Dall’Aspromonte al Carso

Un baule misterioso sigillato da decenni e un uomo dall’espressione assente, immerso in una dimensione impenetrabile. Una camera diventata il rifugio di un anziano signore che vi trascorre, barricato dentro, gran parte del proprio tempo. Trafitto dai ricordi, inseguito dai demoni di un passato che in realtà non è mai passato, dentro la testa l’inferno vissuto nelle trincee del Carso più di mezzo secolo prima. Con l’apertura della vecchia cassa il segreto viene svelato. Un segreto che emerge dalle pagine ingiallite del vecchio quaderno custodito come una reliquia da sorvegliare, notte e giorno. E che consente di riavvolgere il nastro della vita di quell’uomo taciturno, dai pensieri inceppati come le parole tartagliate e pronunciate a fatica a causa della balbuzie.
Gli anni Settanta sono appena iniziati: Tina Ciccone Sturdevant torna a Sant’Eufemia d’Aspromonte per fare visita al genitore ultraottantenne, da tempo ritiratosi nel paese natio dopo decenni di spola tra gli Stati Uniti e l’Italia. Giuseppe Ciccone, primogenito di Luigi e Orsola Orlando, ha soltanto diciassette anni quando, nel 1904, per la prima volta solca l’Atlantico a bordo del tre alberi “Patria”, costruito nel 1882 a Stettino e battente bandiera tedesca con il nome “Rugia”, prima di passare al servizio di Francia e Italia per coprire le tratte transoceaniche Marsiglia-New York e Napoli-New York: 96 viaggiatori di prima classe e 1.100 in seconda. Negli anni successivi ritorna più volte in Italia: nel 1912 sposa Francesca Pillari, dalla quale avrà cinque figli (Luigi, Nino, Orsola, Rosa e Tina) che saranno allevati dalla mamma nell’abitazione di via Carlo Muscari. Proprio negli Stati Uniti, tramite il Consolato italiano di Albany (New York), Giuseppe viene raggiunto dalla chiamata alle armi “per mobilitazione”, ai sensi del Regio Decreto 22 maggio 1915 n. 703.
Il racconto dell’odissea vissuta dal fante Ciccone – numero di matricola 13784 – riemerge oggi, a distanza di un secolo, grazie alla figlia Tina, che nel 1971 riceve dal genitore il regalo che è la chiave di quei silenzi, tenuta fino ad allora ben nascosta dentro il baule. Tina custodisce per più di quarant’anni il manoscritto, infine decide di curarne la pubblicazione ricorrendo all’aiuto del nipote Joseph Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester, il quale individua nel diario dodici eventi traumatici responsabili del “disturbo da stress post traumatico” (PTSD: post-traumatic stress disorder) di cui Giuseppe Ciccone era probabilmente affetto, una patologia che si manifesta con la perdita di interesse per la realtà circostante. Il risultato finale è nelle pagine di Trough the circles of hell: a soldier’s saga. Giuseppe Ciccone (Relicum Press, marzo 2016), poema-diario in lingua originale con traduzione inglese a fronte, in un volume impreziosito dalle illustrazioni di Philip Costa e da un’appendice fotografica.
Un documento straordinario, testimonianza preziosa dell’esperienza vissuta da un contadino dell’Aspromonte nelle trincee del Carso, il mattatoio della “inutile strage” denunciata da Benedetto XV. Nel dialetto italianizzato caratteristico di chi possiede un’istruzione approssimativa, Ciccone dà forma e sostanza ai ricordi del periodo che va dal suo imbarco sul “Duca d’Aosta” (21 ottobre 1916) all’agosto del 1917, data in cui il racconto si interrompe. La forma letteraria è quella del poema con versi in rima più o meno regolare, al quale l’autore dà un titolo significativo: “Guerra Italo Austriaca. Storia della mia vita sventurata”. Il manoscritto è stato scritto e riscritto più volte prima di essere copiato in un quaderno che, dal logo della Cornell University stampato sulla copertina, consente di fissare anteriormente agli anni Quaranta la stesura definitiva, presumibilmente dopo la “fuga” di Ciccone negli Stati Uniti a bordo della nave “Conte Biancamano” nel 1931, su suggerimento dei parenti preoccupati dalla possibilità che le sue esternazioni critiche nei confronti del regime mussoliniano potessero provocare la ritorsione delle autorità fasciste. Negli anni a seguire anche il resto della famiglia giunge alla snocciolata nel Nuovo Continente e, per i figli, l’emigrazione diventa una scelta di vita definitiva.
Il diario si apre con il rientro dagli Stati Uniti “per fare l’obrico [il dovere] di cittadino onorato”. La navigazione travagliata, lo sbarco a Genova e il viaggio in treno fino a Roma e da lì a Bagnara, l’incontro festoso con la famiglia (“Mi sono allegrato di troppo vino/ ora il mio paese era vicino”) e le due ore di cammino a piedi per arrivare a Sant’Eufemia. A fine gennaio 1917 si trova già a Lecce, per l’addestramento con il 48° Reggimento (Brigata Ferrara): due mesi di esercitazioni, marce e tiri al bersaglio, ma anche la lotta quotidiana contro i pidocchi, la sporcizia e la “puzza di sepoltura” della caserma (“il paese dei porci”). Quindi la partenza per il fronte, il 13 aprile: “era un giorno caldo e bello/ ma io ero in tribolazione/ il treno era venuto presto/ i soldati erano con male amore/ tutte le borghese si misero a gridare/ le bandiere vennero a sventolare”.
Nei versi sofferti del componimento prendono vita la tragedia della guerra, la paura e le preghiere dei soldati, ma anche l’inadeguatezza del comando dell’esercito, che la storiografia ufficiale confermerà in maniera inconfutabile e che però appare evidente già agli occhi del fante eufemiese.
Ciccone si ritrova nel mezzo dell’inferno scatenato dall’offensiva italiana nella X Battaglia dell’Isonzo (12 maggio – 4 giugno 1917): “Alle 10 venne l’ordine del Comando/ dovevamo andare tutte all’assalto/ come le pecore senza padrone”. La sua compagnia si trova nel settore del Dosso Fáiti (o Dosso dei Faggi), sotto il fuoco e dei cannoni e delle incursioni aeree del nemico. La trincea è uno spettacolo spaventoso di sangue, di morti che Ciccone sposta di peso per lasciare libero il passaggio. Il bombardamento che annienta “la metà della compagnia” lo sorprende proprio mentre cerca di guadagnare il camminamento per cercare riparo dietro la linea del fuoco. È vivo per miracolo, nonostante la ferita provocata alla natica destra da una scheggia che lo fa cadere a terra “tramortito”. La scheda trovata tra i documenti dell’Ufficio notizie militari, oggi consultabili presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, attesta il ricovero di Ciccone presso l’ospedale da campo 031 di Mariano del Friuli, dove giunge su una barella dopo che i commilitoni lo recuperano dolorante e riescono a trarlo in salvo. Il racconto della sofferenza dei soldati è straziante: le urla disumane dei feriti e dei militari sottoposti all’amputazione di braccia e gambe (“pareva che scannano li maiali”), le invocazioni disperate ai Santi e alla Madonna.
Il diario si conclude con le dimissioni dall’ospedale il 2 agosto e la sosta a Cividale del Friuli, prima del ricongiungimento con il comando del 48° Reggimento, a San Lorenzo di Mossa. I curatori del libro sono certi della continuazione del poema in un altro quaderno, purtroppo andato perso, che doveva completare il racconto dell’esperienza di Ciccone sui campi di battaglia della Grande Guerra. Gli ulteriori ricoveri annotati sulla scheda dell’Ufficio notizie militari confermano che il conflitto bellico, per il soldato di Sant’Eufemia, non si conclude con la vicenda del suo ferimento: 19 settembre 1917, catarro gastrico (ospedale di guerra 57); 1 agosto 1918, enterite (ospedale da campo 0142); 28 ottobre 1918, febbre (ospedale da campo 0107). Tuttavia, non è possibile affermare con certezza che Ciccone, Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto con decreto del 31 marzo 1971, sia stato in prima linea nell’XI Battaglia dell’Isonzo e nello sforzo decisivo che porta l’esercito italiano alla Vittoria.
Dettagli che non intaccano il valore etico e storico di un documento unico, che mescola onore e codardia, senso del dovere e orrore, facendo diventare universale la vicenda umana del protagonista: un uomo traumatizzato dagli eventi bellici e sopravvissuto soltanto fisicamente alla mattanza della Prima guerra mondiale, commovente nello sforzo di connettere la propria esistenza con la vita della moglie, dei figli, dei nipoti e, in definitiva, con il mondo brulicante fuori dalla stanza eletta a prigione volontaria.

*Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud, 03/07/2016

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Con l’Agape al Giubileo degli ammalati e delle persone disabili

In occasione del “Giubileo degli ammalati e delle persone disabili”, l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia d’Aspromonte organizza un pellegrinaggio a Roma nei giorni 11 e 12 giugno 2016 (due giorni e una notte).
I partecipanti si ritroveranno in Piazza Municipio, sabato 11 giugno alle ore 6.00: sistemazione dei bagagli e partenza in pullman Gran Turismo per Roma. Sosta lungo il percorso per consumare il pranzo al sacco, a carico dei partecipanti. All’arrivo nella capitale, previsto per le ore 15.00, sistemazione dei volontari, degli assistiti e dei partecipanti nelle camere della Casa Religiosa di Ospitalità “San Giuseppe”, in via Egidio Albornoz, n. 40 (zona San Pietro).
Pellegrinaggio verso la Porta Santa e, a partire dalle ore 18.00, possibilità della visita di alcuni stand nei Giardini di Castel Sant’Angelo (facoltativo) e Festa di benvenuto “Oltre il limite”. Subito dopo, trasferimento nella Casa “San Giuseppe” per cena e pernottamento.
Domenica 12 giugno, dopo la prima colazione presso l’Istituto, appuntamento alle 8.30 in Piazza San Pietro con i canti e le testimonianze (“Quando sono debole sono forte”) in preparazione della Santa Messa con il Santo Padre alle ore 10.00.
Dopo il pranzo presso il ristorante da “Fabio” (via di Porta Cavalleggeri, n. 145), sistemazione nel pullman e partenza per il rientro a Sant’Eufemia.
La quota individuale di partecipazione è di € 125,00 (per un minimo di 50 partecipanti) e comprende: viaggio in bus Gran Turismo; sistemazione presso la Casa Religiosa di Ospitalità “San Giuseppe”; cena giorno 11; colazione e pranzo giorno 12; tassa di soggiorno.

