Ruggiero Settimo e Ruggero VII, quando la storia diventa un optional

Il viandante che abbia fiato e gambe per percorrere a piedi la ripida salita di via Roma a Sant’Eufemia d’Aspromonte (nota come “u carvariu: il calvario”, dal monumento che quasi in cima al percorso riproduce le tre croci del Golgota) noterà senz’altro sulla sua sinistra, alla fine del primo tratto, la viuzza che taglia verso Largo Campanella e infine digrada nell’area adiacente al torrente Nucarabella.
Un viandante curioso, che si pone delle domande perché vuole conoscere l’origine e la motivazione storica dei nomi delle strade, resterà però interdetto nel leggere sul cartello toponomastico “via Ruggero VII”. Comincerà a ripassare la storia imparata sui libri di scuola, ma niente. Tutt’al più gli balzerà in mente Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia (“Ruggero il normanno”), passato alla storia per avere riunito sotto la propria corona i possedimenti normanni dell’Italia meridionale e per avere generato Costanza, futura mamma dello “stupor mundi” Federico II di Svevia. Al “settimo” non ci arriverà mai e poi mai, semplicemente perché non è mai esistito un Ruggero con un ordinale dinastico del genere. Settimo, nel caso in questione, è infatti un cognome.

La vicenda è paradigmatica, tipica di un Paese ignorante che non conosce il proprio passato o se ne ricorda ogni tanto, in circostanze solitamente traboccanti retorica, ma verso il quale ha in fondo un atteggiamento di fredda indifferenza.
Non è sempre stato così. Sul foglio di mappa redatto dall’Ufficio tecnico del Comune nel 1880, la via viene infatti segnalata correttamente come “Ruggero Settimo”, che fu il primo presidente del Senato nella storia dell’Italia unita, morto a Malta il 12 maggio 1863 senza essere in realtà riuscito nemmeno a recarsi a Torino per prestare giuramento, a causa delle sue malandate condizioni di salute.
Si trattò, allora, di una sorta di omaggio da parte di Cavour e dell’establishment sabaudo al politico leader della rivolta siciliana del 1848, capo del governo provvisorio che aveva dichiarato decaduto Ferdinando IV di Borbone e offerto la corona del regno di Sicilia al duca di Genova, Alberto Amedeo di Savoia (il quale tuttavia non accettò l’offerta). Ma fu anche una designazione dal profondo significato politico, perché Ruggero (o Ruggiero) Settimo “dei principi di Fitalia”, antico protagonista del movimento liberale che in Sicilia aveva ottenuto la costituzione del 1812 e poi guidato il moto separatista del 1820, rappresentava quei ceti dominanti della Sicilia, un tempo autonomisti e indipendentisti, che ora venivano recuperati alla causa nazionale e unitaria.
Ventitré anni più tardi, sul foglio di mappa del 1903, veniva invece già riportato lo strafalcione in seguito puntualmente reiterato, senza che nessuno lo rilevasse. Tutt’oggi impunito, campeggia sul muro di un’abitazione, superba e avvilente dimostrazione dell’importanza attribuita alla storia in questa società fatta di solo presente.

*Ringrazio per le fotografie Fausto Monterosso
** Il ritratto di Ruggiero Settimo, realizzato da Giuseppe Patania, è custodito presso il Museo del Risorgimento di Palermo

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Che succede alla Pro Loco?

