che ha portato a questa giornata, le emozioni vissute, le scoperte fatte e le cose imparate durante il cammino, nonché gli spunti e le idee per progettare il domani.

A seguire, gli studenti daranno vita ad un reading per presentare i valori che, alla luce del percorso fatto, desiderano seminare e che si impegnano a coltivare attraverso azioni concrete, con l’aiuto delle associazioni di volontariato, delle istituzioni e di tutta la comunità.

E proprio per simboleggiare questo desiderio di impegnarsi a far fiorire l’oggi ed il domani dei luoghi in cui vivono, i ragazzi pianteranno in tutta la Pineta valori e fiori: un momento evocativo e simbolico a suggello del percorso fatto e raccontato, un momento al quale tutta la comunità è invitata a partecipare.

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Un posto per la nostra storia

Molti ricorderanno la campagna partita da questo blog nel mese di gennaio del 2013, affinché l’amministrazione comunale commemorasse con i dovuti onori Nino Zucco, poliedrico artista eufemiese in contatto con i massimi esponenti della cultura calabrese nel Novecento: Francesco Cilea su tutti, ma anche Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Raul Maria De Angelis, Alessandro Monteleone, Michele Guerrisi, Francesco Perri, Antonio Piromalli, Leopoldo Trieste. L’articolo suscitò gli interventi di Antonello Zucco e di monsignore Giorgio Costantino (rispettivamente figlio e nipote di Nino Zucco); quindi, su impulso del sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo, in breve tempo ci furono l’inaugurazione della Pinacoteca comunale (all’interno della quale una parete è oggi dedicata alle opere che il figlio di Zucco donò in quella circostanza) e l’organizzazione del convegno “Nino Zucco: pittore, scultore, scrittore, cantore della memoria eufemiese”.

Insomma, esiste un precedente incoraggiante. Per il calendario delle manifestazioni estive 2014 si potrebbe pensare a un’iniziativa di recupero della memoria storica, atteso che il prossimo 5 luglio ricorrerà il centenario della posa della prima pietra del palazzo municipale costruito dopo il terremoto del 1908 e inaugurato ufficialmente nel 1926, alla presenza del gerarca Maurizio Maraviglia.
Quella bella struttura architettonica è stata rasa al suolo una trentina d’anni fa, sostituita dall’attuale. E qui mi fermo, senza aggiungere altro, per carità di patria. È giunta però a noi l’epigrafe composta in quella solenne circostanza dallo storico eufemiese Vittorio Visalli:

Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire.

Sarebbe opera meritoria scolpire sul marmo le parole del più eminente storico del Risorgimento in Calabria e collocarle all’interno della sala del consiglio comunale, la sede più appropriata per perpetuare il ricordo del riscatto di un popolo ferito ma non domato dalla furia della natura, oltre che per onorare la grandezza di colui che le vergò.
E in quella stessa aula andrebbe anche collocata una riproduzione dell’epigrafe dedicata nel 1900 all’eufemiese Carlo Muscari, apostolo della libertà giustiziato in piazza del Mercato a Napoli, dopo la caduta della Repubblica partenopea, insieme ad altri quattordici patrioti calabresi. Sistemata in occasione del centenario dell’impiccagione di Muscari all’interno della casa comunale, allora situata nella “piazzetta”, la lapide originale andò distrutta dopo il terremoto del 1908, mentre la copia realizzata per il nuovo palazzo municipale andò persa con la demolizione dell’edificio negli anni Ottanta del secolo scorso:

Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio.

La sede naturale per le due incisioni sarebbe, a mio avviso, la parete che si trova alle spalle della presidenza del consiglio comunale. Quello è il posto della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Una storia che sappia essere monito e guida per coloro che siedono o siederanno su quegli scranni.