*Acconto richiesto all’atto della prenotazione: € 40,00 da versare entro e non oltre il 30 aprile.
**Per info e prenotazioni contattare il responsabile Peppe Napoli, al numero: 3339284284

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Noi che tiravamo pallonate

Campi che non finivano mai, larghi fino al confine della strada, lunghi fino alla sipala intricata di spine, dove riprendere il pallone che vi si era cacciato dentro diventava impresa da genio guastatore. Da pagare al prezzo dei pezzetti di stoffa strappati e impigliati tra i rovi, delle grancinate e delle ’rdicate che sembravano appiccare il fuoco alla pelle.
Era il calcetto pionieristico giocato nelle piazze e nelle strade, nelle periferie abbandonate, ovunque si potessero piazzare a terra due bottiglie o due mattoni per farne i pali della porta. La traversa come ipotesi, collocata a un’altezza indefinita: 10-15 centimetri sopra le dita stirate del portiere, calcolo approssimativo del salto che un ragazzino poteva compiere balzando dal suolo. Una linea orizzontale immaginaria che talora si materializzava nella riga tracciata con la vernice (ma anche con un paio di gessetti recuperati a scuola) sulle saracinesche o sul muro. Circostanza che comunque non impediva di stabilire senza eccessive contestazioni – e senza l’ausilio della moviola in campo – se fosse gol o meno, anche nelle situazioni di più difficile interpretazione. Graffiti di primavere lontane che su qualche parete resistono, tenaci come i tackle affondati nonostante il cemento, le ginocchia ’mprascate di sangue.
Un calcio da artisti di strada che odorava di libertà e di fantasia, che non viveva prigioniero degli schemi e delle divise delle scuole di calcio per bambini. Che considerava naturali la camicia e finanche i mocassini. Che a casa, a sera, riportava appiccicati sul viso sudore e terra.
Bastava essere in due: uno contro uno, trasposizione calcistica degli antichi duelli d’onore. In tre, il terzo diventava una sorta di arbitro dalle cui parate dipendeva l’esito della sfida. Ma in tre si poteva anche optare per la “modalità allenamento”: passaggi e tiri contro quello che fungeva da portiere fino a quando non riusciva a respingere una conclusione. Due contro due, con “portiere volante”. Due contro due, più il portiere fisso. Tre contro tre. E così via. Varianti pratiche e flessibili che consentivano il massimo dell’aggregazione possibile. In proposito non esisteva alcuna regola, se non quella inconsapevole e riassumibile nel motto di don Italo Calabrò: “nessuno escluso, mai”.
Ogni rione di Sant’Eufemia ha luoghi della memoria fatti di pallonate e vetri rotti, maglie sdillabbrate dalle trattenute (i falli esistevano soltanto nei casi di tentato omicidio) e scarpe aperte nella punta, immagini sfuocate di partite senza fine: «vince chi arriva prima a cinque gol»; ma poi si prolungava a dieci, a venti, o fino a quando non imbruniva ed era ora di rientrare.
La “Pezzagrande” contava il numero maggiore di campi di gioco improvvisati. All’interno della pineta comunale, con al centro il cerchio di cemento rialzato, una porta tra due alberi non perfettamente allineati e l’altra vagheggiata tra due pietre sistemate ad alcuni metri di distanza dal punto in cui il terreno digradava verso gli orti. Nel “Giardinello” polveroso, scenario piratesco di scorribande a caccia di ciliegie, ma anche di fughe precipitose, inseguiti dal cane aizzato contro i ragazzini dal massaro esausto ma minaccioso con la faccetta in pugno. E poi la mitica piazza Municipio con le sue “pietre di Catania”, al primo posto nella speciale classifica delle cause di distorsioni e fratture tra gli adolescenti. Piazza Matteotti, dove la scelta del pallone dipendeva dalle restrizioni vigenti: dal Tango al Super Santos, dal Super Tele al pallone di spugna, dalla pallina di tennis a quella di spugna, fino al prodigio della lattina di bibita schiacciata. Ma si giocava anche nel catino dell’ex pescheria, nelle strade aperte al traffico e in quelle chiuse, con buona pace per la squadra cui toccava correre in salita.
D’altronde, quando in palio c’era la supremazia rionale, il campo sportivo diventava teatro delle sfide campali tra selezioni di undici giocatori. Ed era come disputare un mondiale.

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U mangiareddu i San Giuseppi dai “Cagnolini”

Photo @GiuseppeFedele

La distribuzione del “mangiari i San Giuseppi” alle famiglie bisognose si lega alla devozione della popolazione nei confronti del patrono dei falegnami, ma anche protettore dei poveri, che risale a un passato nel quale erano in tanti a non potersi sempre permettere un piatto caldo a pranzo. In particolare, a partire dai primi anni del secondo dopoguerra, i cortili delle rrughe furono i punti di distribuzione della tipica pietanza “pasta e ceci”, che veniva preparata dai pochi che avevano di più per essere offerta ai troppi che avevano di meno. Un gesto di umanità spontanea, verrebbe da dire naturale, frutto di una semplicità di sentimenti oggi sempre più rara. Quella semplicità per la quale risulta ovvio tendere la mano verso chi si trova in difficoltà.
Anche oggi che nuove povertà si affacciano nella nostra società opulenta ed egoista, quella tradizione di generosità resiste. Ed è bene che sia così. È bene che si continui a cucinare u mangiari i San Giuseppi, per i nuovi poveri, ma anche per chi povero non è ma si mette in fila per accogliere, in quel piatto di pasta e ceci, un gesto d’amore che dà nuova linfa a una storia antica intrisa di solidarietà.

