La puntata di “Radici”, dedicata a Sant’Eufemia d’Aspromonte, andata in onda ieri sera su Telemia.
Sant’Eufemia d’Aspromonte – “Radici”
Grazie all’impegno dell’Associazione Culturale Tommaso Campanella “Il pensiero forte del Sud”, sabato scorso una troupe televisiva di Telemia è stata a Sant’Eufemia per realizzare alcune interviste e girare le riprese necessarie per confezionare una puntata della trasmissione “Radici”, programma ideato e condotto da Pino Carella, che va in onda ogni giovedì sul canale 76 DTT alle ore 21.30 (repliche: venerdì ore 14.30 e domenica ore 16.30; in seguito, sarà inoltre visibile su YouTube).
«L’ideatore del format – si legge sul sito dell’emittente televisiva regionale – illuminato dal lume della sua lanterna, va alla riscoperta delle più antiche tradizioni popolari, riportando a memoria, sapori, riti, usanze e costumi. Una rievocazione che spazia dall’enogastronomia agli antichi borghi, dalla musica popolare a fatti storici o leggendari».
Tra gli altri intervenuti, anch’io ho dato con piacere la mia disponibilità per due contributi di carattere storico, incentrati sulla rievocazione del ferimento di Garibaldi in Aspromonte e sul valore iconico del ponte della ferrovia.
A stasera!
Sulla proposta di intitolazione di una piazza al dottore Giuseppe Chirico
Leggo con piacere che ieri l’Associazione culturale “Aspromonte”, per iniziativa del presidente Massimiliano Rositano, ha protocollato al comune la richiesta di intitolare una piazza di Sant’Eufemia al medico condotto Giuseppe Chirico, per tutti “Don Pepè”: nello specifico, la piazza attualmente dedicata a don Giovanni Minzoni nel rione Paese Vecchio.
Come sa bene chi segue “Messaggi nella bottiglia”, più volte io stesso ho avanzato la proposta di omaggiare la memoria di questo nostro illustre concittadino. Della valorizzazione della figura professionale e umana del dottore Chirico mi sono occupato per la prima volta nel 2001, come autore del testo per il documentario biografico realizzato dalla Pro Loco, in occasione dell’assegnazione (“alla memoria”) del “Premio Solidarietà – Ginestra”. In qualità di consigliere comunale di minoranza, il 16 ottobre 2017 ho proposto l’istituzione di una commissione toponomastica, per la quale con delibera C.C. 42/2017 del 27 novembre 2017 è stato approvato il regolamento. Il 27 giugno 2018 ho poi protocollato la proposta di intitolazione della pineta comunale a Giuseppe Chirico (con allegata la relazione richiesta ai sensi dell’art. 9, comma 3).
Nel mio ultimo libro ho dedicato un paragrafo alla biografia di Giuseppe Chirico, che considero tra i migliori figli di Sant’Eufemia, mentre in ultimo, il 24 agosto 2023, ho indirizzato all’attuale sindaco Pietro Violi una lettera aperta, nella quale riprendevo la mia vecchia proposta e allargavo il ventaglio delle possibilità aggiungendo alla pineta comunale altri due spazi pubblici: la piazzetta accanto al monumento dei caduti, attualmente priva di denominazione, oppure – ipotesi molto suggestiva – uno dei due lati in cui corso Umberto I divide piazza don Minzoni, laddove si svolgevano le passeggiate serali del dottore Chirico, rievocate dal professore Giuseppe Calarco proprio nel documentario realizzato dalla Pro Loco.
Personalmente concordo con la posizione della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, che è contraria alla sostituzione dei nomi di piazze e vie, per cui propenderei per l’ultima opzione, che non comporterebbe la cancellazione del vecchio toponimo.