Stamattina la Gazzetta del Sud titolava: “Caos alla Pro Loco, presidente pronto a gettare la spugna”. Ho letto l’articolo con interesse: di questa associazione sono stato socio fondatore nel 1997 e membro del consiglio direttivo per quasi un decennio, dopodiché ho ogni anno rinnovato la tessera, pur non partecipando da tempo all’organizzazione di alcun evento. Il mio è più un supporto morale, se vogliamo anche una manifestazione d’affetto per quel che è stato: tra le tante cose belle fatte, mi piace ricordare la realizzazione del documentario “Don Pepè”, che ricostruiva la vita del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli più illustri e amati di Sant’Eufemia.
Parlo soprattutto da eufemiese che non può restare indifferente di fronte alla notizia della crisi di un’associazione del paese. Sono sempre stato dell’avviso che il mondo del volontariato costituisca una preziosa risorsa per i piccoli comuni. Esso va pertanto messo nelle condizioni di operare e svolgere al meglio la propria azione di valorizzazione del patrimonio umano e territoriale del quale è parte integrante. Se un’associazione chiude, siamo tutti più poveri. Da qui la preoccupazione per le dimissioni degli organi elettivi – presidente Rocco Luppino in testa – preannunciate nell’articolo, ma non ancora ufficiali.
Dispiace non aver letto nell’articolo il nome di Eufemia Costanzo. Molto di ciò che la Pro Loco ha fatto in 18 anni di attività porta la sua firma, la firma di una donna che ha sempre dato tutta se stessa per animare il paese, trascinando giovani e meno giovani nelle associazioni per le quali ha operato in 40 anni di encomiabile attività. Attività che è continuata anche in questi ultimi due anni, nonostante cioè la scarsa o nulla collaborazione della Pro Loco e la necessità di inventarsi esternamente ad essa il gruppo di supporto “Insieme per crescere”. La cito soltanto per questo, perché credo che la riconoscenza debba essere un valore e non un rimpianto. Tralascio ovviamente ogni considerazione di natura personale.
Che la Pro Loco abbia negli ultimi anni ridotto le proprie attività è un dato di fatto. Sagra della Patata e davvero pochissimo altro. Ma non sto qui a giudicare. L’esperienza nell’associazionismo mi insegna che ognuno dà quel che può, per come sa, quando ne ha tempo e voglia. Anche se ci sono dei doveri minimi nei confronti dell’associazione della quale si fa parte. Ma lo spirito è quello, altrimenti non sarebbe volontariato. Onestà intellettuale vorrebbe però che chiunque non sia nelle condizioni di “dare” un minimo di contributo si faccia da parte. Le medagliette sul petto non hanno nessun senso.
So che è antipatico parlare di sé, ma è quello che io ho fatto proprio con la Pro Loco otto anni fa, quando mi resi conto che l’associazione per me era diventata un peso. Mi dimisi da segretario, lasciai il campo e mi dedicai alle attività che tuttora svolgo con l’Agape. Perché questo mi rende felice (“e la felicità non è un fatto secondario”), non certo per questioni personali nei confronti di chicchessia.
Voglio sperare che da questa situazione si possa venire fuori. Me lo auguro soprattutto per il paese. Ma serve il coraggio di fare qualche passo indietro. L’attuale direttivo è stato eletto nel 2013, a neanche un anno dalle elezioni comunali. In quella circostanza furono riconfermati presidente Rocco Luppino e vicepresidente Eufemia Costanzo (più Pino Sobrio nel direttivo), mentre un nuovo gruppo – espressione del nuovo corso politico e amministrativo del paese – entrò a far parte del consiglio d’amministrazione. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è il fallimento di un’associazione attiva da quasi un ventennio.
Il peccato originale del direttivo eletto nel 2013, a mio avviso e senza farne una questione di nomi, sta proprio nel tentativo di dare una connotazione “politica” alla Pro Loco. Il corto circuito è scattato per la confusione dei ruoli e perché dovrebbe essere la politica a mettersi sempre al servizio delle associazioni. Non il contrario.

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Il triste centenario dell’Istituto antoniano delle Figlie del Divino Zelo

Il 29 giugno del 1915 le campagne di Sant’Eufemia erano distese gialle venate di verde, come se sopra la terra già brulla fosse passato il pennello di un pittore a dipingere le spighe di grano quasi del tutto mature e accarezzate dal vento. “Giugnu farci in pugnu”, confermava infatti la saggezza popolare per indicare l’inizio della mietitura, lavoro che poi avrebbe impegnato le giornate dei braccianti per tutto il mese di luglio: “a giugnu, u ’ranu c’u pugnu; a giugnettu, u ’ranu è nettu”.
Il mattino annunciato dal sole caldo e accecante sarebbe stato diverso dai precedenti, anche se i protagonisti di quella giornata memorabile non sapevano che si stavano apprestando a scrivere una pagina storica per quei mucchietti di case conficcate nella carne viva dell’Aspromonte, ancora sanguinante per le ferite del terremoto del 1908. L’inizio di storia d’amore giunta fino ai nostri giorni, appena in tempo – forse – per essere celebrata prima che ne venga decretata la fine, cent’anni dopo.
Quel lontano giorno Padre Annibale Maria di Francia, proclamato santo nel 2004, celebrò la messa e consacrò la Casa delle Figlie del Divino Zelo a San Giuseppe e al Cuore SS. di Gesù. Il religioso arrivava da Messina, città nella quale spese la sua vita (vi nacque il 5 luglio 1851, vi morì l’1 giugno 1927) al servizio dei bisognosi e dei derelitti del quartiere “Avignone”, il più degradato del capoluogo peloritano. Qui, tra i tuguri che erano stati proprietà dei marchesi Avignone (case di “Mignuni”, per il volgo), a partire dal 1878 Padre Annibale svolse la sua opera di redenzione morale e materiale degli ultimi (“cu vai a casa du Patri ’i Francia, trasi, si ’ssetta e mancia”), culminata con la fondazione di un orfanotrofio antoniano femminile (1882) e di uno maschile (1883). Nel 1887 fondò la Congregazione religiosa delle “Figlie del Divino Zelo” e nel 1897 la Congregazione dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, entrambe dedite alla preghiera per le vocazioni e all’assistenza e all’educazione degli orfanelli e dei bambini abbandonati.
Padre Annibale giunse a Sant’Eufemia in compagnia della messinese Madre Maria Nazarena Majone (era nata a Graniti il 21 Giugno 1869, morì a Roma il 25 gennaio 1939), cofondatrice delle “Figlie del Divino Zelo”, con la quale condivise la fatica e l’amore del servizio per i poveri del quartiere “Avignone” e che fu la vera artefice della fondazione di nuove “Case”, oltre a quella di Sant’Eufemia: San Pier Niceto (Messina, 1909), Trani (Bari, 1910), Altamura (Bari, 1916), Roma (1924), Torregrotta (Messina, 1925), Novara di Sicilia (Messina, 1927).
Con loro una grande eufemiese, suor Maria Rosaria Ioculano, nata dal medico Antonino e da Caterina Versace il 27 agosto 1849, la quale aveva consacrato alla Congregazione la vita e donato a Padre Annibale tutti i suoi beni. Il 26 luglio fu quindi inaugurato il laboratorio per le ragazze del paese e, di lì a poco, l’asilo infantile.
Nel corso del Novecento l’Istituto antoniano di Sant’Eufemia ha accolto molte ragazze decise a prendere i voti, mentre ancora più numerosi sono stati gli orfanelli e i bambini in condizioni di degrado economico e sociale ospitati nella struttura di via delle Rose che il 3 novembre 1927 raccolse l’ultimo respiro di suor Ioculano.
Ora sembra che su questa storia si stia per scrivere la parola fine. Per una ragione “spirituale”: la crisi vocazionale che ha ridotto sensibilmente il numero delle suore presenti nell’Istituto. Per una prettamente economica: il progressivo calo degli iscritti alla scuola dell’Infanzia paritaria, le cui rette di fatto mantengono l’intera struttura, che è diventata “casa di accoglienza per minori” dopo la chiusura degli orfanotrofi decretata a partire dal 31 dicembre 2006 (legge n. 149 del 28 marzo 2001).
L’anno scolastico 2015-2016, che partirà regolarmente nonostante i pochi iscritti (40) potrebbe davvero essere l’ultimo.