*Sulla vicenda del ritrovamento dell’epigrafe scritta da Visalli nel 1914:
https://www.messagginellabottiglia.it/2013/09/lepigrafe-di-visalli-lo-stupore-di-mico.html

**Per un profilo biografico di Carlo Muscari: Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013, pp. 116-120.

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U mangiari i San Giuseppi

Leggo “u mangiari i San Giuseppi” e sento l’odore caratteristico di un fumante piatto di pasta e ceci, che regolarmente arricchisco con una spolverata di pepe nero. Dai racconti dei “grandi” apprendo che la pietanza preparata per i bisognosi del paese aveva un sapore speciale, come tutte le cose desiderate e a lungo attese. Sulle polpette al sugo del giovedì di Carnevale, per molte famiglie l’unico giorno dell’anno in cui si comprava la carne, si potrebbero scrivere manuali di cucina. O testi di folclore. Un evento irrinunciabile, la cui importanza viene compendiata dal proverbio popolare “giovedì ’i lardarolu cu non avi carni si ’mpigna ’nu figghiolu”.

U mangiari i San Giuseppi” rimanda a principi e valori che oggi lottano con le unghie per non essere travolti dall’indifferenza e dal disimpegno imperanti. Ricorda persone semplici, che riuscivano a dividere con gli altri il poco che avevano. Che non passavano oltre, distrattamente e infastiditi, alla vista di una mano tesa. Che anzi quelle mani andavano a cercare, quando il naturale pudore di molti sfortunati le costringeva nelle tasche. Ricorda la vita vera delle rrughe, i bambini a piedi scalzi nei cortili e le nostre grandissime donne a sorvegliare pentole enormi, ricolme del pasto che avrebbe alleviato una fame antica. Ogni mercoledì una rruga: e poi la sala matrimoniale “Il Cagnolino”, che dal dopoguerra non ha mai smesso di perpetuare questa nobile tradizione.

Da diversi anni, grazie al dinamismo di un gruppo di amici del Vecchio Abitato “u mangiari i San Giuseppe” ricorda a chi l’avesse dimenticato non solo da dove veniamo, ma soprattutto cosa significa essere comunità e quali doveri abbiamo nei confronti di chi sulla propria tavola non sempre trova il conforto di un piatto caldo. Si tratti di eufemiesi di nascita o di eufemiesi di adozione, che il destino e la fame, dalle strade del mondo, ha portato alle pendici dell’Aspromonte.

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Prima la politica

Come spesso accade per le cose del partito democratico, le primarie che avrebbero dovuto eleggere il nuovo segretario regionale in Calabria hanno registrato una coda inattesa. Neanche tanto, a dire il vero, considerato che già alla vigilia era data come altamente probabile l’eventualità che nessuno dei quattro candidati raggiungesse la maggioranza assoluta dei delegati. Cosa che puntualmente si è verificata. A norma di regolamento, la palla passa all’Assemblea. Non senza qualche coda polemica. Magorno contro Canale. Con il primo che si è fermato a soli due delegati dai 151 necessari per avere la maggioranza. E con il secondo che può a ragione ritenersi soddisfatto. Checché se ne dica, dall’altra parte c’era schierata la stragrande maggioranza dell’establishment dei vecchi democrats, politici di lungo corso ritrovatisi incidentalmente renziani a braccetto, anche fuori dalle insegne di partito, con coloro che più hanno da temere dall’affermazione di uomini e metodi nuovi: Sandro Principe, Marco Minniti, Mario Pirillo, Agazio Loiero, Luigi Incarnato, Peppe Bova, Antonio Borrello, truppe cammellate delle più svariate fogge. Avere impedito a Magorno una vittoria al primo turno, nonostante l’impari lotta contro questi vecchi volponi, per Canale è già una vittoria. L’altro dato a mio avviso confortante riguarda la provincia di Reggio Calabria, dove Canale (54%) ha stracciato l’avversario (45%) nonostante lo sforzo collettivo compiuto da tutti i big (esclusi Nino De Gaetano e Sebi Romeo) per contrastarne l’affermazione. Merito della novità della proposta, colta in particolare da quei giovani che hanno permesso gli exploit di Rosarno, Palmi, Bagnara, Siderno e, a leggere bene le situazioni, anche Gioia Tauro. Il futuro è segnato. Ritorni al passato, almeno in provincia di Reggio, non ce ne saranno. E questa è una prospettiva davvero interessante. Una prima, vera, vittoria.