Va anche detto che, nel 2002, al dottore Chirico era stato intitolato il Centro semiresidenziale di riabilitazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che ha chiuso i battenti nel 2016. Tuttavia, negli stessi locali dovrebbe prossimamente sorgere una casa di comunità, da realizzare con i fondi del Pnrr assegnati alla provincia di Reggio Calabria. Al momento non sappiamo cosa ne sarà della denominazione: se cioè sarà mantenuto anche dalla nuova struttura. Ad ogni modo, tutte le alternative elencate mi sembrano valide e meritevoli di essere sottoposte all’attenzione dei nostri amministratori.
Pino Fedele, da oltre sessant’anni la voce di Sant’Eufemia per la “Gazzetta del Sud”
Era il 20 aprile 1966 e un tiepido sole accoglieva il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel secondo dei quattro giorni di visita ufficiale in Calabria, presso il Mausoleo garibaldino. Con lui, anche l’allora vicepresidente della Camera dei deputati e futuro inquilino del Colle, Sandro Pertini. Un fiume di persone si radunò nel bosco in cui l’eroe dei due mondi era stato ferito più di un secolo prima: in testa, il sindaco Diego Fedele, da un mese sindaco e al primo dei tre mandati al timone dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte (i primi due consecutivi, dal 31 marzo 1966 al 5 febbraio 1976; il terzo, dal 2 dicembre 1981 al 29 maggio 1985).
Una fotografia di quella memorabile giornata ritrae accanto a Saragat e a Fedele un giovane cronista, di lì a poco vincitore del Premio “Petronio”, assegnato all’uomo più elegante nel corso dell’annuale festa che l’Associazione dei sarti organizzava in piazza Municipio. Al tempo Pino Fedele, storico corrispondente da Sant’Eufemia, già da diversi anni collaborava con la “Gazzetta del Sud”, giornale per il quale continua a scrivere, con la sua proverbiale scrupolosità, anche oggi che – da pochi mesi – ha scollinato gli ottanta.
E pensare che aveva iniziato per caso. Era ancora uno studente quando un suo professore, collaboratore della “Gazzetta” come cronista sportivo, gli chiese di sostituirlo dopo il litigio avuto con l’allenatore della squadra di calcio del paese. Per qualche anno l’insegnante firmò così gli articoli scritti da Pino Fedele, il quale in seguito ottenne dal giornale l’incarico ufficiale. Quasi contemporaneamente assunse anche l’incarico di corrispondente per il quotidiano nazionale “Il Tempo”, che dedicava alcune pagine proprio alla cronaca dalla Calabria.
Più di sessant’anni di parole dettate alla redazione (quando gli articoli venivano trasmessi telefonicamente), di ticchettio dei tasti della macchina da scrivere per la stesura del pezzo da inviare con il fax, di file word da inoltrare in allegato via mail.
Il lavoro del corrispondente locale è preziosissimo per la comunità. Lo era senza dubbio in misura maggiore nel passato, quando – prima dell’avvento dei social e dei giornali online – era il mezzo che consentiva ai piccoli comuni di uscire fuori dai propri angusti confini, offrendo una ribalta più vasta. Per questo, l’autore degli articoli godeva di una certa autorevolezza. Finire sul quotidiano dava prestigio a fatti e persone: iniziative politiche, attività delle associazioni, eventi e protagonisti della vita locale. «L’ho letto sulla Gazzetta» era il timbro che conferiva rilevanza a ciò che avveniva in posti sperduti.
A Pino Fedele va riconosciuto il merito di svolgere da oltre sei decenni una funzione sociale rilevantissima con i suoi pezzi di cronaca, i suoi resoconti, le sue segnalazioni: «I miei articoli – dichiara – sono sempre frutto delle mie conoscenze dirette, delle mie percezioni personali e del convincimento che sta alla base di ciò che scrivo, al di là di ogni possibile condizionamento. La finalità è portare a conoscenza di quanti mi leggono le novità e le positività qualificanti che affiorano nell’ambito paesano e nei dintorni».