Photo @GiuseppeFedele

La pasta e ceci preparata dai “Cagnolini” di Sant’Eufemia d’Aspromonte è una tradizione nella tradizione, ormai giunta alla quarta generazione, che da settant’anni si rinnova il mercoledì della novena di San Giuseppe. Le cucine della sala matrimoniale “Il Cagnolino” vivono due giorni di intensa attività, con il coinvolgimento di una decina di volontari impegnati nella preparazione e nella distribuzione della pietanza. Si inizia martedì, con la sciacquatura dei ceci che successivamente vengono messi ammollo. Il giorno dopo i pentoloni della sala traboccano di ceci fumanti, mentre la pasta formato “ditali” viene cucinata in modo da essere pronta per due turni di distribuzione, rispettivamente intorno a mezzogiorno e alle 14.00. La personalizzazione della ricetta, introdotta qualche decennio fa dall’indimenticata maestra elementare Angiolina Squillace, prevede infine l’arricchimento del piatto con una piccola quantità di fasolu pappaluni (fagiolo qualità “bianco di spagna”) e il condimento con olio extravergine di oliva prodotto localmente.

Photo @DomenicaOliverio

Le cuoche “storiche” della sala matrimoniale hanno quest’anno cucinato 80 kg di ceci, 70 di pasta e 5 di fagioli. C’è stato chi ha lasciato la pentola sin dal giorno precedente per farla riempire ed è poi passata per ritirarla piena, chi si è messo in fila e chi ha addirittura portato fuori Sant’Eufemia la prelibata pietanza per farla gustare ai propri familiari.E poi ci sono stati loro, gli organizzatori, che a conferma dell’antico adagio “u scarparu resta sempri a’ scaza”, non hanno fatto in tempo ad assaggiarne neanche una cucchiaiata.

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I versi del poeta Pietro Milone per il matrimonio della nipote di Michele Fimmanò

Dura la vita dei poeti, quando gli amici “pretendono” un paio di versi o addirittura la dedica di un intero componimento per le occasioni “meritevoli” di essere celebrate. Lo sapeva bene Pietro Milone (1867-1933), popolare e amatissimo poeta-libraru di Palmi, molto apprezzato dai frequentatori della sua legatoria, i quali potevano deliziarsi ascoltando le satire composte per raccontare la vita quotidiana di Palmi. Personaggi e avvenimenti di un’epoca ormai lontana, il cui ricordo – fatto anche di dolore e di miseria – sopravvive anche grazie ai versi di Milone: E quandu m’arricordu/ la fami c’assaggiai/ mi fazzu meravigghia/ comu ancora campai! 
Milone fu un artigiano di rime rimaste per lo più inedite, fino a quando, su insistenza di amici ed estimatori, non furono pubblicate nella raccolta Picci e Zannelli (1922). Un’opera, ricordò il professore Angelino Trimboli nel discorso ufficiale pronunciato nella Casa della Cultura di Palmi l’8 novembre 1981, in occasione della “solenne cerimonia” organizzata per presentare l’edizione fuori commercio della ristampa del volume, che «non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi ha studiato, anzi dovrebbe essere il libro di tutti quelli che rappresentano il mondo del lavoro: gli agricoltori, gli artigiani, i muratori, i popolani, perché a loro è rivolta la poesia di Milone».
Nel medaglione biografico scritto per il volume Uomini da ricordare. Vita e opere di Palmesi illustri (2000), Bruno Zappone sottolinea il carattere autodidattico della formazione letteraria di Milone e il piccolo miracolo realizzato nella sua bottega: «Fu così che essa diventò un vero laboratorio d’arte, non a caso chiamata la Zanichelli di Palmi, tanto che poi diventò il ritrovo abituale di artigiani, medici, avvocati e gente di qualsivoglia rango, dove si trascorrevano piacevolmente intere giornate ad ascoltare battute, versi e poesie in vernacolo composte ed improvvisate dal giovane Milone».
Osservatore attento di ciò che succedeva nella sua Palmi, della quale conosceva vizi e virtù, Milone amava sferzare senza essere mai volgare, né rancoroso: Scrivu pe’ m’arridimu/ dicendu a veritati; zanniu cu ‘’ncarchidunu/ senza malignitati.
C’era poi un aspetto gioviale, che aveva una derivazione caratteriale e che si riversava nei versi composti per alcuni eventi particolari. Non poche erano ad esempio le giovani coppie che si rivolgevano a lui per avere il privilegio di una sorta di epitalamio da declamare nel corso del ricevimento nuziale. La ristampa di Picci e Zannelli ne contiene due: Spusarizziu Badolati-Suriano, del 1926; Pe lu matrimoniu Cardone-Palermo, del 1928. Praticamente sconosciuto è invece l’opuscoletto Pe lu matrimoniu Perelli-Fimmanò, che contiene i versi composti da Milone per il matrimonio tra l’ingegnere Giuseppe Raffaele Francesco Perelli – trentaquattrenne nato a Cittanova da Vittorio Emanuele Perelli e Rosa Zampogna – e la “gentildonna” (come riporta, alla voce professione, l’atto del matrimonio officiato dal podestà, il maggiore e cavaliere Annibale Rechichi) Giuseppina Carmela Fimmanò, figlia ventiduenne del medico di Sant’Eufemia d’Aspromonte Vincenzo Fimmanò e di Fiorina Rositani, nonché nipote di quel Michele Fimmanò (1830-1913) che fu per oltre sessant’anni politico influentissimo in tutto il circondario di Palmi.


