Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – La recensione di StrettoWeb

SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE E LA GRANDE GUERRA: LA COLOSSALE RICERCA CHE RESTITUISCE UNA STORIA E UN’IDENTITÀ AI CADUTI.
In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia d’Aspromonte offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli – Articolo di Monia Sangermano per StrettoWeb

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, un tema ostico e complesso, ma sempre attuale quello trattato da Domenico Forgione nel suo ultimo lavoro di ricerca, tramutato in un libro che a breve sarà dato alle stampe. Ciò che è accaduto in un periodo storico tra i più caldi che la storia italiana ricordi ha cambiato la conformazione umana e sociale di quasi i tutti i comuni della nostra penisola, andando a rivoluzionare soprattutto le regioni del sud. In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli. Forgione, esperto e appassionato di storia, ha voluto raccogliere in un volume tutte le vite di questi eufemiesi, “accompagnandoli” nel loro percorso di guerra e di vita, che li ha portati in alcuni casi a tornare dalle loro famiglie e in molti altri a trovare la morte in terra straniera. Una morte che ha dunque privato la comunità di un consistente patrimonio umano e che oggi, dopo un secolo, può essere ricostruito e fatto conoscere a tutti grazie a questa approfondita ricerca.
“Le fonti che ho utilizzato – spiega Forgione che ha portato a termine una minuziosa e certosina ricerca durata oltre 4 anni – sono diverse: i ruoli matricolari, ovvero 256 volumi con tutte le classi dal 1875 fino al 1900; l’Ufficio notizie, creato nel 1915 con sede centrale a Bologna (per i militari di terra e di mare); l’ufficio anagrafe del Comune. Alcuni dei documenti che ho avuto modo di analizzare, in particolare quelli dell’Ufficio notizie, erano lacunosi, mancavano dei dati, ma incrociandoli sono riuscito a venire a capo di tante storie, tante vite che da Sant’Eufemia sono partite e in alcuni casi purtroppo non sono più tornate. Complessivamente le schede dell’Ufficio notizie sono sessantamila e io ne ho utilizzate circa 1.500. L’Ufficio anagrafe del comune mi è stato molto utile per lo stato civile e in particolare per il nome delle mamme di questi ragazzi: ci tenevo molto, per un senso di giustizia anche nei confronti di queste madri che hanno sofferto in silenzio e con grande dignità subendo il dolore più devastante che un essere umano possa subire”. In totale i soldati censiti dal ricercatore eufemiese sono 580, ma probabilmente i suoi compaesani che hanno combattuto la prima guerra mondiale sono di più, di molti però si è purtroppo persa traccia.
“Il libro – racconta ancora Domenico Forgione – è costituito da una prima parte di introduzione generale, dove spiego che cos’è l’ufficio notizie, quali campi di prigionia hanno “ospitato” i nostri militari, quali sono state le principali malattie veicolate da e per la guerra, racconto la vita della trincea e descrivo i soldati, uno per uno, indicando nome, altezza e altri dati che potranno sicuramente interessare. Inoltre ho inserito un’appendice che contiene qualche cartolina dal fronte, qualche foto e soprattutto i grafici con le statistiche.”. Un tuffo nel passato, dunque, quello di Forgione che aiuterà molti suoi concittadini a comprendere il loro stesso presente, anche solo ricercando, tra quei 580 nomi, un cognome familiare, un “marchio” di famiglia, una storia già sentita dai racconti dei nonni.

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Per aspera ad astra

Per aspera ad astra”: forse è nella citazione latina utilizzata come immagine di copertina della sua pagina facebook la chiave per capire il senso della maturità conseguita da Jessica Tripodi, 28 anni compiuti da poco. Mi ha molto incuriosito la storia di questa ragazza caparbia che un giorno decide di “riprendere in mano” la propria vita, ricominciando da dove dodici anni fa era rimasta interrotta. Il diploma di maturità per molti è qualcosa di scontato; per altri può invece rappresentare “un appuntamento dove non incontrerò nessuno, ma incontrerò me stessa”.