Prima di andare in pensione conciliava l’attività di giornalista (per molti anni è stato anche capo redattore della rivista “Incontri”, edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio) con l’impiego presso l’Ufficio agricolo di zona, oltre che con altri impegni. Fondatore e presidente dello Sci Club di Sant’Eufemia all’inizio degli anni ’90, nel 1997 socio fondatore e a lungo segretario della Pro Loco, è tutt’ora delegato di zona dell’AIL e presidente della sezione eufemiese dell’ADSPEM. Uomo di grande fede, dalla metà degli anni Sessanta occupa con tenacia il suo posto di portatore della statua dell’Addolorata nella tradizionale Processione dei Misteri e, tra gli incontri più significativi della sua vita, conserva quello con Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Padre Annibale di Francia, che a Sant’Eufemia lasciò tracce del suo apostolato con la fondazione, nel 1915, dell’Istituto antoniano delle Figlie del Divino Zelo.
Frugando nel cassetto dei ricordi, mi rivedo venticinquenne a bordo della sua mitica Ford Escort azzurra, destinazione Delianuova, dove entrambi (io per “Il Quotidiano della Calabria”, lui per la “Gazzetta del Sud”) seguivamo la Deliese negli anni d’oro della permanenza in Eccellenza e in Serie D.
Credo che uno dei segreti della sua curiosità intellettuale e della sua perseveranza sia l’applicazione quasi ossessiva nella risoluzione di cruciverba e sudoku, suo vero grande hobby. Per questo l’augurio è che possa continuare ancora a lungo ad incrociare parole e numeri.
*Foto: collezione privata di Rosa Fedele
La magia dell’albero di Natale all’uncinetto
Tra gli alberi di Natale che abbelliscono le piazze del nostro paese, molto particolare è quello collocato all’entrata della chiesa di Maria SS.ma delle Grazie. Se infatti il Natale simboleggia la vita, la solidarietà e la condivisione, ne ha colto pienamente il senso il gruppo che – ispirandosi a una tradizione diffusa in molti borghi della Calabria – ha realizzato un particolare albero all’uncinetto.
L’albero all’uncinetto non è soltanto bello da guardare, con le luci e le decorazioni che costringono il viandante a fare una sosta per ammirarlo da vicino. Osservarne la struttura e tutti i centrini installati invita inevitabilmente a riflettere su pazienza, attenzione, costanza e impegno certosino necessari per portare a compimento una vera e propria opera d’arte.
Un altro aspetto, non secondario, va rintracciato nella considerazione che è stata così concretizzata l’idea di realizzare addobbi creativi a zero impatto ambientale, riciclabili e soprattutto nati dalla collaborazione di tutti, grazie anche all’impegno dei più giovani del comitato Festa dell’Immacolata, i quali per una settimana si sono dedicati alla costruzione della base sulla quale l’albero è stato installato.
La collaborazione tra generazioni di diversa età incarna lo spirito di solidarietà che rende magica l’atmosfera natalizia. Una componente fondamentale per il coordinamento del lavoro delle tante donne che hanno materialmente cucito i centrini poi fissati ai cerchi realizzati con delle canne. Donne generose, “mani di fata” che hanno donato il proprio tempo per offrire bellezza al paese ridando vigore, tra l’altro, all’antica tradizione dell’arte dell’uncinetto. Un’attività molto diffusa fino a diversi decenni fa, quando le giovani eufemiesi avevano soltanto l’imbarazzo della scelta nel decidere a quale “maistra” affidarsi per imparare l’arte di cucire e di ricamare.
L’albero di Natale, quindi, come albero della vita: simbolo di luce e di pace cui tendere con rinnovata speranza in questi tempi bui, macchiati da troppo sangue innocente.
Il santo e la bandiera
Più volte ho scritto del rapporto speciale che lega la comunità eufemiese alla città di Milano sin dai giorni immediatamente successivi al terremoto del 1908. Nella sua “Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città”, l’arciprete Luigi Bagnato sottolineò la straordinaria prova di solidarietà dei volontari giunti in paese e la grande quantità di aiuti ricevuti: «Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione».