*Foto tratta dalla pagina Facebook Scuola FDZ – Sant’Eufemia d’Aspromonte

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La “Primavera di libri” del Terzo Millennio

Saranno due gli appuntamenti di “Primavera di libri”, la kermesse culturale ideata dall’Associazione Terzo Millennio, che già nel 2014 ha visto succedersi nel “salottino” allestito all’interno dell’Aula consiliare del Palazzo municipale Francesco Idotta, Giuseppe Caridi ed Elisabetta Villaggio.
“Primavera di libri – ci dice il presidente del Terzo Millennio Francesco Luppino – rappresenta per me un regalo che voglio offrire a me stesso, ai soci e ai simpatizzanti dell’associazione: un’occasione per arricchire e stimolare la voglia di cultura consapevole che questa, e solo questa, è il segreto per poter fare la differenza”.
La seconda edizione si articolerà in due incontri. A rompere il ghiaccio, sabato 9 maggio alle ore 18, Eva Gerace e Francesco Idotta con la presentazione di Educare per crescere. Il viaggio del camaleonte (Città del Sole, 2015), l’esito cartaceo di un progetto “per l’educazione alla vita” avviato da un gruppo di studiosi italo-argentini al fine di consegnare ai giovani “uno strumento di apprendimento sull’amore e i vincoli con gli altri” che privilegi “l’etica delle differenze, la sola che possa generare amore e rispetto per la vita, quell’amore che trascende la smania di dominio e amplia la capacità di abitare il proprio spazio, il proprio tempo e la dimensione di ognuno”.
Francesco Idotta, docente di storia e filosofia presso il locale liceo scientifico “Enrico Fermi” e influente maitre a penser per generazioni di studenti eufemiesi, ha contribuito alla sezione narrativa del libro: tre gruppi di racconti, illustrati dalla pittrice Patricia Gerace. La parte scientifica è invece curata da Eva Gerace, specialista in psicologia clinica dalle molte suggestioni letterarie, come hanno potuto constatare gli eufemiesi che nell’agosto scorso ne ascoltarono l’intenso intervento in occasione del Premio “Merica” assegnatole dal gruppo “Insieme per crescere”.
Il secondo incontro (sabato 16 maggio, sempre alle ore 18) sarà invece dedicato a un incontro-dibattito sul tema “Perché restare?”. Questione sempre più attuale per giovani e meno giovani alle prese con il lacerante dubbio se valga la pena continuare a sperare di riuscire a realizzare qua il proprio futuro o se non sia il caso di arrendersi e seguire l’esempio dei tanti che quotidianamente abbandonano la nostra terra e cercano una possibilità al Nord o all’estero.
Chi scrive ne parlerà con Katia Colica, scrittrice e giornalista “senza anestesia”, autrice di racconti, poesie, sceneggiature teatrali. La più recente, edita ad aprile da Città del Sole e applauditissima alla prima presentazione, Un altro metro ancora, “monologo sul bordo della vita” che racconta un episodio realmente accaduto nel corso della seconda guerra mondiale: la storia di un gruppo di sfollati salvati da un eroe “per caso” che si offre di essere il primo della colonna di uomini e donne in procinto di attraversare un campo minato. Pagine intrise di impegno civile e lirismo, il marchio di fabbrica dei suoi due romanzi-inchiesta di successo (mentre il terzo è di prossima pubblicazione): Il tacco di Dio. Arghillà e la politica dei ghetti (Cdse, 2009) e Ancora una scusa per restare. Storie di ordinaria invisibilità in una notte metropolitana (Cdse, 2012).

