Carmelo Tripodi

Nel 1906 il contesto socio-economico di Sant’Eufemia è quello tipico dell’entroterra aspromontano, caratterizzato da una bassa scolarizzazione, da un indice elevato di mortalità infantile e dal dominio di pochissime famiglie benestanti alle quali si contrappone una massa di contadini e pastori. Accanto ad essi, vi è la presenza significativa di un diffuso e apprezzato artigianato, al quale però corrisponde una scarsa gratificazione economica in un regime che ancora conserva per lo più i caratteri del baratto. Il sistema di trasporto più diffuso è quello a dorso di mulo, anche se da poco una corriera consente di arrivare a Bagnara, mentre per la Littorina bisognerà aspettare ancora vent’anni.
Sant’Eufemia d’Aspromonte si sta leccando le ferite del terremoto che l’8 settembre dell’anno precedente, pur non causando vittime, aveva semidistrutto il paese: 41 case erano state infatti dichiarate inabitabili e subito demolite, mentre 383 erano state gravemente danneggiate (altre 181 avrebbero subito danni nel successivo sisma del 23 ottobre 1907), preparando così il terreno per la tragedia del 28 dicembre 1908, quando fu annientato l’85% del patrimonio edilizio e rimasero sotto le macerie 537 eufemiesi (oltre 2.000 i feriti).
Perché questa premessa? Perché è da questa realtà che, proprio nel 1906, partono verso Palermo due quadri destinati all’Esposizione Campionaria Internazionale: “Galileo Galileo” e “Sant’Antonio abate”. L’autore delle opere si chiama Carmelo Tripodi e i due lavori gli avrebbero procurato le più alte onorificenze: Premio Concorso Universale Gran Corona d’oro con medaglia al valore artistico; Premio dell’Esposizione Gran Premio e Croce Insigne; Premio Concorso Nazionale Targa della Città di Padova. L’anno successivo Tripodi si sarebbe inoltre imposto nel Premio Concorso Internazionale “Gran Coppa d’Italia” e, nel 1912-1913 sarebbe stato eletto membro della Giuria d’Onore all’Esposizione Internazionale di Parigi.
Insomma, da uno dei posti più sperduti e sconosciuti d’Italia salta fuori un talento artistico che riesce ad imporsi in campo nazionale e internazionale. Basterebbero soltanto queste brevi informazioni per illustrare la caratura del personaggio. Un artista a tutto tondo, versatile e dal “multiforme ingegno”, che ha dato lustro alla nostra comunità e del quale occorre perpetuare la memoria.
Carmelo Tripodi nasce infatti a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 28 aprile del 1874 (e vi muore il 31 marzo 1950), figlio di Giuseppe e di Teresa Filardi, originaria di Melicuccà. Da ragazzo frequenta la bottega di un pittore del luogo (Versace) che gli trasmette l’amore per il disegno e per la pittura; quindi, nel 1895, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Messina e, completati gli studi, apre nel paese natio un proprio studio di pittura e scultura. Purtroppo il terremoto del 1908 distrugge gran parte delle opere fino ad allora realizzate, tra queste il monumentale altare per la chiesa di S. Maria delle Grazie, con il bassorilievo rettangolare sopra la nicchia della Madonna e le statue di San Pietro e di San Paolo poste ai due lati, ma il suo lascito rimane comunque di valore assoluto.
Tra le opere giunte ai giorni nostri, oltre ai due lavori già menzionati, hanno riscosso l’apprezzamento dei critici l’olio giovanile “San Rocco e gli appestati” e i dipinti della maturità: “Marie al sepolcro”, “Deposizione”, “Gesù che cammina sulle acque”, “Monaco in meditazione”, “Testa di Gesù”, “Mosè e il roveto ardente”, “Padre dell’artista”, “Suonatore sulla neve”, “Testa di frate”, “Testa di vecchia”.
Carmelo Tripodi sviluppa anche una sua personalissima arte nella lavorazione di stucchi, creta e soprattutto cartapesta: il “Sacro Cuore di Gesù”, che è possibile ammirare all’interno della chiesa di Sant’Eufemia, o il “Cristo alla Colonna” e il “Cristo morto” della Processione dei Misteri ne confermano la grandezza. Altre sue opere sono conservate ad Acquaro di Cosoleto (chiesa di San Rocco), Gioiosa Ionica (chiesa della Pietà), San Procopio (chiesa dell’Addolorata), Palmi (chiesa del Soccorso), in diverse altre chiese e palazzi nobili della Calabria e della Sicilia.
L’eclettismo di Tripodi abbraccia anche il campo della fotografia, che ai primi del Novecento comincia a diffondersi anche nei comuni più periferici. Il figlio Domenico Antonio Tripodi, artista di fama mondiale che, con i fratelli Agostino e Graziadei (“il restauratore al servizio di Dio”), ha ereditato il genio creativo del padre, ricorda l’emozione e lo stupore per quell’esperienza così “nuova” agli occhi di un bambino: «Tante volte, da piccolo, mi sono infilato nella “camera oscura” e sono stato testimone del suo paziente operare; timoroso, mi bastava toccare il suo pantalone per sentirmi rassicurato in quell’oscurità, che sapeva di mistero e di tempo infinito».
Carmelo Tripodi, che ha “prevalentemente immortalato il mondo eufemiese”, ci fa vedere com’era Sant’Eufemia in quegli anni, conoscere i volti degli anziani scavati dalle rughe o la “figura di cacciatore”, infine comprendere nella sua drammatica realtà l’immane tragedia del terremoto del 1908, grazie a scatti che consegnano all’eternità la sofferenza del popolo eufemiese.