In meno di tre mesi furono infatti costruite 759 baracche e realizzati l’acquedotto, le strade del nuovo quartiere, l’ospedale “Milano”, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa. Un piccolo luogo di culto nel quale ebbe origine la devozione degli eufemiesi per il patrono di Milano Sant’Ambrogio, la cui statua fu donata dal cardinale meneghino Andrea Carlo Ferrari. Per tale ragione la chiesa di Maria Santissima del Carmine è dedicata anche al santo che si festeggia il 7 dicembre. Ma la riconoscenza degli eufemiesi andò oltre, poiché il 9 marzo 1909 l’allora commissario prefettizio deliberò di adottare quale bandiera del comune la croce rossa su sfondo bianco del municipio di Milano.
Ho già avuto modo di osservare (La bandiera che non c’è) che sarebbe opportuno rimediare all’errore compiuto il 25 febbraio del 2000, giorno in cui fu approvato lo statuto comunale attualmente in vigore, che all’articolo 6 menziona lo stemma e il gonfalone, ma inspiegabilmente non fa cenno alla bandiera. Per cui, nel ribadire l’auspicio che venga sanata la ferita inferta alla memoria storica collettiva della nostra comunità, pubblico la deliberazione n. 5/1909 del commissario prefettizio Consalvo Cappelli, avente ad oggetto “Bandiera del Comune”:
«L’anno millenovecentonove, addì nove marzo in S. Eufemia, nella Casa Comunale
Il Commissario Prefettizio Consalvo Cappelli per la provvisoria amministrazione del Comune, assistito dal Segretario infradescritto
Ritenuto che la generosa Città di Milano con uno slancio impareggiabile di fraterna carità accorse e soccorse con ogni mezzo questo paese distrutto dal terremoto, elargendo ogni specie di soccorso, costruendo un bellissimo Ospedale a vantaggio degli infermi poveri, ed un vastissimo rione di baracche per dare ricovero a moltissime famiglie rimaste senza tetto;
Attesoché i cittadini di ogni classe di questo Comune in segno di viva, imperitura riconoscenza vogliono che il nome della Città di Milano, oltreché scolpita nei cuori di tutti sia additata ai posteri come augurio di sublime carità;
Ritenuto che, essendosi dato al nuovo rione costruito dai Milanesi il nome della città di Milano e che Milano fu pure il nome dato all’Ospedale quivi costruito, è giusto ed è reputarsi a grande onore che i colori della bandiera propria della illustre Città, Croce Rossa in campo bianco, sia adottato e costituisca l’emblema di S. Eufemia;
Ritenuto che, chiesta a quella rappresentanza comunale l’autorizzazione perché il Comune di S. Eufemia adotti quella bandiera e la faccia sua, quel degnissimo Sig. Sindaco, Senatore Ponti, mercé dispaccio telegrafico N. 579 in data di ieri, con parole lusinghiere e gentilissime comunicò la piena adesione di quella rappresentanza comunale al desiderio da me espressogli.
Interprete degli unanimi sentimenti della cittadinanza,
DELIBERA
che la bandiera della Città di Milano, Croce Rossa in campo bianco, sia da oggi la bandiera del Comune di S. Eufemia.
Fatto, approvato e sottoscritto
Il Commissario prefettizio f.to C.[onsalvo] Cappelli
Il Segretario f.to [Francesco] Tropeano»
L’umanità dei luoghi
“L’umanità dei luoghi. Storie di volontariato dall’Aspromonte al mare” è un documentario, prodotto dal Centro Servizi per il Volontariato dei Due Mari – ETS e realizzato da MedMedia, che in circa un’ora racconta storie significative di volontariato della Provincia di Reggio Calabria. Si parla anche dell’Agape di Sant’Eufemia d’Aspromonte (al minuto 30:50): anzi, sono i volontari a raccontare e a raccontarsi mentre sono impegnati nella realizzazione della colonia estiva.