L’iniziale “rimbrotto” per il disagio che arrecavano a Milone gli inviti ai matrimoni (Stu ’mbitu mi lu fannu,/ dinnu, p’ ‘a simpatia,/ ma je’ lu sacciu, ’u fannu/ ca vonnu ’a poesia!), è seguito dalla consapevolezza di non potersi sottrarre (Lu fattu è ca su’ tutti/ amici vecchi, cari;/ ndi pozzu fari a menu,/ mi pozzu dinegari?/ Eccu, potiva siri/ pe’ mm’ nci dicu no/ a l’amicu Perelli,/ a figghia ’i Fimmanò?), ma anche da un pizzico di dispiacere per l’amica “Pina”, che avrebbe seguito lo sposo a Milano (Sulu mi dispiaci,/ ca si ndi vai luntanu,/ luntanu assai di cca:/ Nentimenu a Milanu!). Ma se le cose erano andate così, evidentemente quella era la “via pe jiddha destinata”.
Al poeta palmese non resta quindi che augurare ai due giovani il meglio: Pecchì su’ boni, affabbuli,/ gentili, affezzionati;/ du’ animi, du’ cori/ nta unu, ’ncatinati./ Mi l’unisci nu sulu/ penseru ’nta la vita;/ anfina c’ànnu hjatu/ mi sunnu sempri anita./ No mmi sapi lu cori/ nuddha amarizza mai;/ mi sunnu sempri leti…/ no mmi cianginu mai/. Pe’ m’ànnu – ora e sempri –/ ogni grazia di Deu,/ tuttu quantu disia/ lu loru e… ’u cori meu!

*La fotografia che ritrae il poeta palmese è tratta da: Pietro Milone, L’uomo il poeta, Tipografia Zappia, Reggio Calabria 1983.

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Don Pepè

Nel 2001 l’Associazione Turistica Pro-Loco di Sant’Eufemia d’Aspromonte decise di assegnare al dottore Giuseppe Chirico, ad memoriam, il tradizionale “Premio Solidarietà – Ginestra”. In quell’occasione ebbi l’onore di contribuire, come autore del testo per la voce narrante, alla realizzazione di un documentario che ripercorreva la vita di “Don Pepè”, amatissimo medico condotto venuto a mancare il 3 maggio 1995: l’infanzia negli anni della ricostruzione dopo il terremoto del 1908, gli studi universitari, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, i decenni di “missione” al servizio dei suoi concittadini eufemiesi e i dolorosissimi settantasette giorni di sequestro di persona patiti nel 1976.
Di quel lavoro, fino ad oggi, esistevano poche copie in VHS: per questa ragione ho ritenuto utile convertire il video in un formato adatto alla visione con i moderni supporti tecnologici, che offrono inoltre la possibilità di una sua più ampia diffusione.
La qualità delle immagini in alcuni tratti non è eccellente, tuttavia spero di fare cosa gradita agli appassionati di storia locale e a coloro che hanno conosciuto e amato “Don Pepè”, personalità illustre da annoverare tra i figli migliori di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