*Per ulteriori approfondimenti si veda la pubblicazione “Carmelo Tripodi a cinquant’anni dalla morte”, a cura dei figli e dei nipoti, con il patrocinio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Tipografia ABILGRAPH, Roma, ottobre 2000.

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Siate maledetti

Come troppe volte nel corso di quest’estate d’inferno, anche oggi bruciano i boschi attorno a Sant’Eufemia. Incoscienti e criminali, a voi giunga tutto il nostro disprezzo. E siate maledetti.

Siate maledetti per le colonne grigie che imbrattano l’azzurro del cielo.
Siate maledetti per le notti macchiate d’arancio.
Siate maledetti per il bruciore dei nostri occhi.
Siate maledetti per il raschio alle nostre gole.
Siate maledetti per le nostre narici ferite.
Siate maledetti per l’odore di morte appiccicata alla nostra pelle.
Siate maledetti per quest’aria di gesso.
Siate maledetti per ogni albero, per ogni fiore, per ogni ciuffo d’erba incenerito dalla vostra follia.
Siate maledetti perché il vostro fuoco non purifica, non riscalda, non è vita.
Siate maledetti per i funghi che non raccoglieremo.
Siate maledetti per le viole che non fioriranno.
Siate maledetti per i bambini preoccupati: «Dove dormiranno ora gli animaletti del bosco?».
Siate maledetti per il rumore delle pale dell’elicottero.
Siate maledetti per questa caligine di apocalisse.
Siate maledetti per le facce sudate e annerite dei volontari.
Siate maledetti per le frane che arriveranno con le prime piogge.
Siate maledetti perché ogni rogo è una coltellata al cuore.
Siate maledetti per le vostre coscienze ridotte a cenere.
Siate maledetti perché non siete capaci di amare neanche voi stessi.

*Foto tratta dal profilo Facebook di Enzo Comi

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Giovanni Lupini

La ricerca storica può a volte trasformarsi in una sorta di caccia al tesoro. Non tutte le fonti locali sono ordinate, per cui bisogna procedere a tentativi e affidarsi al proprio fiuto. Un’intuizione diventa una traccia da seguire, l’eccitazione della ricerca, il livello di autostima alle stelle quando ci si accorge di averci visto giusto, di avere fatto centro: eureka!
È andata proprio così per capire dove e quando morì Giovanni Lupini, concittadino al quale gli eufemiesi hanno dedicato una delle vie centrali del paese nell’area edificata dopo il terremoto del 1908, conosciuta durante il Ventennio con la denominazione “via XXIII Marzo”, la data di nascita del fascismo che emetteva i primi vagiti nell’adunata di piazza San Sepolcro a Milano (1919).
Ma chi era Giovanni Lupini? Luigi Visalli, fratello del più celebre Vittorio, in un volumetto del 1935 (Vitaliano Visalli e i suoi figli: 1790-1860) racconta le vicende della propria famiglia, che si intrecciano con la storia di Sant’Eufemia nel periodo pre-unitario. Una di queste, dieci anni dopo narrata anche da Vincenzo Tripodi (Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte), vide suo malgrado coinvolto Antonino Lupini, padre di Giovanni, che all’epoca era sindaco di Sant’Eufemia.
Il 13 maggio 1848 il paese fu infatti teatro di una rivolta contro le istituzioni municipali e gli gnuri del luogo, che portò all’occupazione del municipio e al saccheggio delle abitazioni dei notabili: finalità del tumulto erano la distruzione dei registri della fondiaria, la cancellazione delle “prove” delle ricchezze immobili dei proprietari terrieri e la spartizione delle terre comunali tra gli insorti. La sommossa fu sedata in soli due giorni, grazie all’intervento della guardia nazionale comandata da Ferdinando De Angelis Grimaldi.
Il mio primo “incontro” con Giovanni Lupini fu effetto della ricerca sulla storia politica ed amministrativa di Sant’Eufemia nel sessantennio post-unitario, in virtù del reperimento dei documenti relativi alle elezioni amministrative e dei verbali dei consigli comunali, i quali contengono anche alcuni dati personali degli eletti (età, professione), mentre altre notizie fu possibile estrapolarle dai rapporti della prefettura sull’ordine pubblico della provincia.
Avvocato penalista come il padre, ne seguì le orme anche in politica, risultando eletto consigliere comunale già nel 1866, a ventisei anni. Le carte registrano poi un vuoto di quindici anni, ma nel 1881 Lupini riappare sulla scena come presidente della società operaia di mutuo soccorso da lui costituita e tra i promotori delle manifestazioni popolari contro l’applicazione della tassa sul focatico, culminate il 21 novembre con un doppio corteo di protesta. Il primo, composto da circa 500 dimostranti e capeggiato dal calzolaio Antonino Tripodi, fu infatti sciolto dalle forze dell’ordine. Ma la repressione non fece altro che peggiorare la situazione, visto che qualche ora più tardi circa 2.000 persone si riunirono nuovamente e andarono a gridare ancora più forte sotto la casa del sindaco Michele Fimmanò, costretto a cedere ad alcune richieste e a dimettersi insieme alla giunta municipale.
La contrapposizione tra Lupini e Fimmanò aveva avuto in realtà un precedente nelle elezioni politiche del 1880, con il primo schierato al fianco del ricco possidente di Bagnara Carmelo Patamia, mentre il secondo aveva sostenuto il reggino Saverio Vollaro, poi eletto.
Della biografia di Giovanni Lupini, che in seguito (1882 e 1889) fu nuovamente eletto consigliere comunale, non si conosce molto altro. Anzi, fino a pochi anni fa non erano noti neanche la data e il luogo del suo decesso, indispensabili per la stesura del suo medaglione biografico. Fu proprio in tale circostanza, per riallacciarmi alle prime righe di questo articolo, che la ricerca mi portò… nel cimitero di Palmi!
L’età riportata sui verbali delle elezioni comunali consentiva di risalire all’anno di nascita e dava quindi la possibilità di consultare il relativo registro, dal quale si evinceva che Giovanni Lupini (figlio di Antonino e di Domenica Varda) era nato a Sant’Eufemia l’11 aprile 1840. Unica ulteriore annotazione presente era la data del matrimonio con Teresa Passino, celebrato a Palmi il 3 giugno 1878. Niente da fare, invece, per la data della morte che, non risultando nei registri del comune di Sant’Eufemia, “poteva” – forse: chissà! – essere recuperata a Palmi. Valeva la pena fare un tentativo, presto mortificato dalla laconica risposta dell’impiegato comunale: «Negli anni Venti un incendio ha distrutto molti registri dello Stato civile, mi dispiace non potere esserle di aiuto».
Non rimaneva altro da fare che incrociare le dita e fare un giretto all’interno del cimitero di Palmi. Se Giovanni Lupini, come sospettavo, era deceduto a Palmi, potevo ancora sperare di trovare la sua tomba e, con essa, la data del suo decesso. E così fu: la sua morte avvenne il 17 luglio 1891 e il suo corpo riposa oggi nel cimitero di Palmi, all’interno della cappella di famiglia che, per la verità, versa in condizioni di completo abbandono.
Al di là di questo ricordo personale, ritengo che la biografia di Giovanni Lupini meriterebbe di essere approfondita. Magari cercando di recuperare i documenti della società di mutuo soccorso, per verificare quanto egli sia stato influenzato in quell’attività dalla frequentazione di Palmi, città che già nel 1876 contava una S.O.M.S. con la quale, molto probabilmente, egli era entrato in contatto e coltivava rapporti.