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Una vita in piega

I ricordi sono anarchici, indisciplinati, irridono le regole del fair play. Colpiscono a tradimento, quando meno te l’aspetti. Stai facendo le tue cose, ti si parano davanti e non si spostano neanche a sgomberarli con gli idranti. Non si scappa dai ricordi, conoscono scorciatoie che li fanno arrivare sempre prima di te al prossimo incrocio. E lì ti aspettano. La fuga è una scelta che non paga. Mai. Perché fuggire dai ricordi è fuggire da se stessi. Impossibile. Meglio rassegnarsi, inspirare forte e affrontarli, anche se il nodo in gola punge nostalgia. Prenderli in braccio e cullarli. Cullarsi con essi. Con quel groppo che forse, alla fine, verrà in qualche modo schiacciato giù.
Sono trascorse quasi due settimane e Pino Condello è ancora all’ingresso del municipio. Si gira e ride dentro il gilet nero di pelle, con il sorriso che ho rivisto – o mi è sembrato di vedere – anche il giorno successivo, su un viso che ormai non era più il suo, eppure in posa per salutarci con il caratteristico riccio delle sue labbra. Un ghigno simpatico. L’espressione di chi sa che alla vita bisogna sempre sorridere, anche se a volte l’allegria è una maschera esibita per tenere lontane le domande indiscrete. Quelle imbarazzanti, capaci di farci mostrare agli altri senza veli e che richiedono in chi ascolta uno sforzo di comprensione. Mentre il suonatore Jones non ha di questi impicci: continua a suonare “per tutta la vita”, perché la gente ha stabilito che è quello che sa fare, e va bene così.
È tra la porta di vetro e la scalinata, il braccio ancora alzato a salutare senza guardare, girato di spalle e in cammino. Mentre va via, come un titolo di coda che sfuma. Come la sua vita, in un pomeriggio che nessuno avrebbe immaginato. Che ha finito per cristallizzare aneddoti e imprese, ai quali ognuno si è aggrappato per farsi forza tra occhi rossi, increduli.
“Pinuccio” era l’amico di tutti. Chiunque l’abbia conosciuto ha almeno un episodio da raccontare, incorniciato dal suo sorriso: “ricordiamolo – ha raccomandato il fratello Natale – nella sua voglia di vivere e condividere la buona compagnia; nella sua leggerezza e nella sua allegria”.
Originale, a volte bizzarro, non certo “pazzo”, anche se a quel soprannome ci teneva perché se l’era guadagnato sul campo. A suon di imprese impossibili su una delle sue numerose moto: scavalcando macchine o domando le due ruote con una gamba ingessata, dritta come la lancia di un soldato medievale in sella a un cavallo; sulla Ducati 998 trasformata ogni mattina in un proiettile rosso per giungere in orario sul posto di lavoro. Con la strafottenza dello studente impenitente. Con gli occhi puri del bimbo della fiaba di Andersen, l’unico in grado di accorgersi che il re è senza vestiti. Perché spesso occorre una buona dose di pazzia per vedere e rivelare la verità, per dipingere la gente con aggettivi azzeccati e locuzioni affilate. Per prenderci sempre. Vivere al di fuori degli schemi imposti dalla società, che costringono gli individui a comportarsi come gli altri vogliono, mortificandone l’autenticità.
A un “pazzo” – che comunque “può avere un attimo di lucidità, mentre lo stupido è senza speranza” – è consentito giocare con la vita e farsi beffe del prossimo, usare la battuta irriverente come la penna di un moderno Cirano: con questa spada vi uccido quando voglio.
Sfrontato, mai volgare o maleducato. Libero. Tra i pochi in paese ad avere il coraggio di dire ciò che pensava di questo “circo” di quattromila anime, un posto in cui “manca soltanto il serial killer”. Un solitario amante della compagnia, perché il tempo della sua vita l’ha sempre scandito lui.
A modo “suo”, avrebbe cantato Frank Sinatra.
Con quel buco nero che forse ogni tanto lo inghiottiva, chissà. Il ricordo della morte al suo fianco durante i lunghissimi giorni del coma, la lotteria della vita che estrae il suo numero, salvandolo, e condanna il compagno in un incidente con la moto, ancora ragazzi.
Di questa storia vissuta di corsa, in piega, rimane l’oro dei capelli di Walter scompigliati dal vento, come nelle pedalate di padre e figlio in mountain bike per le strade del paese. Le note del jazz e del blues della colonna sonora di un film finito troppo presto. Allegria e leggerezza.