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Vicenzinu u’ Signuri

Il 9 febbraio Vincenzo Fedele, elegante come sempre, ha festeggiato i suoi novant’anni. Per chi, come me, ha mosso i primi passi nello straordinario mondo dell’associazionismo prendendo parte alle molteplici iniziative promosse dall’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, Vicenzinu u’ Signuri è stato un solidissimo punto di riferimento. Un esempio di impegno civile per la crescita della nostra comunità che già alla fine degli Ottanta, quando la mia generazione stava per diventare adulta, aveva scritto pagine indelebili nella storia del folclore, della tradizione e del costume di Sant’Eufemia.
Vicenzinu, come viene da tutti affettuosamente chiamato, appartiene alla rara schiera degli uomini “d’altri tempi”. Di un’educazione disarmante nei confronti di qualsiasi interlocutore, sorridente, aperto alla discussione e amante del bello. L’aspetto caratteriale che più mi ha sempre colpito è proprio questa sua instancabile ricerca della bellezza. Che non è stata soltanto quella di confezionare il vestito più grazioso e il cappotto o la giacca perfetti, da eccellente sarto “iniziato” nella bottega di famiglia e perfezionatosi a Milano, quando ancora le macerie della guerra occupavano le strade. Certo: il carattere deve per forza avere “risentito” della sua naturale predilezione per l’armonia dei colori e per la delicatezza delle stoffe. Ma Vicenzinu alla bellezza è spesso arrivato lasciandosi guidare dall’amore per il suo paese, che non ha mai smesso di considerare uno scrigno di tesori da scoprire, valorizzare, salvare dall’oblio e consegnare a “quelli che verranno”. Un po’ come ha fatto per decenni con le fotografie, i documenti e quei ritagli di giornale che solo lui può riuscire a scovare tra le carte del suo immenso e prezioso archivio personale.
Il suo impegno nasce da questo convincimento e si realizza concretamente con le attività religiose e culturali dell’Azione Cattolica negli anni Cinquanta, periodo in cui si guadagnò il soprannome u’ Signuri, dal ruolo di Gesù Cristo interpretato nella prima e per svariate edizioni dell’ormai tradizionale “Processione del Misteri” del Sabato Santo.
Risale invece agli anni Sessanta il suo protagonismo all’interno dell’associazione regionale dei sarti calabresi, con le sfilate di moda e il “Premio Nefertiti” assegnato alla miss più elegante in una piazza Libertà sempre troppo piccola per contenere il pubblico presente. Quindi, la lunghissima presidenza della “Sant’Ambrogio” (costituita nel 1975), che ha segnato un’era caratterizzata da iniziative sviluppate su più fronti. Gli anni d’oro del gruppo folcloristico, della valorizzazione della tradizione culinaria con la sagra delle pannocchie e delle crespelle, del turismo religioso. Gli anni della riscoperta della memoria collettiva, grazie all’impulso che sul finire degli anni Settanta portò al gemellaggio tra i comuni di Sant’Eufemia e Milano, in ricordo dell’eccezionale contributo fornito alla comunità eufemiese dal Comitato milanese di soccorso per i danneggiati del terremoto del 1908: più volte “ospite d’onore”, nelle celebrazioni ambrosiane del 2001 l’associazione è stata infine insignita del prestigioso “Ambrogino d’Oro”.
L’azione dell’associazione Sant’Ambrogio nel tessuto sociale e culturale è stata molto incisiva (da ricordare, ancora, i giochi di piazza e i “Minifestival”, i carri allegorici del Carnevale e il teatro, la Festa delle Famiglie) e per certi versi anticipatrice di tutta una serie di attività che oggi, direttamente o indirettamente, hanno un debito nei confronti di quella esperienza.
Il periodico “Incontri” – edito dall’associazione per quasi due decenni – ha raccontato la storia delle generazioni protagoniste della ricostruzione materiale e morale del dopoguerra, alle prese sul finire degli anni Novanta con lo smarrimento causato dalla disillusione politica e dalla crisi economica: un orizzonte di valori sempre più confuso, che caratterizza anche il nostro presente. Ma la “Sant’Ambrogio” ha anche tentato di “ricucire” i brani di un passato conosciuto a frammenti, quando non addirittura ignorato dagli stessi eufemiesi. Sforzo encomiabile, il cui esito più alto si è avuto con l’organizzazione del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte (14/16 dicembre 1990), i cui atti sono stati successivamente editi da Rubbettino (1997), a cura di Sandro Leanza: una data che segna l’avvio di una feconda stagione di studi sulla storia di Sant’Eufemia, che è arrivata ai nostri giorni e che ha prodotto diverse pubblicazioni ispirate a quel lavoro.

Bene ha fatto l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia, nel 2012, a premiare Vincenzo Fedele “per la tenacia, la passione e l’altruismo che lo ha sempre contraddistinto in tutti questi anni di instancabile impegno socio-culturale nel proprio territorio e nel proprio paese”.

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Sosteniamo il nostro liceo

Non ho difficoltà a confessare la mia assoluta e volontaria mancanza di neutralità in tutte le questioni che riguardano il liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia. Questione di cuore, probabilmente. Ma non è solo questo. Certo, la circostanza che là dentro io vi abbia trascorso anni formidabili – dal punto di vista della formazione, ma anche sotto il profilo della crescita personale – ha indubbiamente il suo peso. È, insomma, qualcosa che ha molto a che fare con il sentimento della gratitudine. Proprio per questo, ogni qual volta me ne viene data l’opportunità, sono lieto di poter “restituire” qualcosa del tanto che mi è stato dato: si tratti di incontrare gli studenti per parlare di libri o di volontariato, oppure collaborare per l’organizzazione di iniziative culturali.
Sono fermamente convinto che il liceo “Fermi” rappresenti un baluardo di civiltà e la speranza di un futuro migliore per i ragazzi del nostro territorio. Pertanto occorre difenderlo con tutte le forze e spendersi per far sì che sia messo nelle condizioni di crescere sempre di più.
Nella sua storia quarantennale, è stata costante la presenza di un corpo docente qualificatissimo, per preparazione e per doti umane. Professoresse e professori che hanno inteso e intendono il proprio lavoro come un servizio alla comunità che li ha adottati, riconoscente. Un privilegio che, sommato alla presenza di alcune vivaci realtà associative, negli anni ha notevolmente contribuito alla crescita culturale e civile di Sant’Eufemia. Ciò costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che non possiamo permetterci il lusso di disperdere se non vogliamo rischiare pericolosi salti all’indietro.
A partire dal prossimo anno scolastico (2016/2017), l’indirizzo di studio scientifico sarà affiancato dal liceo delle scienze umane e dal liceo linguistico. Un risultato straordinario per Sant’Eufemia, che pone la nostra cittadina sullo stesso piano di realtà più popolose e per il quale grande merito va riconosciuto alla tenace dirigente Graziella Ramondino. Ma si tratta soprattutto di un’opportunità che le famiglie eufemiesi devono cogliere senza esitazioni, considerato che l’ampliamento dell’offerta formativa consentirà a un numero maggiore di ragazzi provenienti dalla scuola media di non doversi necessariamente spostare per frequentare istituti superiori corrispondenti alla propria indole e ai propri interessi culturali.
Chiunque abbia a cuore le sorti della comunità eufemiese, deve augurarsi il successo di una proposta che ha tutti i presupposti per riuscire e per produrre un significativo salto di qualità: nuova sede e docenti molto preparati in primis. Bisogna però anche darsi da fare per favorire questo risultato. Come? Semplice: con il contributo che, da cittadini protagonisti della realtà in cui viviamo, saremo in grado di offrire incoraggiando l’iscrizione dei nostri figli presso gli istituti superiori presenti a Sant’Eufemia. D’altronde, se a tutte queste ottime ragioni ne vogliamo aggiungere una più “materiale”, perché andare a cercare fuori ciò che si può avere in casa con minore dispendio di energie (alzarsi presto, rientrare nel pomeriggio) e di denaro (abbonamento per l’autobus o comunque spese per il trasporto e, più in generale, i costi della trasferta)?