Ora occorrerà ricomporre i cocci della campagna elettorale, stemperare i veleni di situazioni non limpidissime (Diamante e Belvedere Marittimo), ricercare un’unità di intenti che è indispensabile per affrontare con fiducia le prossime sfide: Europee, Comunali, Regionali.

Il 22 febbraio alle 16.30 Canale riunirà presso l’Hotel Euro Lido di Falerna i delegati, gli amministratori, i segretari di circolo e i sostenitori della sua lista per elaborare la proposta politica da presentare all’Assemblea. Un’altra storia deve necessariamente iniziare dai contenuti, non dalla conta congressuale. Da qui lo slogan #primalapolitica con il quale Canale ha lanciato l’evento.

Come circolo “Sandro Pertini” di Sant’Eufemia, cercheremo di dare il nostro piccolo contributo anche in questa occasione. L’abbiamo fatto giorno 16 con i 130 voti attribuiti a Canale, per i quali grande merito va ai compagni e amici Mario Surace, Enzo Fedele, Peppe Gentiluomo e Pasquale Napoli. E speriamo di continuare a farlo nelle sedi deputate, a partire dal coordinamento della Piana. Perché o la politica parte dal basso, o è altro.

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Quando Montalto in Aspromonte diventò un vulcano

Non è il racconto di un folle, né la bizzarra ipotesi di quei programmi televisivi che campano sulla credulità umana e spacciano per verità panzane clamorose, “ovviamente” occultate per ragioni oscure che solo la Cia conosce. Non è neppure uno scoop giornalistico pompato da farci prime pagine per giorni e giorni. È scritto nero su bianco; anzi nero su ocra, il colore dei telegrammi di fine Ottocento: in quel tempo, l’Aspromonte era un vulcano in attività.

Sono trascorsi appena due mesi dal terremoto che il 16 novembre 1894 sconquassò il circondario di Palmi, provocando rovine e morti. La Madonna del Carmine aveva fatto il miracolo, in seguito riconosciuto dalla Chiesa, e aveva limitato a otto le vittime (circa 300 i feriti) nel capoluogo del circondario, epicentro del sisma per sedici interminabili secondi alle 18.55. Tutt’attorno macerie e desolazione: abitazioni rase al suolo o rese inabitabili, 98 morti (48 soltanto a San Procopio), il terrore negli occhi dei sopravvissuti, molti dei quali avrebbero perso la vita quattordici anni più tardi. A Sant’Eufemia, tra le sette vittime la più anziana è la novantacinquenne Carmina Zagari; la più giovane Maria Antonia Cutrì, un fiore reciso a soli tre anni. Oltre 200 feriti, 212 abitazioni crollate, 326 pericolanti, 432 gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. E la paura che potesse accadere nuovamente alimentata da scosse continue, per giorni, settimane, mesi.

I terremotati, alloggiati in baracche tirate su con il contributo dei comitati sorti in tutta Italia, hanno ormai orecchie sensibili. A ogni scossa si riversano sulla strada e, affidata l’anima a Dio, alla Madonna e ai Santi, si accalcano pericolosamente all’interno delle chiese, incuranti della tragedia che potrebbe provocare il crollo di strutture già danneggiate. A nulla valgono le raccomandazioni del prefetto, veicolate dal commissario per la gestione dell’emergenza Michele Fimmanò, dal prosindaco Luigi Bagnato e dal presidente della commissione per le cucine economiche, l’arciprete Rocco Cutrì.

Ancora un anno dopo il disastro, il maggiore del genio civile Angelo Chiarle, sulla scorta del parere espresso dal direttore dei lavori di ricostruzione, l’ingegnere Gaetano De Blasi, suggerisce al prefetto di mantenere l’ordine di chiusura delle chiese, perché forti scosse avrebbero potuto causare una “catastrofe mai vista”: “meglio affrontare impopolarità che accusa imprevidenza ed imprudenza”, la saggia conclusione del graduato.