Di recente, “L’umanità dei luoghi” è stato selezionato per concorrere al 77° Festival Internazionale del Cinema di Salerno e, fino alle 23:55 del 1° dicembre, è possibile sostenerne la candidatura.
Per votare è sufficiente aprire il link https://show.festivaldelcinema.it/ e registrarsi, fare l’accesso (login) digitando il nome utente e la password, cliccare sulla sezione DOCUMENTARI, trovare “L’umanità dei luoghi” e votare scegliendo il numero di stelline (da 1 a 5).
Consiglio non soltanto di votare: l’intero documentario merita di essere guardato. In Calabria ci sono tante storie belle, che meritano di essere raccontate e conosciute.
Per un cimitero accessibile
Le fotografie che vedete mostrano i punti di ingresso al campo inferiore del cimitero comunale. Immaginate ora di essere su di una sedia a rotelle, o di avere comunque difficoltà nella deambulazione. Ad esempio, di essere affetti da artrosi, la patologia del ginocchio più diffusa tra gli anziani, invalidante per effetto della progressiva usura della cartilagine dell’articolazione. A coloro che si trovano in queste condizioni e hanno dei congiunti sepolti nell’area raggiungibile solo scendendo per quelle scale, di fatto, l’accesso risulta impossibile. Il problema riguarda più persone di quanto si possa immaginare.
La commemorazione dei defunti può diventare occasione propizia per discutere di una questione vissuta con sofferenza dai tanti che, anche nel resto dell’anno, vorrebbero recarsi nel cimitero per portare un fiore, un lumino, per recitare una preghiera sulla tomba dei propri cari.
In via informale ho talvolta affrontato l’argomento con qualche amministratore comunale e sinceramente confidavo in una sensibilità che andasse oltre la semplice constatazione dell’esistenza della criticità. Eppure, i cimiteri sono strutture comunali obbligatorie e luoghi pubblici che dovrebbero garantire l’accessibilità anche a coloro le cui capacità motorie sono ridotte o nulle.
Affinché il diritto alla mobilità sia reso effettivo, occorrerebbe pertanto eliminare le barriere architettoniche mediante la realizzazione di rampe dotate di corrimano, oppure con l’installazione di un ascensore o di un montascale, in modo da garantire il collegamento tra la zona alta e quella bassa del cimitero. D’altronde, esistono fondi riservati proprio agli interventi necessari per assicurare alle persone con problemi di deambulazione l’accessibilità a strutture pubbliche e private.
Le amministrazioni comunali spesso sottovalutano l’impatto positivo che possono avere sulla qualità della vita di una comunità opere neanche tanto costose, ma certamente molto più utili di molte cattedrali nel deserto, delle quali il cittadino non riesce a cogliere l’utilità. La vicinanza ai bisogni della collettività passa dalla soddisfazione di esigenze elementari.
Pietro Pentimalli, il sindaco della concordia
Nell’attività di ricerca storica locale, le difficoltà più ostiche si riscontrano quando occorre reperire fonti non ufficiali, ma utilissime per la realizzazione di un affresco quanto più aderente alla realtà che si decide di collocare sotto la lente d’ingrandimento. Ciò accade perché scarse sono le informazioni disponibili al di là di quelle contenute, quando esistono, tra i faldoni dell’archivio di stato. I piccoli comuni sono spesso privi di un archivio storico, nelle biblioteche non sono custoditi i giornali e i quotidiani del passato, le pubblicazioni di autori locali risalenti nel tempo sono pressoché introvabili. A Sant’Eufemia, i terremoti hanno inoltre distrutto i patrimoni documentari delle famiglie, mentre tra gli effetti delle migrazioni va considerata anche la dispersione di molte carte private. Per tutte queste ragioni, può risultare complicato tirare fuori dal cono d’ombra personaggi storici che meriterebbero un posto d’onore nella storia della propria comunità.