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Il mercato a Sant’Eufemia d’Aspromonte

Il mercato a Sant’Eufemia ha una tradizione consolidata, giunta fino ai nostri giorni nonostante i tempi siano cambiati e le abitudini pure. Nel secolo scorso e alla fine dell’Ottocento esso costituiva un momento di grande dinamismo economico e sociale, caratteristica oggi un po’ sbiadita: “colpa” di una maggiore mobilità per gli individui, con la conseguente possibilità di fare acquisti ovunque e a qualsiasi ora del giorno (a volte anche della notte), sette giorni su sette.
Non sempre è stato così. Il mercato settimanale ha dato lustro a Sant’Eufemia, portandovi gente e denaro, facendo di questo piccolo centro pre-aspromontano un punto di riferimento e di incontro per le popolazioni dei paesi limitrofi. Nel suo capolavoro La signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi vi fa arrivare il protagonista, partito da Santa Cristina per acquistare due “cartate” di pasta da cinque chili, aringhe sotto sale e una “pinna” dell’apprezzatissimo pesce stocco. Tutte le botteghe di generi alimentari erano infatti provviste delle vasche per la produzione dello stocco, un’arte per la quale Sant’Eufemia era nota in tutto il circondario, come mi confermò un professore universitario originario di Bagnara Calabra che ogni domenica vi saliva apposta – a “passaggi” o a piedi – mandato dalla madre, negli anni Sessanta del secolo scorso.
L’area in cui si svolgeva il commercio di mercanzie, generi alimentari, prodotti dell’artigianato e animali era l’attuale piazza Purgatorio, che sul finire del XIX secolo era appunto denominata Piazza
Mercato. Qui si teneva il mercato, a partire dal 1889 due giorni a settimana (giovedì e domenica), in seguito soltanto di domenica, giorno festivo che riusciva a convogliare in paese un maggiore numero di acquirenti. Va ricordato che prima del terremoto del 1908 le abitazioni erano distribuite tra “Vecchio Abitato” e “Petto”: la “Pezzagrande” era aperta campagna, per cui il mercato si svolgeva in quello che allora era il centro del paese, tra la piazza e i bordi della strada provinciale che da Bagnara si spingeva fino ai comuni dell’entroterra aspromontano. Proprio lo spostamento del mercato domenicale fu uno dei motivi di maggiore contrasto tra i fautori della ricostruzione del dopo terremoto nella vecchia area e i sostenitori dello spostamento nell’area della “Pezzagrande”, allorquando (8 agosto 1910) il consiglio comunale deliberò il trasferimento del mercato nel nuovo rione.
Tra XIX e XX secolo Sant’Eufemia era uno dei maggiori centri del comprensorio. Lo confermano i dati del censimento della popolazione (6.252 abitanti nel 1871, 5.888 nel 1881, 6.285 nel 1901, 6.136 nel 1911), costituita perlopiù da braccianti agricoli e pastori: il ruolo per la riscossione del diritto di pascolo nelle proprietà del comune per l’anno 1895 riporta 28 allevatori, per un totale di 4.167 capi di bestiame. Il ruolo dei contribuenti soggetti alla tassa sulle professioni ed esercizi per l’anno 1878 riporta invece 66 nominativi: 18 “pizzicagnoli” (venditori di generi alimentari), 11 panettieri, 5 dolcieri, 5 macellai, 5 calzolai, 4 farmacisti, 4 rivenditori di farine e altro, 3 droghieri, 3 venditori di ferro e altro, 3 venditori di generi diversi, 2 negozianti di legname e altro, 2 negozianti di tessuti, 1 “merciaio” (venditore di stoffe, bottoni, aghi, filati).
Con il trasferimento del mercato nel nuovo centro abitato, l’area destinata alla compravendita del bestiame acquisì la denominazione di “mercato dei porci”. Si trattava dello spiazzo (oggi edificato) posto sotto la via “maggiore Cutrì”, utilizzato anche come pubblica latrina dalle famiglie che ancora nell’immediato secondo dopoguerra vivevano in baracche prive di luce, servizi igienici e acqua. Era però anche un luogo di divertimento, poiché ospitava il tendone del circo di “Fortunello” o di quello più celebre di “Zavatta”.
Pur nell’ambito di un’economia quasi di baratto, era numerosa la presenza di piccoli artigiani, molto rinomati per la loro maestria: orafi, falegnami, ebanisti, cesellatori, cestai, tintori, tessitori, sarti, calzolai, conciapelli, forgiatori, fabbri, ferrai, tornitori, ramai, cerai. Una tradizione che si è perduta nel tempo, ma che meriterebbe di essere riscoperta, rivalutata e, perché no, rilanciata.