*Entrambe le fotografie sono tratte dal profilo Facebook di Pasquale Pellizzeri, nella seconda alla guida del Sidecar

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Abbasso le bombe, viva la bellezza

Una reazione istantanea come un riflesso condizionato. Come il piede che scalcia non appena il martello colpisce il ginocchio. Come il sorriso che scatta naturale davanti alla bellezza di questi ragazzi colorati e con gli occhi pieni di speranza. Occhi che non si arrendono, che non possono arrendersi perché se lo fanno loro c’è davvero da abbassare la saracinesca e sparire. Lasciare il campo ai bruti che sabato notte, ma neanche tanto (alle 21.40 circa), hanno tentato di colpire al cuore l’avamposto più alto della cultura eufemiese, quel liceo scientifico che rappresenta la speranza e l’argine. La speranza di un futuro migliore; l’argine alla barbarie che pure resiste e rilancia. Per questo motivo non occorre abbassare la guardia e insistere, tenere i riflettori accesi perché anche se non sono stati rilevanti i danni materiali dell’esplosione nei locali che ospiteranno il liceo “Fermi”, è grave l’azione subita da tutta la città. Non è stato colpito il liceo, attentati del genere feriscono il futuro di un’intera comunità, che per questo è chiamata a reagire. A schierarsi. A metterci la faccia. Accanto ai ragazzi e ai loro bellissimi striscioni di vita, contro la morte della violenza e della sopraffazione.

Farlo con ancora più forza di quella espressa stamattina nel corteo partito dalla sede attuale del liceo e che, percorrendo le vie del paese, ha fatto tappa nei locali dell’ex scuola elementare “Purgatorio” e da lì è poi approdato nella sala consiliare del Palazzo municipale, dove due portavoce degli studenti hanno rivolto al sindaco di Sant’Eufemia Mimmo Creazzo l’invito a non indietreggiare nell’impegno a favore della legalità e della civiltà:

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, 
e fui contento, perché rubacchiavano. 
Poi vennero a prendere gli ebrei, 
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 
Poi vennero a prendere gli omosessuali, 
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. 
Poi vennero a prendere i comunisti, 
e io non dissi niente, perché non ero comunista. 
Un giorno vennero a prendere me, 
e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Martin Niemöller) 
Iniziamo con la citazione di questo testo, perché pensiamo che un episodio come quello avvenuto sabato sera, un ordigno esploso dentro la nuova scuola, non possa (e non deve!!!) passare sotto silenzio. 
Il silenzio delle persone genera l’indifferenza: l’indifferenza uccide! 
Noi non possiamo tacere sull’uso di metodi che generano violenza e paura. 
Sogniamo un luogo, e Sant’Eufemia può essere quel luogo, dove non abbiamo più paura e dove pensiamo che lavorare per il Bene Comune sia un valore irrinunciabile. Perseguire il Bene Comune vuol dire, soprattutto, tutelare i diritti dei più deboli, di quelli che stanno ai margini della società, di chi non ha voce. 
Sogniamo un luogo in cui possiamo vivere relazioni basate su collaborazione e concordia, perché pensiamo che la Pace sia una delle condizioni fondamentali per vivere felici e vivere una vita autentica. 
Per questo scendiamo in piazza e ci mettiamo la faccia, perché il nostro futuro sia possibile e non venga precluso da chi crede di opprimere e prevaricare sugli altri. 
Chiediamo a chi gestisce la cosa pubblica di testimoniare in modo più responsabile la tutela dei diritti dell’uomo e la promozione della bellezza della condizione umana. 

Un inno alla partecipazione contro il disimpegno, l’indifferenza e l’apatia, per una battaglia che è di tutti. Che ognuno di noi deve sentire propria. Perché, come ha sottolineato nel suo intervento la dirigente scolastica del “Fermi” Graziella Ramondino, “la scuola è da sempre stata il tempio della cultura e della civiltà: la profanazione di una sua istituzione, quale che sia la matrice, simboleggia comunque un attentato alla civiltà e al progresso degli uomini e va respinta con ogni forza ed energia per evitare che conquiste millenarie dell’occidente civilizzato regrediscano d’un colpo nella barbarie”.
In una comunità che deve essere solidale, il momento dello scontro e delle divisioni non può sussistere quando viene colpito il futuro delle nuove generazioni. L’auspicio è che siano organizzate altre iniziative, oltre a questa spontanea e “improvvisata” dalla sera alla mattina attraverso il tam-tam dei social sulla spinta emotiva dell’indignazione, alla quale non tutti coloro che avrebbero voluto hanno potuto partecipare. Un consiglio comunale aperto darebbe una dimensione ufficiale e un taglio istituzionale, com’è giusto che sia quando episodi così gravi colpiscono la cittadinanza.
Questo è il momento dell’unità, l’ora in cui la comunità diventa testuggine. L’ora in cui tutti devono dare un contributo di civiltà, la goccia che insieme ad altre gocce diventa mare. L’ora in cui l’I care di don Milani diventa azione.
Perché quel “me ne importa, mi sta a cuore” contiene la forza rivoluzionaria del cambiamento reale, quello delle coscienze che la scuola è chiamata a formare. Delle donne e degli uomini che verranno e che vogliamo migliori di noi.