D. Quando e perché avevi interrotto gli studi?
R. Mi fermai nel 2006, all’inizio del terzo anno al liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sant’Eufemia. Probabilmente non era l’istituto superiore che desideravo, ma la ragione vera è che non riuscivo più ad avere un mio equilibrio a causa dei problemi interiori maturati nel corso dell’infanzia, tra i quali il trauma della morte di mio fratello Damiano, che hanno segnato la mia psiche e il mio modo di rapportarmi con il mondo. Mi ritrovai a combattere contro un mostro che a quell’età non si dovrebbe conoscere affatto: la depressione. Arrivai al punto di non avere più alcuna energia fisica né mentale, nemmeno per le attività quotidiane. Tutto era diventato troppo pesante, opprimente, disperato. I professori si precipitarono a casa mia implorandomi di non mollare: ero una brava studentessa, in seconda e in terza media avevo pure vinto due borse di studio intitolate al preside Lorenzo Battaglia. Ma ero troppo stanca, psicologicamente e fisicamente.

D. Come hai fatto a capire che si trattava del “male oscuro” e come ne sei uscita?
R. Un giorno decisi di chiedere aiuto. Mi recai a Scilla e incontrai il dottore Plutino, il quale dopo avere chiacchierato un po’ con me mi affidò alle cure di una dottoressa dell’ospedale, la psichiatra e psicoterapeuta Rosa Milasi. Era il 2014 e la decisione del dottore Plutino mi ha salvato la vita. Iniziai un percorso lento, graduale, non facile, con una dottoressa eccellente che è riuscita a farmi superare piano piano il mio blocco di vita. Oggi sono riuscita a riprendere in mano molte cose e, nonostante ancora rimangano alcune cose da risolvere con me stessa, sto bene.

D. Era quindi giunto il momento di “riprendere in mano” la tua vita.
R. Qualche anno dopo l’abbandono della scuola avevo tentato di fare domanda al liceo linguistico per recuperare e diplomarmi, ma non stavo ancora bene e le domande si perdevano nel vuoto. A novembre 2017 ci riprovai. Presentai la domanda come candidata esterna agli esami di stato. Alcuni mi sconsigliarono di fare tutto in una volta: dovevo recuperare terzo, quarto e quinto anno e poi sostenere l’esame di maturità. Ma io non volevo perdere altro tempo. Presentai la domanda al liceo statale “Tommaso Gullì” di Reggio, indirizzo linguistico. Il 21 maggio 2018 cominciarono gli esami preliminari.

D. Come li hai affrontati?
R. Ebbi un momento di sconforto perché, lavorando, avevo avuto poco tempo per studiare. Telefonai alla mia migliore amica e piangendo le dissi che non intendevo presentarmi perché ritenevo di non avere una preparazione adeguata. Lei si arrabbiò, sapeva bene quanto ci tenessi ed io non volevo deluderla: insomma, mi presentai. Il primo giorno ci fu la prova di italiano. Tema sul progresso. Amo scrivere, quindi andò bene. Il secondo giorno c’erano le prove di matematica e di inglese. La matematica è sempre stato per me un discorso troppo complesso. Quel giorno davvero avevo deciso di non andare e di mollare tutto. Ebbi una lite furibonda con mio padre, ma ero inamovibile. Scrissi alla dottoressa Milasi per comunicarle che non sarei andata. Mi telefonò subito e mi disse: «Jessica, io non le permetto di non permettermi di aiutarla. Lei DEVE andare. Non importa se consegnerà la prova di matematica in bianco, ma deve andare!». Arrivare in tempo fu un’odissea, perché ero in netto ritardo. Cercai di fare quello che potevo, usando anche la logica: ho imparato che non bisogna mai lasciare in bianco nulla, sul foglio come nella vita. La prova di inglese andò bene, così come – il giorno dopo – quelle con le mie materie del cuore, il francese che avevo studiato a scuola e lo spagnolo imparato da autodidatta. Presi due “otto” e la soddisfazione dei complimenti della professoressa di spagnolo, madrelingua, che mi chiese se avessi un secondo diploma: «Magari», pensai io. Il 26 maggio affrontai l’orale sul programma di tre anni: non mi comunicarono esplicitamente il risultato, ma mi lasciarono intendere di cominciare a studiare per gli esami di stato. La sera me ne andai ad Acireale, al concerto di Emma, felice e leggera. Ero stata ammessa.