*Fonti:
– Luigi Visalli: Vitaliano Visalli e i suoi figli: 1790-1860, Tipografia Genovesi, Palmi 1935.
– Vincenzo Tripodi: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte, 1945 (seconda edizione con presentazione e note a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice, Brescia 1999.
– Domenico Forgione: Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, La città del sole, Reggio Calabria 2008 [in particolare, per la ricostruzione della manifestazione di protesta del 1881, si vedano le pp. 129-151].
– Domenico Forgione: Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2013 [Via Lupini, pp. 93-96].

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La colonia dell’Agape 2017

L’immagine della colonia dell’Agape 2017 è del primo giorno di mare. Facciamo il consueto giro per riempire il pulmino e arrivati a casa di M. la troviamo già in strada: appena ci vede arrivare comincia a venirci incontro correndo ebbra di gioia, con il suo sorriso sdentato e bellissimo. In quel sorriso c’è l’attesa di un anno. La sua felicità si scioglie nell’abbraccio alla nostra presidente, che viene quasi stritolata e sollevata letteralmente da terra.
La colonia dell’Agape è un concentrato di immagini, di parole, di emozioni. Le canzoni urlate nella mezzoretta che ci separa dalla spiaggia, quando anche il pulmino sembra fare la hola al ritmo dei tormentoni dell’estate. I balli improvvisati sotto la capanna dell’Agess di Bagnara, che con molta generosità e spirito di collaborazione ci consente di utilizzare le attrezzature del proprio campo estivo. I giochi inventati sul momento e suggeriti proprio dai nostri ragazzi, con un “regolamento” che può subire variazioni in corso d’opera! La “lettera” d’amore per un volontario scritta con caratteri che solo l’amore riesce a decifrare.
E se un giorno piove, pazienza. Si trova sempre il modo per stare insieme, che è – ce l’hanno insegnato proprio loro – la cosa più importante. Anche al chiuso di una casa si può cantare “siamo i patuffi”, mentre G. con la playstation corre e segna come tutti gli altri bambini, si lancia in tackle oppure si tuffa per parare il rigore di un incredulo Higuain, che si mette le mani tra i capelli.
La colonia è la ragazza che ogni estate torna in paese e parte delle sue vacanze le vive da volontaria, proprio come faceva quand’era una studentessa liceale. Un modo per continuare a sentirsi parte di una comunità, certo, che però non si può spiegare senza considerare quanto ha dovuto incidere l’esperienza vissuta in quegli anni. Ma è anche il volontario che mette sempre a disposizione la sua macchina per fronteggiare eventuali imprevisti e al quale, ogni tanto, capita di dover fare più volte avanti e indietro dal paese.
Qual è il senso di queste righe, di questa sorta di resoconto annuale? Il volontariato vive spesso nell’anonimato, lontano dai riflettori. Fare molto e parlare poco è un principio valido, che conferisce maggiore dignità all’operato di chi si impegna in favore degli altri senza aspettarsi niente in cambio.
Oltretutto si sa che su questi temi è facile trovare applausi, likes e ogni altro tipo di complimenti: quindi non è questo il punto, non è questa la ragione della “pubblicità” per la colonia. Il motivo è ben più profondo e nasce dalla considerazione che non bisogna mai dare niente per scontato. Le cose non durano per sempre, se purtroppo – per motivi ahinoi plausibili – sono sempre di meno coloro che si impegnano per farle durare. Questo per dire – banalmente – che le associazioni di volontariato, per svolgere le proprie attività, hanno bisogno di volontari, di gente disposta a rinunciare a qualcosa di sé per dedicare agli altri un’ora, un giorno o una settimana del proprio tempo.
Il tempo dedicato al prossimo non è mai tempo sprecato.