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Mariuzza

Ci aveva aspettati nel letto. Non in cucina, dove anche dalla sedia a rotelle fino all’anno scorso riusciva a cucinare per figli e nipoti. Come le altre volte aveva baciato il ricordino dell’Agape e l’aveva fatto sistemare sulla specchiera antica, accanto a quelli più vecchi e alle foto in bianco e nero della sua vita. Il nostro modo di celebrare Natale, Pasqua o la “Giornata Mondiale del Malato” istituita nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’11 febbraio di ogni anno impegna i volontari dell’associazione nelle visite domiciliari e presso la residenza sanitaria assistenziale “Mons. Prof. Antonino Messina” di Sant’Eufemia. Una lunga fila di presepi, madonnine, rosari, immaginette sacre. L’essenza dei suoi giorni, comprensibile forse solo da chi ha la fortuna del dono di una fede incrollabile.
Mariuzza aveva avuto questo regalo. Almeno questo. La sua vita non è stata affatto rassegnazione, un calare la testa davanti ai colpi implacabili del fato. Se era una prova, l’ha superata brillantemente. E non perché abbia affrontato con dignità gli schiaffi che il destino non le ha risparmiato, ma perché delle avversità ha fatto la ragione della sua vita. Ergendosi a modello di mamma e di donna. Mostrando agli altri, a tutti noi, quanta forza può sprigionare l’amore per la propria famiglia.
Una lotta quotidiana e infinita contro malattie e disabilità, condotta col sorriso e senza mai un lamento. Alzandosi alle tre di notte per fare il bucato, perché di giorno c’era da mandare avanti il negozio di alimentari e un fratello, due figli e infine un marito bisognosi d’assistenza.
I veri eroi di questi nostri tempi sciagurati sono le donne e gli uomini come Mariuzza. Eroi silenziosi e forti, capaci di salvare il mondo con l’umanità dell’esempio, con l’umiltà che solo i grandi possiedono.
Non abbiamo saputo fare altro che abbracciare quel bambinone che singhiozzava il dolore di una solitudine che siamo certi la famiglia non permetterà. Eppure in quelle lacrime c’era l’amore più limpido e puro, che spesso non riusciamo a vedere perché lo cerchiamo dove ce l’aspettiamo, nella banalità delle nostre vite “normali”.

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La maggioranza non c’è più

Prima o poi doveva accadere, perché anche l’elastico più resistente non può sfidare le leggi della fisica e alla fine si spezza. Più o meno è successo questo all’interno dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia. Dispiace perché la mia personale opinione è che si sia persa una buona occasione per tentare davvero di scrivere “un’altra storia”, come recitava lo slogan elettorale della lista “Leali al Paese” che nel maggio del 2012 portò alla guida del Comune Mimmo Creazzo.
Dalle cronache dei giornali abbiamo appreso i termini della questione, sulla quale non intendo in questo momento pronunciarmi anche se qualche passaggio interessa l’azione politica del Partito Democratico, del quale sono segretario e la cui costituzione, nel novembre 2013, non era di certo finalizzata a mettere il bastone tra le ruote a un’amministrazione che molti di noi avevano contribuito ad eleggere, quando ancora non esistevamo come gruppo politico organizzato.
Occorre invece sottolineare le conseguenze politiche che comporta la rinuncia alla carica di assessore espressa dai primi due eletti, Pasquale Napoli (216 voti) e Carmelo Pirrotta (183). Un totale di 399 voti su 1.255 complessivi della lista, ben oltre i 99 registrati tra i vincitori delle elezioni comunali e lo schieramento classificatosi secondo con candidato a sindaco Gianni Fedele.
Sul piano numerico, è evidente, la maggioranza non c’è più. Perché il sindaco non ha più la legittimazione del voto popolare. Senza entrare, ripeto, nel merito della questione e nell’ascolto delle diverse campane, il dato politico e inconfutabile è questo. E a nulla può servire la sicumera del sindaco Creazzo, che sul quotidiano “Il Garantista” di oggi tranquillizza i cittadini eufemiesi sostenendo che “i numeri per governare ci sono”.
Mi permetto di obiettare che i numeri non ci sono affatto. Il nostro consiglio comunale, complice una legge sciagurata – poi fortunatamente abrogata – è composto da otto membri, sette consiglieri (cinque di maggioranza e due di opposizione) più il sindaco: al prossimo rinnovo – vivaddio – i componenti saranno dodici più il sindaco.
Facendo di conto con le mani, otto diviso due fa quattro. Ci sono quindi i numeri per fare svolgere il consiglio comunale (è sufficiente la metà dei consiglieri), ma non quelli per approvare i punti all’ordine del giorno, per cui necessita la metà più uno dei consiglieri: cinque, se essi saranno di volta in volta tutti presenti. Certo, nel caso di assenze “strategiche”, anche con quattro voti a favore – quelli che sulla carta gli sono al momento rimasti – Creazzo non avrà problemi. Ma in quel caso, o nell’eventualità di un soccorso diretto proveniente dai banchi della minoranza, ci troveremmo di fronte a un quadro politico molto distante da quello deciso dagli eufemiesi quasi tre anni fa.
Anche sotto il profilo della democrazia, l’attuale situazione suscita qualche perplessità. Sempre sul “Garantista” il sindaco informa infatti che sta già facendo giunta con l’attuale vicesindaco. In due: un po’ pochi, francamente, per decidere le sorti di una comunità di oltre 4.000 abitanti.
La situazione è questa, per niente incoraggiante. Il sindaco si trova a un bivio: vivacchiare per altri due anni, magari confidando sull’aiuto della minoranza nei passaggi delicati che senz’altro si presenteranno; oppure prendere atto che è fallito il progetto politico per il quale i cittadini gli avevano espresso fiducia e trarne le conseguenze, dimettendosi e ridando la parola agli elettori.
Il cerino è nelle sue mani.