D. Veniamo al grande “appuntamento”. Com’è stato?
R. Nella prima prova ho scelto il saggio breve sulla solitudine nell’arte e nella letteratura. Adoro Alda Merini, nei suoi versi rivedo le profonde sofferenze che ho patito: solo chi ha a che fare con i problemi dell’anima può comprendere il dramma del dolore interiore. Per la seconda prova, lingua inglese, ho puntato sull’analisi di un brano di letteratura, mentre nella terza ho fatto il massimo pur nella consapevolezza di non potere avere una preparazione ottimale in tutte le materie. Gli orali me li ero immaginati diversamente. Sognavo di andare là e di fare un’interrogazione perfetta, esponendo in maniera impeccabile la mia tesina sulla passione. Ma non è stato così. Ero nervosa, tesa ed emozionata. Mentre parlavo piangevo: mi sono passati davanti agli occhi tutti questi anni, le difficoltà, i miei problemi. Il professore di spagnolo si è alzato per prendermi dell’acqua, gli altri commissari e la presidente sono stati dolcissimi e comprensivi. Ho cercato di dire quello che potevo e che ricordavo, e di arrivare per logica dove non ricordavo. Ho concluso con una poesia di Francisco Luis Bernardez, poeta argentino amico di Jorge Luis Borges: “Se per recuperare quello che ho recuperato/ è stato necessario che perdessi prima quello che ho perduto,/ se per ottenere quello che ho ottenuto/ ho dovuto sopportare ciò che ho sopportato,/ se per essere adesso innamorato/ è stato necessario essere ferito,/ tengo per ben sofferto quello che ho sofferto,/ tengo per pianto bene ciò che ho pianto./ Perché dopotutto ho constatato/ che non si gode bene quel che si è ottenuto/ se non dopo che questo si è patito./ Perché dopotutto ho ben capito/ che quanto l’albero possiede di fiorito/ vive di quel che tiene seppellito”.

D. Una volta promossa, hai pensato a qualcuno in particolare?
R. Sì. Voglio dedicare questo mio traguardo alla signora Maria Rosa Carbone Falvetti, una donna meravigliosa che mi voleva tanto bene, colta nel profondo e dall’animo gentile, provata duramente dalla vita ma sempre abituata a combattere.

D. Progetti per il futuro?
R. Ora mi aspetta la facoltà di Lingue e letterature straniere!

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Francesco Antonio Colella

Il 9 luglio l’associazione culturale “Geppo Tedeschi” di Oppido Mamertina ha onorato il ricordo di Francescantonio Colella, meglio noto come Mastr’Antoni ’u poeta, singolare esponente della poesia vernacolare la cui opera merita di essere riscoperta e divulgata. La manifestazione, che si è svolta nel cimitero di Oppido, ha avuto vissuto il primo emozionante momento con la collocazione di una croce commemorativa benedetta da don Letterio Festa, subito dopo la celebrazione della Santa Messa officiata nella cappella centrale del camposanto. A seguire lo studioso Antonio Roselli ha ripercorso la parabola umana e artistica del mastro d’ascia e poeta Francescantonio Colella, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1871 e trasferitosi per motivi di lavoro ad Oppido dopo il terremoto del 1908, tragico evento nel quale perì l’adorata moglie Serafina. Qui si risposò e continuò a coltivare la passione per la poesia, componendo poemetti di carattere politico, sociale e religioso ed intraprendendo una fitta collaborazione con la rivista cittanovese “Albori”, fino alla morte sopraggiunta nel 1942.
Le sue poesie sono quasi tutte inedite, per cui è auspicabile che l’iniziativa di sensibilizzazione ai temi della cultura e della memoria locale portata avanti da Roselli e dall’associazione “Geppo Tedeschi” abbia come seguito proprio una pubblicazione che consenta la loro fruizione ad un pubblico più vasto.
La chiusura della manifestazione è stata affidata all’arte declamatoria di Ciccio Epifanio, che ha proposto una propria composizione vernacolare dedicata al poeta Colella, del quale ha successivamente recitato il poemetto inedito “O vivi, vivi, chi a lu Campusantu”.
Condivisibili le parole di Roselli sulla necessità di riscoprire “la produzione letteraria di un uomo che pur lavorando con la sua mannaia e con la sua scure nei boschi e nei campi, dal sorgere del sole al tramonto, ha amato religiosamente il suo lavoro e la poesia; una poesia edificante e in alcuni casi preveniente il futuro in modo mirabile”.