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La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908

Il terremoto del 1908 costituisce l’evento più sconvolgente della storia di Sant’Eufemia e il suo snodo cruciale: c’è un “prima” e un “dopo” che va oltre la cronaca di quegli avvenimenti, perché la ricostruzione consegnò ai sopravvissuti un paese radicalmente diverso, a partire dalla sua disposizione geografica. Un tema – la ricostruzione in un nuovo sito di un paese distrutto – ancora attuale e non di facile soluzione, che si scontra con la caparbia di chi non vuole allontanarsi dai posti in cui ha sempre vissuto per una questione affettiva, ma anche di identità. Siamo tutti il prodotto della vita vissuta da altri prima di noi nelle nostre stesse strade, piazze e campagne, per cui la perdita dei “propri” luoghi disorienta e provoca una sensazione di sradicamento che sgomenta.
La Sant’Eufemia rasa al suolo all’alba del 28 dicembre 1908 – che coincideva per lo più con i rioni Paese Vecchio e Petto – era già un paese ferito, le sue abitazioni rese precarie da sismi più o meno recenti. Il terremoto del 16 novembre 1894 aveva infatti provocato sette morti, il crollo totale di 212 abitazioni e quello parziale di 326 (oltre a danni gravi in 432 case e lievi in 188); dopo quello dell’8 settembre 1905 erano state gravemente danneggiate 383 costruzioni, 41 dichiarate inagibili e demolite; 181 infine, gli edifici lesionati il 23 ottobre 1907. Anche per questo la scossa del 1908 ebbe effetti catastrofici: 530 le vittime dell’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato (ma i documenti prodotti dalla giunta comunale fanno salire la cifra a circa 700), più di 2.000 feriti e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio. L’area circostante la fontana Nucarabella riportò i danni minori, con il macello comunale che rimase quasi intatto. Le poche case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894 nell’area denominata “Piazzetta”. Le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie; nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate in alto (piazza Vittorio Emanuele II). Un dato anch’esso significativo: su circa cinquanta lampioni della pubblica illuminazione, ne restarono in piedi nove.
Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, che già ospitava quello sorto dopo il terremoto del 1894 e che contava anche alcune casette costruite dopo il 1907, ora distrutte. Furono espropriate diciotto proprietà, costruite strade, realizzati un ospedale, una chiesa, l’acquedotto e 1.300 baracche capaci di dare alloggio a circa 5.000 persone.
Un regio decreto del 15 luglio 1909 proibì la costruzione nelle aree distrutte dal terremoto, ad eccezione delle zone pianeggianti del rione Petto, ma il provvedimento governativo non fu accolto favorevolmente da tutta la popolazione e scatenò reazioni violentissime.
L’amministrazione comunale eletta il 22 maggio e guidata dal notaio Pietro Pentimalli era però favorevole al trasferimento nella nuova area, così come il vecchio ma ancora molto influente Michele Fimmanò; di avviso contrario, invece, un consistente numero di famiglie storiche: Capoferro, Gioffré, Condina-Occhiuto. Un fronte agguerritissimo, che non si diede per vinto neanche a lavori ultimati (fine 1910) e che promosse una raccolta di firme da allegare al parere del geografo Mario Baratta, specializzato in sismologia storica, il quale – nell’opuscolo Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 1908 – sostenne che, in realtà, il suolo sottostante alla Pezza Grande era “il peggiore di tutti” e quello del Paese Vecchio “relativamente migliore” in rapporto alla stabilità sismica delle costruzioni.
La giunta e il sindaco risposero indirizzando al presidente del consiglio Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Sacchi un memorandum (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte) sottoscritto da oltre duemila firmatari: in premessa venivano avanzati pesanti dubbi sull’onestà intellettuale di Baratta; nel merito della polemica si sosteneva invece che, poiché non era possibile riunire tutta la popolazione nella vecchia area, sarebbe stato più saggio farlo nell’area nuova, che era “separata” e “lontana” dal vecchio abitato: mantenerle entrambe rischiava di innescare un pericoloso dualismo. Nonostante il governo avesse dato ragione all’amministrazione comunale (maggio 1912), non cessarono le pressioni per modificare il provvedimento legislativo che aveva dichiarato inedificabile l’area del vecchio abitato, per la quale comunque il sindaco Pentimalli aveva accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore.
Le deroghe concesse, in realtà, rappresentavano la quadratura del cerchio e aprirono le porte alla soluzione definitiva della vicenda, che fu concordata in occasione delle elezioni comunali del 1914 nel salotto dell’avvocato Gabriele Fimmanò (figlio di Michele, da un anno passato a miglior vita). Grazie al sostegno del deputato reggino De Nava, Fimmanò riuscì a fare sedere attorno allo stesso tavolo “i migliori elementi delle due parti”, i quali siglarono un accordo elettorale che poneva fine alle ostilità in cambio – su questo punto garantiva De Nava – della revisione della legge che demandava al Genio civile di Reggio l’ultima parola sulla definizione delle zone edificabili: in concreto, ciò significava l’abolizione del divieto di costruire nelle aree maggiormente colpite dal terremoto, che fu di fatto decretata dal governo il 3 settembre 1916. Il volto di Sant’Eufemia cambiava definitivamente e assumeva quello attuale caratterizzato dalla suddivisione nei tre popolosi rioni di Paese Vecchio, Petto e Pezza Grande.