Tensione, suggestione e ignoranza sono gli ingredienti perfetti per sfornare la bufala dell’anno. Che puntualmente arriva, per quanto inconsapevolmente, all’inizio del 1895. Il 24 gennaio tale Greco, da Sant’Eufemia, telegrafa al prefetto: “Contadini, reduci monti, esterrefatti riferiscono apertura cratere Montalto eruttante colonna fumo rosseggiante. Procederemo ispezione, riferirovvi. Avvisate Comitato”.

Il giorno dopo lo stesso Michele Fimmanò, non un cafone analfabeta bensì il colto borghese con tanto di laurea conseguita presso il prestigioso ateneo partenopeo, prende in considerazione l’ipotesi assurda che l’Aspromonte nascondesse nel proprio ventre un vulcano: “Seppi stamane via Delianuova che tre contadini colà arrivati narravano delle cime di monti prospettanti Montalto aver osservato che dalla sommità di esso monte veniva fuori un enorme colonna fumo rosseggiante simile ad un pino piegantesi a terra col vento, e che poi si raddrizzava. I tre contadini tornavano Delianuova esterrefatti. Non le ho telegrafato perché fenomeno fumo simile ad un pino, forma osservata Plinio anno 79 Cristo, Vesuvio, mi ha sorpreso ed ho disposto esplorazione domani facendola intesa risultati”.

Una voce incontrollata che innesca un tam-tam inarrestabile. Il rischio di una nuova Pompei tutt’altro che remoto. Esploratori vengono mandati a Montalto, ma la quantità di neve caduta è tale da rendere impraticabile un sopralluogo.

I fenomeni di psicosi collettiva svaniscono però con la stessa rapidità con la quale si manifestano. E così noi non sapremo mai cosa fosse il “rombo enorme mugghiante accompagnato vivo bagliore” annotato dai volontari inerpicatisi fino a Montalto, nel lontano gennaio del 1895.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 14 febbraio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/63898-quando-l-aspromonte-divento-un-vulcano.html

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A cento anni dalla Grande Guerra: un’idea… se siete d’accordo

Ho assistito ieri pomeriggio alla conferenza “Il dovere della memoria. Fonti per la storia della Grande Guerra”, organizzata dall’Archivio di Stato di Reggio Calabria, che segna l’avvio di una serie di attività didattiche e formative promosse dalla Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale e dal Sed (Centro per i servizi educativi del museo e del territorio) – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Obiettivo del progetto è la scoperta e la valorizzazione di materiale di interesse storico (documenti, reperti, testimonianze sugli aspetti culturali, sociali, economici della prima guerra mondiale), utile per aggiungere tasselli di conoscenza alla “inutile strage”, secondo la celebre definizione di Benedetto XV.

All’esaustiva presentazione del progetto da parte del direttore dell’archivio, Mirella Marra, è seguito l’intervento di Giovanna Manganella, discendente del generale Aurelio Bondi, comandante del XVI Corpo d’Armata Artiglieria e Primo aiutante di Campo del Duca D’Aosta, che ha messo a disposizione dell’archivio e della collettività reperti di grande interesse: stampe, fotografie, frammenti di proiettili e bombe, il cannocchiale da campo e il bastone dell’avo, una mazza ferrata utilizzata dagli austriaci per finire i soldati italiani agonizzanti.

Subito dopo, lo storico reggino Agazio Trombetta ha espresso le sue prime considerazioni sullo studio del fondo documentario che qualche anno addietro i Vigili del Fuoco di Reggio Calabria versarono all’archivio di Stato.
Alla fine della conferenza ho scambiato qualche impressione con la dottoressa Marra e con il professore Franco Arillotta, presente e a al solito molto garbato e prodigo di consigli.

Che dire? Un pensierino mi è sorto e anche l’idea di come procedere. Tornerò nei prossimi giorni per capire meglio come articolare uno studio su ciò che potrebbe essere interessante per Sant’Eufemia d’Aspromonte. Sarebbe però molto bello se chi è in possesso di materiale storico relativo alla prima guerra mondiale (testimonianze, documenti o reperti) lo mettesse a disposizione della collettività e, ovviamente, a disposizione anche dello studio che ho in testa.