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La nevicata del ’15

«Nesci fora, miserabili!».

A oltre vent’anni di distanza sembra di sentirle ancora le parole di sfida di compare ’Ntoni Garzo al nipote Salvatore, tuffatosi letteralmente sotto il lettone dei nonni una volta scoperto del tentativo di sottrarre furtivamente dal comodino le chiavi della Panda 4×4 protagonista dei nostri testacoda notturni sulle strade innevate dei primi anni ’90. Perché la gente mormorava anche allora e all’orecchio del quasi ottantenne vucceri in pensione, ma vecchio uomo di mondo, la soffiata era arrivata tempestiva e a niente era servita l’accortezza che usavamo nel ripassare la macchina con la pelle di daino per asciugarla, prima di richiuderla nel garage.

Ho pensato a ’Ntoni Garzo stamattina, forse perché anche quella volta – come oggi – percorsi a piedi le strade del paese e in piazza mi fermai a parlare proprio con lui, personaggio mitico e simpaticissimo che noi ragazzi adoravamo, ricambiati. Se scalo ulteriormente la montagna dei ricordi rivedo invece mio fratello Mario mingherlino, incantato dal librare lieve e muto dei fiocchi e con il naso attaccato alla finestra per tutta la notte, che di primo mattino salta fuori per andare a scattare fotografie, “prima che la neve venga calpestata”.

È quello che ho cercato di fare, che molti altri come me hanno fatto, perché una nevicata così non capitava da anni e ora chissà quando ricapiterà. Ho mangiato neve e succhiato ghiaccioli, come in quel tempo lontano che di colpo si è ripresentato lungo le stradine solitarie dei Candilisi e di Crasta, nei tornanti che si arrampicano fino alla Campagnola.

E pazienza se l’incanto è durato poco: troppe jeep, molti piloti scatenati su macchine trasformate in spazzaneve, tanto che verrebbe da invocare un divieto di circolazione su mezzi a motore per “ragioni di poesia”, per non avere altra compagnia che il crocchiare della neve sotto gli scarponi, restare a guardare i merli grassi volare da un ramo all’altro, farsi illudere dal canto libero della fiumara che si gonfia e allunga il passo per giungere a valle.