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Auguri al blog Pont’i Carta

“Pont’i carta” è un blog gestito da 12 ragazzi di Sant’Eufemia, che ieri ha festeggiato i primi due anni di attività. Tutto ciò che si muove in una comunità è sempre positivo, così come il contributo dei giovani alla sua crescita culturale e sociale. È quello che cercano di fare questi ragazzi, che vanno pertanto incoraggiati. Da qui i miei auguri, da “collega” con qualche anno in più sulle spalle. 

Due anni di attività per un blog come “Pont’i carta” che punta a valorizzare la comunità cui si rivolge possono sembrare pochi, in realtà significano molto. Ogni articolo richiede impegno: individuare un tema che sia interessante per i lettori, cercare le informazioni, redigere materialmente lo scritto. Ci vuole costanza, ma anche la precondizione indispensabile di un forte senso di appartenenza alla propria terra. E poi una molla indispensabile: chiedersi cosa si possa fare per rendersi utili.
Parafrasando Francesco Guccini nella sua L’avvelenata, sappiamo bene che “a parole non si fan rivoluzioni». Sarebbe presuntuoso pensare di capovolgere logiche e modi di essere sedimentati nel tempo, soltanto con un articolo. Si può però dare un segnale, indicare che esiste un altro modo di vedere il mondo, di approcciarsi ai temi fondamentali dello stare insieme. Chi scrive ha questa grande responsabilità, perché è quasi naturale diventare, nel proprio piccolo, punto di riferimento per qualcuno. Proprio per questo le parole sono importanti, ma anche il modo in cui vengono “offerte” a chi ci legge. «L’ho letto sulla Gazzetta del Sud»: è una delle frasi più ricorrenti che capita di ascoltare quando qualcuno cerca di sostenere una propria tesi, rafforzandola con l’autorevolezza riconosciuta da decenni al quotidiano più diffuso dalle nostre parti. Tanto è vero che nei bar, dal barbiere, in qualunque posto frequentato da più persone la presenza della Gazzetta (ma anche, fortunatamente, del Quotidiano del Sud: il pluralismo dell’informazione è sempre un bene) è fissa, tutti i giorni.
Ho iniziato sette anni fa a scrivere sul mio blog “Messaggi nella bottiglia”, conosco difficoltà e vantaggi connessi a questo genere di attività. E sono stato molto felice quando, due anni fa, avete intrapreso quest’avventura, per due motivi. Perché siete giovani, ed è sempre bello vedere ragazzi che s’impegnano per il proprio paese; perché alcuni di voi lo fanno “da lontano”, dalle città universitarie in cui vivete o lavorate. Mi sembra una forma d’amore bellissima, da ammirare.
Vi è anche capitato di scontrarvi con chi non ha particolarmente apprezzato qualche vostro articolo di critica, fa parte del “mestiere”. Ma il dissenso è il sale della democrazia, soprattutto se esternato con garbo e senza la pretesa di avere una soluzione preconfezionata, da utilizzare in maniera automatica e acritica. Il rapporto dialettico aiuta sempre a crescere, se la polemica non è strumentale o preconcetta. In ogni caso, la soddisfazione suscitata dalla certezza di avere comunque prodotto un servizio utile per la comunità aiuta a superare ogni possibile incomprensione. Poi, si sa che non si può piacere a tutti: ma non è un motivo valido per tenere la bocca chiusa o le braccia conserte. Il quieto vivere è una malattia pericolosissima, ma la parola può darle molto filo da torcere.
Buon anniversario e buon lavoro.

*Pubblicato su https://ponticarta.wordpress.com/2017/03/13/auguri-speciali-per-ponti-carta/

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L’Agape si tinge di rosa, Iole Luppino eletta presidente

Il nuovo presidente dell’Agape ha il volto sorridente di Iole Luppino, laureanda in Architettura. Una sorta di “rinnovamento nella continuità”, considerato che, nonostante la giovane età (venticinque anni: per una curiosa coincidenza la stessa età dell’Agape), Iole ha alle spalle una lunga esperienza nell’associazione. Rinnovato anche il Direttivo, del quale farà parte il predecessore Pasquale Condello: insieme a lui, l’inossidabile Peppe Napoli, Cettina Violi, Gresy Luppino, Vince Cutrì e l’autore di questa breve intervista.