Insomma, io l’ho detto…

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Peppe, un buono

È morta una persona buona. Non servono giri di parole. Bastava leggere la commozione negli occhi di chi neanche respirava mentre il carro funebre faceva il suo ingresso nel camposanto.
Si fanno filosofie, sulla vita e sulla morte. E poi scopriamo, sempre, che è tutto molto più semplice dei nostri ragionamenti. Perché i sentimenti hanno una vita propria, erompono con la forza della verità. E la verità è che Peppe Panuccio era una persona semplice, che amava e che per questo era amata. La morte è una rivelazione, mette in chiaro tutto.

Non doveva finire così. Ma forse ha ragione uno dei suoi cinque figli quando dice che la montagna, che Peppe adorava, l’ha chiamato a sé. Incidente sul lavoro, ennesima “morte bianca” di questa guerra che quotidianamente miete vittime innocenti nei cantieri. E proviamo dolore autentico, amarezza per questa vita spezzata a 56 anni. Per questo lavoratore onesto e instancabile.
Non è una frase di circostanza: “era un grande lavoratore”. Non è retorica perché la sua vita “era” il lavoro. Madre natura aveva donato a Peppe la forza di un toro, due braccia possenti e un cuore d’oro. La sua lotta quotidiana e dignitosa per un pezzo di pane è il riscatto di chi non ha niente, ma non per questo si piange addosso. È l’esempio davanti al quale inchinarsi, riverenti.

Tra di noi abbiamo ricordato quando, prima dell’arrivo del muletto, scaricava i tir della concime portando sulle spalle fino a tre sacchi da mezzo quintale; quella volta che sollevò una Fiat 127 e la spinse in avanti come una carriola; quell’altra che sfondò il tavolino nello sforzo finale e vincente di un braccio di ferro; tutte le serate in piazza, alla fine della festa della Madonna del Carmine o di qualche manifestazione dell’associazione Sant’Ambrogio: attorno a una panchina, lui con l’organetto e Mimmo Comandè con il tamburello, e via di tarantella, la sua grande passione.

Ma Peppe non era solo questo. Peppe era la sensibilità di chi si commuove fino alle lacrime di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, era la consapevolezza di chi sa che il rancore e la vendetta non portano da nessuna parte, anche se ti ammazzano il padre per un bicchiere di vino quando sei ancora in fasce, costringendoti a un’infanzia di stenti.
Era quella frase che ripeteva spesso e che ora, nella sua disarmante semplicità, diventa insegnamento: “ndamu a voliri beni”, dobbiamo volerci bene.

*Un ringraziamento a Filippo Lombardo per la gentile concessione della fotografia

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Le colpe dei figli ricadano sui padri

Vergogna, indignazione, amarezza. Sentimenti che esprimono rabbia per l’ennesimo atto di barbarie inferto, da noi stessi, alla nostra terra. Perché è comodo attribuire sempre al prossimo la responsabilità dei disservizi che quotidianamente tutti siamo in grado di constatare, con conseguente e sacrosanta irritazione. Dalle guerre puniche in poi, è sempre colpa degli altri. Sarebbe ora di smetterla con i piagnistei e cominciare a chiedere cosa facciamo noi per rendere migliore la terra in cui viviamo. Cosa fanno i nostri figli. E quanta responsabilità hanno famiglie e collettività per i comportamenti sbagliati di questi ragazzi.

Abbiamo trasporti da terzo mondo, su strada e su linea ferrata. D’accordissimo. Posti raggiungibili solo mettendo a rischio l’incolumità personale e con tempi biblici. Un’economia asfissiata dalla lentezza delle comunicazioni. Ci lamentiamo per le corse soppresse, per quelle che non ci sono e che andrebbero invece introdotte, per gli autobus che non funzionano. Giustamente.

Poi però, sempre a casa nostra, periodicamente i pullman vengono devastati: vetri sfondati, sedili divelti o, addirittura, qualche mezzo avvolto dalle fiamme, a rischiarare il cielo stellato. Ogni tanto, qualche conducente intimidito da chi non vuole pagare il biglietto o si è sentito offeso da un rimprovero “inopportuno”. Sempre omini sono, anche a quattordici o quindici anni: non è che il conducente può alzare la voce per cercare di ristabilire l’ordine, anche se quelli stanno smontando l’autobus o si divertono ad importunare i compagni di viaggio.