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“U Burgu” in fiamme

Ninuzzo è un dodicenne vivace, che non sta fermo un secondo neanche a tenerlo legato. Sempre in giro ad armari chiacchi per le lucertole che, una volta catturate, si diverte a portare al guinzaglio. Un paio di scarpe con le ttacce che spesso toglie perché gli sono d’impaccio quando deve correre veloce per portare in salvo la frutta rubata negli orti che fanno da corona al centro abitato. Pantaloni di tarpa e maglie grosse anche d’estate: è importante essere preparati ad affrontare il freddo, quando arriverà; alla calura si può sempre ovviare rinfrescandosi con l’acqua del gurnali a Crasta tra rane, bisce, trote.
Gli piacciono gli animali, nel 1902 ce ne sono ovunque a Sant’Eufemia. Cani e gatti per strada, galline, capre da mungere ogni mattina per la colazione e le famiglie più fortunate anche il mulo nel pianterreno; in quello di sopra ci si stringe alla meglio, sei-sette ma anche di più tra adulti, bambini e anziani. L’acqua viene versata dalle bumbule riempite nelle fontane pubbliche, per il bucato si utilizzano i lavatoi di Diambra o della Nucarabella.
La sua passione sono i gatti, se ne trovano in quasi tutte le case. Vivono tra il fieno del basso e fanno da guardia alle scorte alimentari esposte alla costante minaccia dei topi. Da un po’ di tempo un pensiero occupa la sua mente dalla mattina alla sera: controllare se i gattini nati da qualche giorno stanno bene. Ogni paio d’ore afferra la lampada a petrolio e va a scovare il rifugio che mamma gatta ha rimediato in un angolo del deposito dell’abitazione in cui vive, nel rione “Borgo”.
Sono appena trascorse le tredici del 18 settembre, due giorni prima ci sono stati i festeggiamenti in onore della santa patrona: Ninuzzo appoggia a terra il lume e accade l’irreparabile. Una favilla schizza sul fieno, che prende fuoco. Quando il ragazzino se ne accorge è troppo tardi, o forse non fa neanche in tempo a comprendere quello che sta accadendo. Può darsi che la scintilla abbia portato a termine il suo tragico lavoro in un secondo momento. Con Ninuzzo già lontano. Il rapporto trasmesso al prefetto di Reggio Calabria su questo punto non è chiaro. Fatto sta che l’incendio si sviluppa rapido e le fiamme, alimentate dallo scirocco, si propagano nelle case vicine, “costituite da quattro muri perimetrali in muratura e da vari tramezzi ed impalcature in legname”. La maggior parte sono vuote perché i proprietari sono contadini impegnati nel lavoro dei campi. Proprio per questo non ci saranno vittime, ma proprio per questo l’incendio divamperà violentissimo. Due donne lanciano l’allarme, subito dopo accorrono sul posto il brigadiere e due carabinieri. Quindi si precipitano tra le viuzze del “Borgo” le autorità locali, le guardie municipali e quelle campestri, volontari giunti d’un fiato persino dalla vicina Sinopoli, allarmati dallo spettacolo drammatico delle lingue di fuoco altissime contro il cielo cobalto. Nel volgere di quattro interminabili ore l’incendio viene circoscritto, alle 21.10 al prefetto viene comunicato che le fiamme sono state finalmente domate. I soccorritori riprendono a respirare, si passano stracci bagnati a togliere cenere e fumo incrostati dai visi stanchi, si lasciano cadere a terra come in una liberazione, vinti dall’emozione e dalla fatica.
Il bollettino finale è da guerra: 7.500 metri quadrati di area urbana devastati dalle fiamme, 126 case distrutte completamente e 11 parzialmente, quasi 500 cittadini senza un tetto sotto il quale ripararsi, 141 nominativi inseriti nell’elenco delle persone danneggiate. Il presidente del consiglio provinciale, l’eufemiese Michele Fimmanò, denuncia danni per duecentomila lire, anche se il sottoprefetto di Palmi dimezza la stima della somma necessaria per coprire i costi di ricostruzione delle abitazioni e risarcire il danno per la perdita delle derrate.

Le vittime trovano ospitalità nei locali delle scuole e nelle chiese, dalla seconda notte nelle tende da campo montate dai militari dell’esercito, infine in abitazioni messe a disposizione dall’amministrazione comunale, che provvede al pagamento dell’affitto e alla distribuzione di buoni spesa per pane e pasta. Nell’immediato servono almeno 5.000 lire. Il ministero dell’Interno stanzia 1.600 lire di sussidi (più ulteriori 900 a distanza di poco tempo), altre 2.000 le invia il re d’Italia Vittorio Emanuele III affinché siano distribuite “fra gli abitanti più bisognosi”, circa 1.000 vengono invece raccolte grazie alle sottoscrizioni del “Comitato provinciale di soccorso”, composto dalle personalità più rappresentative della provincia: il consigliere di prefettura Alfredo Pacetti (delegato del prefetto), il deputato nazionale Giuseppe De Nava, il presidente del consiglio provinciale Michele Fimmanò, il presidente della deputazione provinciale Francesco Carlizzi, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Carbone, il sindaco di Sant’Eufemia Francesco Capoferro, il presidente della Camera di Commercio Giuseppe Spinelli, il direttore della succursale della Banca d’Italia Tranquillino Squillace, il direttore del Banco di Napoli.

Come spesso accade quando la sventura si accanisce contro una comunità, si mette in moto una gara di solidarietà che tuttavia non riesce ad alleviare i disagi della popolazione colpita dal disastro. A un anno di distanza il sindaco di Sant’Eufemia è infatti costretto a richiedere al ministero dei Lavori Pubblici l’invio di un ingegnere del genio civile, affinché accerti definitivamente il danno patito dalle vittime dell’incendio e proceda alla redazione del progetto di ricostruzione di circa ottanta case, mentre ancora nell’estate del 1904 definisce insufficiente la raccolta di fondi per la ricostruzione del quartiere raso al suolo dal fuoco.

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