Qual è il tuo primo ricordo legato all’Agape?
Avevo all’incirca 10 anni quando vi incontrai la prima volta, grazie a mia zia Gina, che era già socia dell’associazione. Mi chiese se volevo venire a visitare il Santuario di San Francesco a Paola ed io risposi di sì. Ricordo che osservavo i ragazzi disabili e osservavo voi che con tanta cura e amore li aiutavate in tutto. Fui colpita da questi gesti semplici che regalavano sorrisi e credo che proprio da quel giorno iniziai a capire il senso della parola “volontariato”.

Cos’è l’Agape per te e, in generale, cosa pensi del volontariato?
L’Agape per me è “amore verso gli altri”. L’Agape ha arricchito la mia vita: l’entusiasmo che mi è stato trasmesso da ogni singolo volontario e ragazzo disabile è un valore che ha segnato la mia vita. Il desiderio di “partecipare”, di “mettersi al servizio” degli altri: sono emozioni che si possono provare solo vivendole. Il volontariato è l’opera più bella che ogni uomo può fare: nel momento in cui riesci a “donare” e a renderti utile nel tuo piccolo, ti senti gratificato perché sai di essere riuscito a fare qualcosa per l’Altro.

Raccogli la “pesante” eredità di Pasquale Condello. Come ti senti? 
Pasquale è e sarà sempre un esempio che cercherò di seguire. Sono pronta a vivere questa nuova fase della mia vita e della mia attività nell’Agape. Mi sento forte perché, oltre all’esperienza personale maturata in tutti questi anni, so di avere accanto nell’associazione gli amici di sempre. Insieme a loro non sarò mai sola.

C’è qualcosa di particolare che vorresti realizzare da presidente dell’Agape? 
Credo che far conoscere la nostra realtà a tutti i ragazzi delle scuole di ogni grado possa rappresentare un primo passo, affinché anch’essi si avvicinino al mondo del volontariato. Per alcuni sarà affacciarsi a un mondo sconosciuto, che però può essere molto utile per la loro formazione: è importante mettere i giovani in contatto con tutto ciò che si muove nella società, coinvolgerli nelle iniziative, diffondere una conoscenza più corretta delle problematiche legate alla disabilità. Inoltre, un maggiore impegno in favore dei soggetti più svantaggiati della nostra comunità e corsi di formazione per noi volontari.

Sei una ragazza giovane: vuoi dire qualcosa ai ragazzi di Sant’Eufemia? 
A tutti i ragazzi dico che il desiderio di mettersi in gioco, di confrontarsi e di rendersi utili per la propria comunità fa maturare come individui e come cittadini del mondo. È un sentimento che deve nascere dal cuore in maniera spontanea e disinteressata e che ha bisogno di essere coltivato, ma aiuta a dare ad ogni vita un significato più pieno.

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Don Pepè Chirico, il medico che aveva una parola di conforto per tutti

«Eccolo, è arrivato don Pepè». Poche parole che riuscivano a infondere speranza, non appena il medico condotto Giuseppe Chirico metteva piede dentro la casa di un ammalato a Sant’Eufemia. Lo ricorda il professore Giuseppe Calarco nella testimonianza rilasciata per un documentario biografico realizzato dalla Pro Loco nel 2001: «Aveva sempre una parola di conforto e la sua presenza al capezzale dell’ammalato trasmetteva serenità, tanto incideva la sua personalità. Don Pepè non era “un” medico, ma “il” medico: sempre pronto ad ascoltare, consigliare, infondere fiducia. Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere. Questo era il dottore Chirico».
La stima dei suoi concittadini è totale: a lui vengono confidate anche le preoccupazioni di chi, nel secondo dopoguerra, spesso fatica a guadagnare un pranzo dignitoso. Braccianti agricoli, pastori, gente in cerca di una jornata, piccoli artigiani che vivono dell’essenziale: un’umanità a volte dolente, piegata dagli stenti e dalla fatica del duro lavoro, dalle cattive condizioni igieniche delle proprie misere abitazioni, dal dolore causato in quasi tutte le famiglie dall’elevatissimo indice di mortalità infantile. Don Pepè ascolta, consola, consiglia. Una lezione di vita appresa nel negozio di cereali all’ingrosso che i genitori – Gaetano e Maria Domenica Barilà – gestivano nel rione Paese Vecchio, dove Giuseppe Chirico nasce il 16 ottobre 1915, primo di cinque fratelli (quattro maschi e una femmina).
Conclusi gli studi ginnasiali a Palmi e conseguito il diploma di maturità classica presso l’Istituto “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, si iscrive alla Regia Università di Messina e si laurea in Medicina nel giugno del 1940. È destinato a raccogliere il testimone dello zio Stefano, medico condotto del paese sin dalla fine dell’Ottocento, ma con l’entrata in guerra dell’Italia viene inviato in Croazia, dove trascorre gli anni del conflitto prima come tenente, successivamente come capitano medico. Un’esperienza forte e dolorosa, che ne segna il carattere.
Alla fine della guerra rientra a Sant’Eufemia e finalmente può incominciare a dedicarsi alla cura dei propri concittadini. Lo fa a qualsiasi ora del giorno e della notte, con un senso di umanità fuori dal comune. Per quarant’anni la sua è una missione al servizio di tutti: non c’è porta che non sia stata varcata dalla sua esile figura, nella destra l’inseparabile borsa in pelle. Professionista serio e preparato, uomo onesto e dalla profonda rettitudine morale, per il dottore Chirico l’affetto e il rispetto degli eufemiesi assumono le caratteristiche della devozione.
Proprio per questo l’intera comunità rimane sconvolta quando, il 21 febbraio 1976, don Pepè viene rapito mentre sta rientrando dalla visita a un suo paziente. Sant’Eufemia vive settantasette lunghissimi giorni di angoscia, stretta attorno alla moglie ed ai tre figli del “suo” medico. Ma la rabbia e la preoccupazione della popolazione si sciolgono infine in un’esplosione di gioia collettiva, alla notizia del rilascio. Un fiume di persone si riversa nelle strade e accorre commossa sotto la sua abitazione, fino a quando Chirico non si affaccia dal balcone per ricambiare il calore di una folla immensa e per assicurare a tutti che “la nottata è passata”: «È stato un brutto sogno», dichiara al giornalista che ne raccoglie la prima dichiarazione.
La sua missione al servizio del paese riprende con maggiore slancio. Una missione che prosegue anche dopo il pensionamento, per i tanti concittadini che chiedono ugualmente di essere visitati da don Pepè. Dal 3 maggio 1995 – data della sua morte – sono trascorsi oltre vent’anni, ma tra la gente che lo ha così tanto amato è ancora vivo il ricordo dell’uomo e del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli migliori di Sant’Eufemia.