Tra i componimenti editi, di grande impatto emotivo e rilevanza per il carattere di testimonianza è “Storia del terremoto del 28 dicembre 1908 a Sant’Eufemia”, ricostruzione in versi della tragedia che distrusse anche il paese d’origine di Colella. Di seguito uno stralcio, tratto dal libro di Caterina Iero, Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1997 (pp. 95-106; ivi, p. 96):

Lu affrittu patri levau lu figghiu,
lu figghiu affrittu li so genituri,
li frati a li so frati ed eu a ddhu gigghiu
luci dill’occhi mei, sinceru amuri.
O jornu di terribili scumpigghiu,
d’affannu, di spaventu e di duluri!
O fracellu terribuli! O scuncassu
chi vitti cu chist’occhi ad ogni passu!
Li genti mi affruntavanu portandu
li morti nta li casci o ncoddhucavaleri
cu anchi, testa e vrazza, mpendulijandu.
Poi guardu a ttia, pajisi, e di com’eri
nvanu ti jiva cchiù raffigurandu!
Li casi eranu tutti cimiteri
e a ttia nfurma di grandi macellu
nta n’attimu cangiau lu gran fracellu.

*La foto è tratta dal profilo facebook di Maria Frisina

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All’Agape il premio “Don Mottola” 2018

È stato un pomeriggio emozionante, quello che con l’Agape abbiamo trascorso a Tropea. Si vive anche di soddisfazioni e il premio che la Fondazione “Don Mottola” ha voluto assegnare alla nostra associazione è per noi un grande riconoscimento e motivo di gioia. L’incontro, moderato da Vittoria Saccà, ha registrato gli interventi di Paolo Martino, presidente della Fondazione; di don Ignazio Toraldo, “fratello maggiore della famiglia oblata”; di don Sergio Meligrana, parroco di Brattirò, che ha sostituito don Enzo Gabrieli, postulatore della causa di beatificazione di don Mottola; di Sua Eccellenza monsignore Luigi Renzo, vescovo di Mileto, Nicotera e Tropea.
Questo premio per la nostra associazione vale tantissimo. Il Venerabile don Francesco Mottola è stato giustamente definito “una perla del clero calabrese”, per la sua attività finalizzate all’accoglienza e all’assistenza dei disabili: “Io sono una povera lampada che arde in cerca dei cieli”, diceva di se stesso. Ma quanta luce ha emanato questa povera lampada? Quanto amore ha dispensato? Don Mottola è stato un apostolo dell’impegno in favore degli ultimi e ha lasciato una traccia profonda, insegnamenti che oggi camminano sulle gambe di chi ne ha raccolto l’eredità. Vedere il nome della nostra associazione accostata ad una figura così luminosa della Chiesa, è stata un’emozione forte.
Ha ritirato il premio la nostra presidente, Iole Luppino, che per una curiosa coincidenza ha la mia stessa età dell’Agape, fondata nell’ormai lontano 1991. E se guardiamo dentro questo lungo periodo, non possiamo non vedere che questa “lunga storia d’amore” si è nutrita dell’impegno di tanti volontari, di tanti ragazzi e ragazzi, giovani e meno giovani che hanno portato avanti un messaggio di solidarietà e di amore per i più deboli nella comunità eufemiese.
Proprio per questa ragione il premio “Don Mottola” va diviso con tutti i soci che nei suoi 27 anni di vita hanno fatto parte dell’associazione; con i due precedenti presidenti (Luigi Surace e Pasquale Condello); con don Benito Rugolino, alla cui azione religiosa e spirituale si deve la costituzione dell’associazione; con i volontari che purtroppo non sono più tra di noi fisicamente, ma che di certo lo sono nello spirito per l’esempio di vita e di amore per il prossimo che ci hanno regalato.
L’Agape ha dato a molti di noi l’opportunità di impegnarsi nel sociale, coltivare rapporti di amicizia e condividere percorsi di vita, ma soprattutto ci ha regalato e continua a regalarci tante piccole gioie che riempiono la nostra vita di valori autentici. Siamo nati come “costola” del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria, fondato nel 1968 da don Italo Calabrò, un’altra figura luminosa della chiesa calabrese, portatore di un messaggio di fratellanza universale: «Amatevi tra di voi di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada. Nessuno escluso, mai!». È quello che cerchiamo di fare nel nostro piccolo e con le nostre piccole forze. Il riconoscimento di oggi ci conforta sulla bontà di quanto è stato finora realizzato e rappresenta uno stimolo a fare ancora meglio.