Non bisogna minimizzare quello che accade da troppo tempo su molti autobus di linea. Derubricare un atto vandalico a bravata commessa da ragazzini vivaci è intellettualmente disonesto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: delinquenti, inciviltà.
Ieri qualcuno ha pensato bene di tentare di incendiare l’auto di Antonio Melara, autista sugli autobus delle Ferrovie della Calabria nella tratta San Procopio-Sinopoli-Sant’Eufemia. Stamattina i pullman non sono partiti: servizio interrotto. La “colpa” dell’autista? Avere “preteso” che alcuni ragazzi pagassero il biglietto.

Altri studenti sono stati costretti a saltare le lezioni, i più fortunati sono stati accompagnati dai genitori. D’altronde, quando viene a mancare un servizio, a farne le spese è sempre chi non può ovviare a disfunzioni e inefficienze del settore pubblico. Si tratti di scuole, ospedali, trasporti. Se un giorno l’azienda dovesse malauguratamente decidere di sospendere la corsa, il danno maggiore lo patirebbe chi non ha altro modo per raggiungere Reggio.

In una società in cui nessuno è mai responsabile di niente (entrate in un qualsiasi ufficio pubblico e preparatevi al ping-pong da una stanza all’altra), sarebbe già una mezza rivoluzione inchiodare le famiglie alla responsabilità sull’educazione dei figli. Se un ragazzo allaga una scuola, taglia le gomme all’auto di un insegnante che gli ha dato un brutto voto, sfonda il vetro di un autobus, logica vuole che tocchi ai genitori risarcire materialmente il danno. E così deve essere.

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Le parole che non ho detto

Avrei voluto dire che è grande quella comunità che riesce ad essere solidale e generosa, che si stringe con affetto attorno a chi ha bisogno. Esprimere profonda gratitudine agli oltre duecento partecipanti alla piccola grande iniziativa dell’Agape, la tombolata di solidarietà per raccogliere fondi da utilizzare per consentire a una famiglia di Sant’Eufemia di accompagnare periodicamente al “Gaslini” di Genova un bimbo affetto da disabilità.

Avrei voluto dire che il sogno delle associazioni di volontariato è quello di scomparire, perché ciò significherebbe che lo Stato riesce a soddisfare i bisogni di tutti. Ma purtroppo non è così: ecco perché occorre incoraggiare e sostenere chi fa volontariato. Sono povere, molto povere, quelle società che non possono contare su questo straordinario patrimonio di umanità.

Avrei voluto dire, soprattutto ai giovani, di avvicinarsi a queste realtà, perché ne trarrebbero certamente un arricchimento e la convinzione di dare un senso profondo alle proprie vite.

Avrei voluto dire che, a volerlo, il tempo per fare del bene lo si può sempre trovare. Perché nessuno ha mai preteso un impegno totalizzante, che tra l’altro contrasterebbe con le ragioni stesse del volontariato. Per restare all’Agape, è sufficiente dare un contributo anche una volta all’anno, per una qualsiasi delle iniziative che l’associazione svolge. Può sembrare poco, ma è soltanto sommando i tanti “poco” che si ottiene il “molto”.

Avrei voluto dire che sulla disabilità c’è ancora molto da lavorare e che nessuno dovrebbe tirarsi indietro. Negli ultimi anni si comincia ad avvertire un approccio diverso, in positivo. Ma non dimentico la prima volta che Peppe Napoli mi portò in una abitazione e vi trovai un ragazzo seduto su una sedia, in un angolo buio.
Avrei voluto dire che a queste famiglie bisogna stare vicino, con gesti concreti e quotidiani: si tratti di lasciare libero il parcheggio riservato ai disabili o di costruire scivoli e pedane d’ingresso ovunque, affinché nessun posto sia inaccessibile per chi si muove su di una sedia a rotelle.