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Grazie, presidente

Dopo quindici anni l’Agape si appresta ad affrontare un fisiologico cambio di guida. Tre lustri targati Pasquale Condello, che aveva raccolto il testimone da Luigi Surace, presidente dell’Associazione di volontariato eufemiese dalla sua costituzione (1991) al 2002 quando, appunto, cedette il testimone. Quindici anni fa Pasquale Condello era poco più che un ragazzo, tanto che quella scelta fu da qualcuno vista come un azzardo, nonostante la sua esperienza nell’Agape fosse già datata. In questi anni ha messo su uno studio da avvocato ed è diventato un buon padre di famiglia, con impegni che a volte diventa complicato gestire, se non altro sotto il profilo del tempo da dedicare alle incombenze burocratiche e pratiche dell’associazione. Da qui la decisione di lasciare la presidenza, presa di concerto con tutti i componenti dell’Agape e con le modalità (per utilizzare un gergo oggi molto in voga) del “passo di lato”, piuttosto che del “passo indietro”. Un passaggio formale, ma dovuto, più che sostanziale: tutti quelli che facciamo parte dell’Agape, compreso Pasquale, continueremo nell’impegno a favore dei soggetti più svantaggiati della nostra comunità.
Il ricambio generazionale va praticato, non soltanto enunciato. Ed è questo il senso di una scelta non avventata: all’interno dell’associazione sono presenti energie pronte a dare continuità a un lavoro ormai consolidato. Giovani pieni di passione, maturi e in possesso dell’esperienza necessaria per ricoprire ruoli di grande responsabilità.
I quindici anni di presidenza Condello hanno inciso in profondità nel tessuto sociale eufemiese. La celebrazione della “giornata mondiale del malato” (11 febbraio) è diventata un appuntamento fisso, così come le raccolte di fondi per l’Airc, il Natale e la Pasqua di solidarietà, la collaborazione con il MOVI (movimento organizzato volontari italiani), i progetti realizzati in collaborazione con l’amministrazione comunale e rivolti agli anziani, ai disabili e ai minori provenienti da nuclei familiari disagiati. Ancora, la sinergia con il liceo scientifico “Enrico Fermi” per la promozione – in collaborazione con il Centro Servizi al Volontariato dei Due Mari di Reggio Calabria – della cultura e dei valori del volontariato tra gli studenti. Infine, i pellegrinaggi: su tutti, quello a Lourdes nel 2011 e l’ultimo, a Roma nel 2016, in occasione del Giubileo degli ammalati e delle persone disabili.
Le iniziative dedicate ai disabili hanno rappresentato, in questi quindici anni, il marchio inconfondibile dell’Agape e dell’attività del presidente Condello: in particolare, l’organizzazione annuale della colonia estiva, con il concentrato di emozioni che ogni estate vengono regalate ai volontari da amici più o meno grandi, tutti speciali.
Mi fermo qua, tralasciando gli aspetti personali di questa lunga cavalcata, che pure hanno segnato il mio e il suo cammino. Un cammino che in realtà precede la nostra stessa adesione all’Agape, ma che di certo continuerà ancora, accanto al futuro presidente.