Il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950) rientra in pieno nella categoria delle illustri personalità eufemiesi trascurate proprio a causa degli ostacoli che si parano davanti a chi vorrebbe approfondirne il profilo biografico, nonostante le poche informazioni a disposizione siano sufficienti per comprendere la grandezza del personaggio e il suo impatto nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Più volte consigliere comunale nell’ultimo decennio dell’Ottocento e assessore agli inizi del Novecento, Pietro Pentimalli fu il sindaco della rinascita dopo il disastro del terremoto del 1908. Un evento drammatico sotto il profilo umano, che ebbe ripercussioni decisive nella storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia. La vicenda, nota, riguarda la ricostruzione del paese, attorno alla quale roventi furono le polemiche tra i due fronti contrapposti: l’amministrazione comunale eletta il 22 maggio 1910, con sindaco Pietro Pentimalli, era favorevole alla riedificazione nella nuova area della “Pezzagrande” e contava sull’appoggio del vecchio ma influentissimo Michele Fimmanò; l’altro gruppo, capeggiato dagli ex sindaci Francesco Capoferro e Antonino Condina-Occhiuto, era invece contrario e aveva tra i più agguerriti sostenitori il medico condotto Bruno Gioffré, il quale “con la sua splendida oratoria, con la facile parola di cui era dotato, accendeva gli animi degli eufemiesi, incitandoli alla resistenza”: «Più volte – ricordò il commissario prefettizio Francesco Cavaliere in un rapporto del 1918 – le campane a stormo riunirono i cittadini delle due parti, più volte stavano per verificarsi eccessi sanguinosi irreparabili». In una manifestazione, risalente al 1914, tale Pietro Crea si mise addirittura alla testa del corteo di protesta che dal Paese Vecchio si recò in “Pezzagrande” agitando un drappo nero, in segno di lutto per un trasferimento che per alcuni avrebbe significato la morte del paese.
Sappiamo come andò a finire. Grazie all’intervento del deputato reggino Giuseppe De Nava, si riuscì a superare il divieto di edificazione nel vecchio sito, per cui la ricostruzione nella nuova area non comportò l’abbandono coatto dei rioni preesistenti. L’accordo prevedeva inoltre la riconferma di Pietro Pentimalli alla guida del comune nelle elezioni del 1914.
Pentimalli fu politico tenace e tessitore dotato di un alto senso di responsabilità, caparbio nel centrare l’obiettivo etico, prima ancora che amministrativo, dell’unione e della concordia cittadina. Qualità rare al giorno d’oggi, che riecheggiano nel discorso pronunciato il 5 luglio 1914, in occasione della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».
La profezia di Paolino Visalli
Ascoltata la sentenza del tribunale che lo condannava a diciannove anni di prigione, il 20 settembre 1852 Paolino Visalli avrebbe pronunciato le celebri parole: «Per me bastano diciannove giorni; lascio ai miei giudici il resto della pena».
Nel libro Vitaliano Visalli ed i suoi figli (1790-1860), Luigi Visalli ricostruì nel 1935 le vicende che interessarono la sua famiglia in epoca risorgimentale. Dopo il fallimento dei moti del 1848 e lo sbandamento del comitato reggino che aveva il quartier generale nei “Piani della Corona”, dove era di stanza la Terza divisione dell’esercito calabro-siculo guidata dall’eufemiese Ferdinando De Angelis Grimaldi, sugli insorti si abbatté la scure della repressione borbonica, che si tradusse in condanne pesantissime. Eccessive se si considerano contestazioni quali “avere insultato il ritratto del sovrano”, oppure essere stati trovati in possesso di un fazzoletto simile a quello dei “repubblicani”.