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Don Tito

Morire di dolore per la perdita di un fratello. Restiamo nudi, come se fossimo spogliati degli orpelli di questa misteriosa cavalcata che è la vita. Noi piccolissimi esseri umani e la grandezza tragica dell’amore, il sentimento che può renderci migliori se solo ci abbandonassimo ad esso senza sovrastrutture, se gli dessimo la mano e aggrappati alla sua ci lasciassimo guidare come fanno i bambini.
Forse proprio a quand’erano bambini ha pensato “don Tito” quel giorno, poco meno di un mese fa, davanti alla salma di suo fratello Sarino. E dovette succedere tutto in un attimo: i giorni spensierati dell’infanzia, lui fratello maggiore che gioca con il piccolo di casa, lo tiene sulle ginocchia, lo protegge, lo vede crescere. “Il più dolce dell’amore è l’amore che unisce due fratelli”, ci ricorda Menandro. Poi i ricordi si ingorgano, l’interruttore si spegne: emorragia cerebrale.
Era morto quel giorno Nunziato Fedele, era morto da uomo dal cuore d’oro qual è sempre stato. Una fine che mette tristezza, ma che induce a rallentare, a riflettere: in fondo a sperarci più umani.
Il medico curante Nunziato Fedele per tutti è sempre stato “don Tito”, una forma di riverenza che spiega il riconoscimento dell’importanza del ruolo esercitato in una piccola comunità. Un’epoca non troppo lontana, anche se sembra passato un secolo perché il mondo cambia ad una velocità incontrollabile, impazzito dentro al frullatore di una modernità che ci vuole asettici. Ed è cambiato anche il profilo del medico “di paese”, raro quel rapporto di fiducia basato sulla capacità di ascolto e di compenetrazione anche con le questioni non strettamente cliniche dei propri assistiti.
Don Tito apparteneva a quella antica scuola. Il suo sorriso infondeva serenità, trasmetteva la sensazione di un uomo buono che aveva il dono della compassione nel senso etimologico di partecipazione alle sofferenze altrui. Colto, elegante, distinto nei modi: inconfondibile. D’altri tempi, si dice in questi casi, e non è retorica.
Un uomo che non ha mai dismesso i panni del medico di famiglia e che anche dopo il pensionamento ed il trasferimento a Bari, ogni volta che ritornava in paese si fermava a parlare con tutti, con la consueta premura. Per aggiornarsi sui progressi dei bambini che aveva lasciato, diventati ora adulti; per chiedere degli anziani che ancora continuavano a telefonargli per un consiglio o soltanto per sentire la voce del loro vecchio medico curante.
Non ci si pensiona mai dalle proprie passioni. E la medicina, il rapporto umano con i pazienti sono stati per don Tito una passione coltivata fino all’ultimo dei suoi giorni. Fino alla manifestazione di un amore per il fratello talmente grande da morirne.