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Piazza Aid Committee, o della memoria cancellata

Da ragazzino mi è capitato spesso di giocare a calcio con altri miei coetanei in uno spiazzo denominato “piazza Aid Committee”. Per noi che trascorrevamo ore ed ore nella “nostra” piazza, quella intitolata a Giacomo Matteotti, era una soluzione di ripiego da adottare quando l’altra ci veniva preclusa, per i più svariati motivi. Finivamo così per arrangiarci un isolato più in alto, nell’area sottostante la chiesa di Sant’Ambrogio.
Ogni tanto qualcuno di noi si chiedeva il perché di quel nome, senza mai riuscire a risolvere il mistero di quelle due parole straniere.
Oggi piazza Aid Committee non esiste più: una ventina d’anni fa venne ristrutturata e ribattezzata “piazza maresciallo Azzolina”, in ricordo del servitore della patria e buon padre di famiglia ucciso nei pressi della fontana “Pirina” il 17 giugno 1996. Una decisione saggia, quella dell’amministrazione comunale del tempo, che così intese onorare il sacrificio del comandante della stazione dei carabinieri di Sant’Eufemia.
Ma la memoria non si coltiva seppellendo altra memoria. Su questo punto la Deputazione di Storia Patria per la Calabria ha una posizione chiara, purtroppo ignorata da chi si occupa della toponomastica delle città. Ogni toponimo ha una sua “storia”, racconta un’emozione, testimonia valori condivisi che fanno di una massa di persone una comunità. Per queste ragioni, la Deputazione è contraria alla sostituzione dei vecchi toponimi.
Un accorgimento di buon senso sarebbe il mantenimento dell’antica denominazione accanto alla nuova (nel caso specifico: piazza maresciallo Azzolina, già piazza Aid Committee), come pure da qualche parte accade. Non è il caso nostro.
In genere la sostituzione di un toponimo è frutto dell’emozione del momento o dell’esito di un processo storico, che sempre annovera vinti e vincitori. Tutta la toponomastica fascista, alla caduta del regime, è stata infatti cancellata e sostituita con quella democratica.
Io, che considero l’antifascismo il valore fondante della Repubblica italiana, non sono tuttavia convinto della bontà di questa scelta. Non ne sono convinto perché il Ventennio, con i suoi drammi e con i suoi crimini, fa parte della storia di questo Paese ed è illusorio pensare di poterlo cancellare o fare finta che non sia esistito.
Due esempi. Il gerarca fascista Maurizio Maraviglia nel 1926 aveva presenziato ad uno dei momenti più alti della storia di Sant’Eufemia: l’inaugurazione del palazzo comunale costruito dopo il terremoto del 1908 e l’apertura del nuovo acquedotto. La via dedicatagli – successivamente intitolata a Giovanni Amendola – ricordava quindi l’opera di ricostruzione attuata dal governo nazionale, ma anche ciò che quest’opera simboleggiava: il riscatto di un popolo che letteralmente si risollevava dalle macerie.
Il genovese Giacomo Chiuminatto era stato invece titolare della ditta che realizzò la galleria e il ponte in ferro della linea taurense (la vecchia “littorina”). Perché cancellarne il nome, tra l’altro sopravvissuto nel sentire comune grazie alla locuzione “poti quantu o cavaddu i Chiuminatto” (riferito a persona forte, come lo erano i cavalli da tiro utilizzati dalla ditta per il trasporto del materiale da costruzione)?
Analoga sorte è toccata a piazza Aid Committee, che onorava la storia di straordinaria generosità degli emigrati eufemiesi negli Stati Uniti costituitisi in comitato di aiuti a beneficio della propria terra di origine, nel 1966. Presidente del comitato era il commendatore Vincenzo Ascrizzi, il quale a ventitré anni (nel 1927) era giunto a Brooklyn con un diploma di ragioniere in tasca. Qui aveva lavorato alle dipendenze della Bank of America e della National City Bank, era stato manager della Sunland Beverage Company e infine (1947) aveva aperto un’agenzia di viaggi che negli anni ’60 contava circa venti dipendenti. Ascrizzi, che fu membro di diverse organizzazioni benefiche (tra queste, la Boys Town of Italy), ricevette numerosi riconoscimenti per la sua attività filantropica: nel 1963, il presidente della Repubblica Antonio Segni gli conferì la “Stella della solidarietà di seconda classe” e il titolo di commendatore; nel 1965 fu nominato cavaliere dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; nel 1968 il Vaticano lo elevò al grado di cavaliere di Gran Croce.
L’elenco delle opere benefiche realizzate a Sant’Eufemia grazie alla raccolta di fondi del comitato è imponente: ristrutturazione delle chiese di Santa Maria delle Grazie, Sant’Eufemia, Purgatorio e Sant’Ambrogio (alla quale fu anche donato un terreno); fondi destinati alla scuola media, alla realizzazione di un “primo lotto di strade interne” e del “primo lotto della rete idrica esterna”; l’acquisto di un’autoambulanza Fiat; aiuti annuali all’Orfanotrofio antoniano femminile.
L’Aid Committee ha rappresentato per anni il volto migliore della nostra emigrazione. Un filo ideale tiene unite persone distanti migliaia di chilometri e le fa sentire comunità, protagonisti di una storia condivisa e di un destino comune. Piazza Aid Committee ricordava una bella pagina di solidarietà tra fratelli lontani, che non andava assolutamente cancellata.

*In foto, le insegne dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana (oggi denominato “Ordine della Stella d’Italia”)

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