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C’era una volta il tennis

Chi non hai mai provato la sensazione di trovarsi in una circostanza “già vista”? L’improvviso riemergere nella memoria di ricordi sospesi tra sogno e realtà è il fenomeno del déjà vu: un passante che ci sfiora, una frenata brusca con l’automobile, un profumo, un suono che appartengono a una situazione già vissuta nel passato. Che sappiamo come andrà a finire, mentre si svolge.
A me capita entrando in pineta, soprattutto quando la primavera sta per esplodere. Il sole tiepido di marzo mi riporta agli anni del tennis, ormai lontanissimi nella memoria mia e del paese. Da oltre un decennio il campo da tennis vive infatti una condizione di abbandono ed è incredibile come nessuno riesca a rilanciare una disciplina sportiva che ha avuto stagioni gloriose. Uno sport che ha aggregato generazioni di eufemiesi e reso vivace un angolo di paradiso, quale è la nostra pineta comunale con la sua brezza fresca, che d’estate è un balsamo miracoloso per coloro che soffrono il caldo.
La vitalità di un paese si misura dal rapporto virtuoso che l’uomo riesce a instaurare con l’ambiente che lo circonda. L’abbandono è sinonimo di morte. Quanti sono nel nostro paese, oggi, gli spazi morti? Beninteso, ciò dipende pure da una socialità che è parecchio mutata rispetto anche soltanto a due decenni fa e che è – ahimè – prevalentemente “virtuale”.
Fatto sta che i luoghi di aggregazione stanno sparendo. Di sicuro è svanita la loro originaria funzione. I cortili sono ormai scomparsi o, se ci sono, hanno perso l’antico fascino di luogo in cui le famiglie condividevano con i vicini della porta accanto gioie e dolori. Le strade servono soltanto a collegare un posto con un altro, ma sono prive di calore: quasi scomparse le biciclette, per non dire dei palloni che rotolavano lungo le discese mentre dietro orde di ragazzi si affannavano per raggiungerli. Le piazze sempre più vuote o comunque non “vissute”: giusto qualche bambino, finché non raggiunge l’età che gli consente di affrancarsi dalla tutela dei genitori.
La pineta di venti, trenta, quarant’anni fa per molti eufemiesi è il posto delle fragole, perché rimanda all’innocenza e alla felicità di tempi che non torneranno mai più, all’adolescenza fatta di sogni e semplicità. Tra i suoi alberi sono nati amori, altri sono naufragati. Sulle sue panchine si sono accomodati migliaia di giovani e meno giovani. Sono queste le scene che rivedo quando ne varco l’entrata. Nonostante sia cambiata “fisicamente”, se si chiudono gli occhi e si sta in silenzio, è possibile ascoltare la vita trascorsa.
In questo passato c’è il tennis, che tutti abbiamo praticato. Con la racchetta di legno, prima che esplodesse la mania dei più moderni semiracchettoni. Tutti. Quelli che non sono mai riusciti a impostare il rovescio. Quelli che “forzavano” prima e seconda battuta. I “pallettari” che attendevano sempre l’errore degli avversari. Da marzo a settembre-ottobre era una gara a chi riusciva a prenotare il campo. Sempre occupato. E poi, d’estate, i tornei con 50-60 partecipanti: tutti affascinati dall’abilità con cui Rocco Vizzari riusciva a comporre i tabelloni di singolare, doppio e doppio “giallo”, tra teste di serie e turni preliminari, per dare a tutti almeno una chance di passaggio del primo turno.
Perché quel movimento è scomparso? Certo, il “pensionamento” di un fuoriclasse dell’organizzazione come Rocco Vizzari ha inciso parecchio. L’emigrazione universitaria e lavorativa di due-tre generazioni trainanti ha fatto il resto. Tuttavia, a mio modo di vedere, a un certo punto sono mancate le condizioni minime per poter continuare. Vale a dire: un impianto tenuto in discrete condizioni e un custode responsabile.
Per rilanciare il tennis e rivitalizzare la pineta comunale occorrerebbe ripartire da qua. Riprendere quel filo, spendendo pochi soldi per sistemare la recinzione, comprare la rete e pitturare il campo; quindi affidarne a qualcuno la gestione, stabilendo orari di apertura e di chiusura della pineta (se la videosorveglianza implica dei costi eccessivi) per evitare che i soliti vandali distruggano quanto di bello il nostro paese ha da offrire.

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