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Sant'Eufemia oggi

Magari è soltanto una mia impressione, una percezione temporanea destinata a svanire con le nuvole dei pensieri tristi. Forse è proprio così, vorrei che fosse così. Una visione amara dovuta ai cicli naturali della vita, che portano via figure di riferimento per un’intera comunità mentre l’orizzonte appare confuso: tempo di mezzo, tra un’epoca che sta per finire e un’altra che stenta ad iniziare.
Mi chiedo come sarà domani, se ci saranno giovani pronti a raccogliere il testimone e a proseguire il cammino dei tanti che ci hanno preceduto. Avverto una malinconica sensazione di riflusso, di ripiegamento su se stessi. Come se la visione d’insieme non conti nella formazione e nell’esaltazione dell’anima di un paese. Come se trama e ordito non abbiano bisogno di tenersi stretti per dare vita a un tessuto. Quel tessuto sociale oggi sempre più sfilacciato, debole.
Non si fa un buon servizio se si dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non si è onesti con gli altri, né con se stessi. Sant’Eufemia si sta impoverendo, nonostante la caparbia di quanti si oppongono a un declino che è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta di politica, no. Quello semmai è l’effetto, non la causa. Le ragioni sono più profonde, strutturali: è un declino figlio della congiuntura storica contemporanea, della crisi economica ed etica che scava la roccia, giorno dopo giorno.
Un paese impoverito dai troppi salassi dell’emigrazione, chiuso anche fisicamente: che non prende aria, che non respira, che non vola. Negli ultimi anni sono scomparse associazioni storiche: l’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, anni fa; la Pro Loco, più di recente. Neanche la squadra di calcio esiste più. C’è l’isola felice del “Terzo Millennio”, ma è un’eccezione: una vitale eccezione. Il resto è fatica e caparbia di chi non vuole arrendersi, encomiabili e da incoraggiare. Ma il pluralismo associazionistico è ricchezza e carburante prezioso per la crescita culturale e sociale di una comunità, anche quando mostra la faccia della sana competizione.
Il liceo scientifico ad ogni inizio di anno scolastico fatica a comporre la prima classe: e fortuna che ancora ci soccorrono i paesi vicini. I nostri figli sono per lo più fuori. Le strade e le piazze deserte sono una pugnalata al cuore, il certificato di morte che accomuna i piccoli centri interni dell’Aspromonte.
Non ho la soluzione in tasca: osservo, considero. Nel mio piccolo cerco di fare il mio “pezzettino”, come altri, perché aveva ragione Robert Kennedy: «Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione».
Credo che si dovrebbe cercare di amare un po’ di più il proprio paese (tutti: chi ci vive, chi ci torna ogni tanto, chi guarda da lontano). Chissà che non sia questo l’antidoto giusto.

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Il professore Marafioti, un maestro e un uomo perbene

“I maestri di una volta”, si dice per sottolineare non soltanto il livello di preparazione ma anche un certo modo di intendere la professione: qualcosa che ha molto a che fare con la “missione” di educatore e con il ruolo di punto di riferimento per il microcosmo di una scuola di “frontiera” quale potevano essere trenta o quaranta e passa anni fa le classi elementari “del Purgatorio”, al Paese Vecchio. In quella scuola per moltissimi anni hanno insegnato il professore Francesco Marafioti e tanti altri maestri e maestre del paese, attenti alla didattica e alla crescita umana dei propri alunni.
Una concezione romantica dell’insegnamento che trovava attuazione in un approccio pacato e serio. Mai sopra le righe, il professore. Discreto, umile, di un’educazione fuori dal comune, tutte doti umane che poggiavano sulla base solidissima di uno spessore culturale altrettanto elevato. Un professore che ha sempre continuato a studiare, nel silenzio del suo studio.
A me piace ricordare che ogni tanto la sua vasta cultura trovava sbocco in un articolo per la rivista “Incontri” dell’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, come in quel pezzo bellissimo dedicato al maggiore Luigi Cutrì, eroe della prima guerra mondiale ai più sconosciuto nonostante l’intitolazione della strada più ampia di Sant’Eufemia (la “quindici metri”): era il 1988.
Una missione portata avanti insieme alla moglie Anna Violi: quanti bambini e adolescenti hanno frequentato la loro casa, di pomeriggio, quando entrambi tenevano lezioni private per gli studenti delle scuole elementari, medie e superiori? Lei, professoressa di matematica alle scuole medie, le materie scientifiche; lui, le materie letterarie e classiche.
Quanti hanno potuto apprezzare la gentilezza e l’affetto (che si manifestavano anche con un gelato, merendine, cioccolatini e caramelle) di questa coppia di insegnanti dallo stile di vita rigoroso e schivo, che oggi andrebbe incoraggiato e indicato a modello?
Nel dicembre scorso fa l’associazione “Insieme per crescere” organizzò una bella manifestazione per omaggiare la figura del maestro nella nostra comunità. Il professore Marafioti avrebbe dovuto ritirare il premio alla memoria dedicato alla moglie, ma purtroppo le sue già compromesse condizioni di salute non gli consentirono di essere presente. Si trattava di un riconoscimento da dividere in due, perché è impossibile distinguere l’uno dall’altra: un ringraziamento per tutto quello che avevano fatto e per ciò che hanno rappresentato nella formazione di molte generazioni di eufemiesi.
Nel suo ultimo viaggio i figli hanno voluto che portasse con sé il libro di pedagogia letto e riletto un’infinità di volte: vademecum e sigillo della vita di un maestro e di un uomo perbene.