Avrei voluto dire che sogno un mondo senza barriere architettoniche. Un mondo in cui tutti riescano a rivolgersi a un soggetto diversamente abile senza assumere un tono pietoso. Un mondo in cui tutti abbiano pari dignità non perché lo impone la Costituzione, ma perché così è. Un mondo in cui a tutti sia consentito di correre per realizzare le proprie aspirazioni, anche quando le gambe non vanno.
Avrei voluto dire tutto questo, ma so che un conto è scrivere, altra cosa è parlare con la tempesta dentro.
E quindi ho preferito affidarmi alle parole di Giuseppe Pontiggia, tratte dall’autobiografico Nati due volte (2000), al quale nel 2004 Gianni Amelio si ispirò per girare il commovente Le chiavi di casa:

Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà un’esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati. Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita.

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Libertà è… offrire un caffè!

In principio fu Giovanni Giolitti: “un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”. Poi qualcuno aggiunse la stretta di mano, che il fascismo scoprì poco virile e antigienica; infine, toccò al caffè. In un celebre spot degli anni Ottanta, Pino Caruso rischiò di pagare caro un suo vezzo (“al signor Caruso, cuannu si l’arrimina, ci piaci sentiri u scrusciu d’a tazzina”): “mi sono rovinato, ora ci vuole il caffè per tutto il vicinato!”.

Niente a che fare, comunque, con le conseguenze nefaste che la passione per la miscela arabica procurò a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano ucciso da un caffè dell’Ucciardone corretto con la stricnina, e al banchiere Michele Sindona, al quale nel carcere di Voghera fu servito un “lungo” al cianuro.

Ed è proprio per scongiurare rovesci economici che in alcuni bar ai clienti, da diversi anni, è vietato offrire. Si legge proprio così sugli avvisi esposti: “vietato”. Ma può esistere niente di più arrogante e offensivo? Perché levare anche il piacere di offrire a un amico un caffè o una bibita qualsiasi? Ogni volta che si invade il terreno della discrezionalità altrui, imponendo o vietando un comportamento, si compie una violazione della libertà. E violare la libertà, anche quella di offrire un caffè, è cosa molto grave.

Conosco l’obiezione: si tratta di un provvedimento necessario per contrastare gli scrocconi seriali. Quelli sempre in agguato nelle vicinanze del bar, pronti a lanciarsi dentro appena vi fa ingresso la vittima di turno. Quelli che ci rimettono due euro di benzina e un set di gomme dell’auto nell’attesa del momento propizio. Quelli che si spingono addirittura nella sala gioco, sperando che qualcuno alzi lo sguardo dalla biglia del biliardo o da una mano di carte strepitosa: “hai preso il caffè?”.

L’introduzione del divieto ha quindi fondate ragioni. Economiche, perché entri per un caffè e alla fine scopri che ti è costato dieci euro, dato che in certi posti offrire è quasi un obbligo (anche molto ipocrita, certo; ma tant’è). Morali, perché ti evita di pagare per qualcuno anche quando l’unico tuo desiderio sarebbe che la bevanda si trasformasse in un potentissimo lassativo.

E qui si arriva al nocciolo della questione. A pensarci bene, il divieto ha la stessa ratio dell’obbligo di utilizzare la cintura di sicurezza, non perché può salvarci la vita, ma perché altrimenti ci becchiamo la multa. Di indossare il casco sulla moto; utilizzare paletta e sacchetto per raccogliere gli escrementi dei nostri amici a quattro zampe (ma dalle nostre parti ancora ce n’è strada da fare); non lasciare per ore il tubo dell’acqua aperto ad allagare i balconi delle case; compiere o non compiere azioni per le quali basterebbe regolarsi seguendo elementari norme di educazione o di buon senso, senza ricorrere alla minaccia della sanzione o dell’imposizione arbitraria. È, in fondo, la stessa filosofia del “ce lo chiede l’Europa”. Ché se certe cose le decidessero “i nostri” gliela faremmo vedere. Ma l’Europa è l’Europa. E quindi, forse, non ci resta che confidare in una moratoria di Bruxelles, per avere di nuovo il piacere di pronunciare: “trasiti cumpari, u cafè l’aviti pagatu”.

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