La famiglia Visalli, sulla scorta di accuse fumose (“discorsi contro la Monarchia regnante”) fu decimata. Vitaliano morì latitante, i figli Ottaviano (padre dello storico Vittorio) e Paolino furono condannati a diciannove anni, il figlio minorenne Vincenzo a sette. Nelle rivoluzioni e nelle controrivoluzioni accade non di rado che sotto il manto degli ideali sbandierati si nascondano, in realtà, questioni personali e private. Non sfuggivano a tale logica le accuse contro Vitaliano Visalli, probabilmente inviso a parte della popolazione eufemiese per il suo ruolo di esattore comunale. Un episodio inquietante, d’altronde, si era verificato il 13 maggio 1848, giorno in cui il sindaco Antonino Lupini era stato deposto da rivoltosi che avevano occupato il municipio alla ricerca dei registri della fondiaria, da distruggere per cancellare i titoli giuridici che giustificavano la ricchezza dei proprietari terrieri. Venuti a sapere che i registri erano custoditi da Vitaliano Visalli, i ribelli avevano addirittura tentato di incendiarne l’abitazione, prima di essere messi in fuga dalle guardie nazionali. Organizzatore di quel tumulto era stato un certo Agostino Calabrò, “sinistro ceffo di malvivente, […] pignorato per mancato pagamento delle imposte”, che nel 1850 fu l’istigatore della denuncia presentata contro i Visalli da tale Pasquale Tripodi.
Paolino era inoltre accusato di avere portato il cappello “all’italiana” (“guarnito di penna e di nastro tricolore”), altrimenti noto come cappello “alla Ernani”, dal nome del protagonista dell’omonima opera di Giuseppe Verdi. Indossato dai patrioti risorgimentali come simbolo dell’aspirazione alla libertà e all’unità della patria, il copricapo trovò più tardi la consacrazione nel quadro “Il bacio”, del pittore Francesco Hayez (1859).
E pittore era lo stesso Paolino, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1824 e trasferitosi a Napoli nel giugno del 1846 per frequentare la scuola di Giuseppe Cammarano, esponente della pittura neoclassica partenopea, presso la quale si era formato il fratello Rocco, prematuramente scomparso a soli ventitré anni nel 1845 e autore delle opere “San Francesco” e “Santa Filomena”, conservate oggi nella chiesa delle Anime del Purgatorio a Sant’Eufemia.
In seguito al peggioramento delle condizioni di salute del fratello maggiore Francesco, nell’ottobre del 1847 Paolino Visalli era rientrato in paese e vi era rimasto per quasi tre anni prima di ritornare a Napoli, nel tentativo di sfuggire alla reazione borbonica. Tra la fine del 1850 e l’inizio del 1852 – scrive Luigi Visalli – realizzò una cinquantina d’opere, quasi tutte andate distrutte nel terremoto del 1908.
La sua prolifica attività pittorica fu bruscamente interrotta il 16 febbraio 1852. Arrestato, fu tradotto a Reggio Calabria presso il carcere di San Francesco (l’ex convento dei frati minimi, oggi sede del tribunale per i minorenni), dove il successivo 20 settembre accolse la sentenza di condanna.
Sugli ultimi giorni di vita di Paolino Visalli, che soffriva di gravi problemi di salute, drammatica è la testimonianza recuperata dallo storico Francesco Arillotta tra le annotazioni del diario segreto del sacerdote don Francesco Pontari, nello stesso periodo ristretto a San Francesco in attesa del processo.
Il 4 ottobre don Pontari sottolineava la crudeltà dei carcerieri nel rigettare la richiesta del “moribondo” Visalli, il quale domandava di incontrare il medico eufemiese Giuseppe Oliverio, anch’egli condannato per i fatti del 1848: «Non gli fu permesso. Al tardi venne il confessore Massara; dietro essersi confessato prega il confessore d’intercedere presso il custode maggiore per il medico, ma non l’ottenne». Il 9 ottobre 1852, poco prima della mezzanotte, Paolino Visalli esalava l’ultimo respiro. Dal giorno della sua condanna erano trascorsi esattamente diciannove giorni.
*In foto, Il bacio (Francesco Hayez, 1859)