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I motivi del No alla cittadinanza onoraria per Barbara D’Urso



Tra i punti dell’ordine del giorno del consiglio comunale di oggi c’era il conferimento della cittadinanza onoraria di Sant’Eufemia d’Aspromonte a Barbara D’Urso. Come gruppo consiliare “Per il Bene Comune” abbiamo espresso voto contrario. Di seguito, la nostra dichiarazione di voto:

Non riconosciamo alla signora Maria Carmela alias Barbara D’Urso meriti particolari, tali da giustificare il conferimento della cittadinanza onoraria di Sant’Eufemia d’Aspromonte: a meno che non sia sufficiente avere origini eufemiesi e soprattutto (azzardiamo, ma non tanto) essere personaggio celebre. Requisiti che indubbiamente sono in possesso della nota conduttrice televisiva.
Ma di che genere di televisione stiamo parlando?
La tv della lacrimuccia elemento essenziale di un abusato copione. La tv dello sciacallaggio e della cinica spettacolarizzazione del dolore, offerto sull’altare del dio auditel. La tv del gossip, che per mesi e mesi segue le vicende di coppie che scoppiano, si ricompongono e poi scoppiano ancora, ovviamente a favore di telecamera. La tv dei vip in lotta per un’eredità o in contatto con l’aldilà. La tv dei “morti di fama” che si sottopongono a decine e decine di interventi chirurgici per somigliare a una bambola. La tv del kleenex e dei guardoni, che fa l’occhiolino alla pancia e al voyeurismo di certo pubblico. Di questa televisione stiamo parlando. Ma se anche si volesse sorvolare su considerazioni opinabili, che attengono ai gusti e alle inclinazioni personali di ciascuno di noi, la signora D’Urso ha mai contribuito in qualche modo alla crescita del nostro territorio? Si basa forse su questo assunto un riconoscimento di così grande valore? Non ci risulta.
Il conferimento della cittadinanza onoraria a Barbara D’Urso è soltanto una bassa operazione di marketing, forse utile per intascare una comparsata in televisione.
Siamo perfettamente consapevoli che questi sono i tristi tempi che viviamo. La religione del nostro tempo ha elevato la frivolezza a valore e l’apparire ad essenza della stessa azione politica.
Non vogliamo arrenderci a questo declino. Siamo convinti che la politica debba volare alto, concentrarsi sulle risposte da dare ai problemi dei cittadini, che sono molti e gravi, non scadere nell’utilizzo di imbarazzanti armi di distrazione di massa finalizzate all’effimero godimento di un quarto d’ora di celebrità.
Per tutte queste ragioni, esprimiamo voto contrario.

DOMENICO FORGIONE – Capogruppo
PASQUALE NAPOLI – Consigliere

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Il primo consiglio comunale di Sant’Eufemia dopo l’Unità d’Italia

Gli storici hanno definito “Italia dei notabili” o “Stato monoclasse” il Regno d’Italia proclamato il 17 marzo 1861. Nello stato unitario il voto è appannaggio esclusivo di coloro che sono considerati i “migliori” per capacità professionale e patrimonio personale: in linea di massima, l’aristocrazia e la borghesia terriera. Tale diritto appartiene all’1,9% della popolazione e si fonda sui criteri del sesso, del censo e della capacità: possono votare i maschi venticinquenni (per essere eletti ne occorrono invece trenta) che pagano 40 lire di imposte dirette e che sono in grado di leggere e scrivere. In assenza del requisito del censo, il voto viene tuttavia concesso a diverse categorie professionali: laureati, professori, funzionari, magistrati, farmacisti, notai, ragionieri, geometri, veterinari, ecc.
Su 5852 abitanti (censimento del 1861), nel 1863 a Sant’Eufemia d’Aspromonte gli aventi diritto al voto politico sono 69. Leggermente meglio vanno le cose per il diritto di voto amministrativo. In questo caso il corpo elettorale è composto dai cittadini che, al compimento del ventunesimo anno di età, godono dei diritti civili e sono contribuenti comunali per una cifra che varia in base alla dimensione del comune: 10 lire a Sant’Eufemia, comune compreso tra 3.000 e 10.000 abitanti. Nel 1868, primo anno del quale sono disponibili i dati, gli aventi diritto sono 187 (115 i votanti).
Il consiglio comunale, composto da venti membri, dura in carica cinque anni e viene annualmente rinnovato per un quinto. Si procede alla sua elezione con “lista maggioritaria”: in pratica non vi sono liste contrapposte, ma è l’elettore a comporre una lista di nomi pari al numero di consiglieri da eleggere. La giunta municipale (quattro componenti titolari e due supplenti) viene invece rinnovata ogni anno al 50%. Il sindaco, nominato dal re su proposta del ministro dell’Interno, dura in carica tre anni ed è rieleggibile al termine del mandato: di fatto, viene scelto dal prefetto fra i consiglieri comunali eletti.
Con regio decreto del 30 luglio 1861, il proprietario Antonino Occhiuto (fu Nicola) diventa il primo sindaco di Sant’Eufemia dopo l’Unità, entrando così di diritto nella storia amministrativa del comune insieme ai consiglieri comunali eletti: Agostino Chirico, Antonino Condina (proprietario), Luigi Condina (proprietario), Giovanni Cutrì (farmacista), Michele Fimmanò (avvocato), Gaetano Gioffré (farmacista), Giuseppe Gioffré (proprietario), Domenicantonio Ietto (avvocato), Raffaele Monterosso (macellaio), Antonino Occhiuto di Luigi (proprietario), Luigi Oliverio (geometra), Giuseppe Papalia, Vincenzo Papalia (ramaio), Francesco Pentimalli (avvocato), Antonio Pietropaolo (negoziante), Annibale Rechichi (sacerdote), Giuseppe Versace (farmacista), Vincenzo Visalli (proprietario), Giacinto Zangari (proprietario).

*FONTI:
ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 136 (“Sindaci, amministrazione comunale, elezioni amministrative. 1861-1875”), f. 6381
ASRC, Fondo Prefettura, inventario 17, busta 247 (“Sant’Eufemia d’Aspromonte”), f. 6

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Una strada groviera / 2

Le condizioni della strada che porta all’ex svincolo autostradale sono ulteriormente peggiorate. Nell’attesa dei lavori annunciati di prossima realizzazione e dell’intervento strutturale di 7,1 milioni di euro del quale ancora si attende la progettazione, come gruppo consiliare “Per il Bene Comune” continueremo a segnalare il disagio sofferto quotidianamente dalla popolazione del nostro territorio. Di seguito la nota per la stampa.

Purtroppo siamo stati facili profeti nel prevedere, due settimane orsono, che alla nostra denuncia sullo stato disastroso della Strada Provinciale 2 che collega Sant’Eufemia all’ex svincolo autostradale sarebbe seguito un intervento di riparazione alla meno peggio delle buche più pericolose, ma assolutamente insufficiente. E così è stato. Morale della favola: siamo di nuovo al punto di partenza, se non in una situazione addirittura più grave. La pioggia insistente di questo periodo ha provveduto ad aprire altri crateri, il resto lo sta facendo la nebbia persistente degli ultimi giorni che, aiutata dall’impercettibilità delle strisce stradali (laddove ci sono), sta creando disagi inaccettabili alle centinaia di automobilisti che quotidianamente hanno necessità di uscire da Sant’Eufemia, Sinopoli e dall’intero comprensorio per lavoro o per qualsiasi altra incombenza e che si ritrovano con qualche ruota scoppiata.
Ci appelliamo ad Anas e alla Città Metropolitana affinché battano un colpo e diano a queste popolazioni dimenticate da Dio e dagli uomini un segnale di vita. Chiediamo al Sindaco metropolitano Giuseppe Falcomatà e al consigliere delegato alla viabilità Demetrio Marino di fare una passeggiata da queste parti per verificare personalmente lo stato pietoso di un’arteria stradale così importante e per valutare essi stessi se è dignitoso, per la stessa Città Metropolitana, che una vasta e importante porzione del suo territorio subisca uno stato di abbandono così mortificante.

*I consiglieri comunali “Per il Bene Comune”
Domenico Forgione
Pasquale Napoli

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