16 settembre

Siamo le vite recise dai terremoti, le abitazioni distrutte e ogni volta ricostruite senza un lamento.
Siamo i soldati caduti per servire una patria a volte matrigna, i morti sul lavoro nelle campagne e nei cantieri, sotto casa o in terre lontanissime.
Siamo figli di donne che hanno cucinato cardi e “cosch’i i vecchia”, di mamme capaci di fare un miracolo con un pugno di fagioli.
Siamo figli di uomini dalle schiene curve, di contadini a piedi o a dorso di mulo sui sentieri dell’Aspromonte, di carbonai dai volti anneriti, di pastori transumanti tra la montagna e i paesi caldi della piana di Gioia Tauro.
Siamo la caparbia di genitori che non ci hanno fatto vivere gli stenti delle baracche senza luce, né acqua.
Siamo figli di giovani dalla valigia di cartone legata stretta con lo spago, accalcati nelle terze classi dei treni diretti a Nord o delle navi d’Oltreoceano: disposti a qualsiasi lavoro per un piatto di dignità. Dalla nostra terra partono oggi altri ragazzi: laureati, professionisti, manodopera qualificata, lavoratori che nel proprio campo sono eccellenze. Oggi come allora percorriamo le strade del mondo con la consapevolezza di essere noi i fabbri del nostro destino.
Siamo bellezza tramandata, da custodire e da indicare ai più giovani affinché ne abbiano cura: i libri di storia di Vittorio Visalli, i versi di Domenico Cutrì, i racconti di Nino Zucco, le opere d’arte dei Tripodi, la solitudine dolorosa di Mimì Occhilaudi.
Siamo storia che non passa, anche se tutto è cambiato.
Ma siamo soprattutto la storia del fuoco attraversato dalla nostra Protettrice, un passaggio di salvezza dal valore universale, che ci riguarda singolarmente e come comunità portatrice di un patrimonio identitario unico.

Auguri a chi porta il nome Eufemia e a tutti noi eufemiesi.
VIVA SANT’EUFEMIA!

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Una famiglia eufemiese a Praga dopo la prima guerra mondiale: i Pietropaolo

Tra le storie dei soldati di Sant’Eufemia nella prima guerra mondiale mi ha colpito quella di Vincenzo Pietropaolo, della quale, per quelle strane coincidenze alle quali è difficile dare risposte razionali, dopo la pubblicazione del libro ho appreso ulteriori informazioni. La testimonianza del figlio Rostislav (classe 1929), proprio quest’estate in vacanza a Tropea, è stata raccolta da Carmelita Tripodi, la quale mi ha poi riferito di questo incontro e dell’orgoglio di Rostislav nello scoprire che era appena stato pubblicato un libro nel quale si parlava anche di suo padre. Ma andiamo con ordine.
Vincenzo Pietropaolo nasce a Sant’Eufemia il 12 febbraio 1895 da Giuseppe e Teresa Albanese. I dati riportati sul foglio matricolare fanno immaginare un uomo abbastanza alto per quei tempi (162 centimetri e mezzo), con i capelli neri e lisci, gli occhi celesti, il colorito roseo e una cicatrice alla guancia sinistra. Calzolaio, sarà proprio la sua professione a salvarlo. Sì, perché le scarne notizie a disposizione ci dicono che, mentre con la 5ª compagnia del 158° reggimento (Brigata Liguria) si trova dalle parti di Luico, a nord di Caporetto, finisce nelle mani del nemico. Per i suoi superiori è però un traditore: denunciato al tribunale militare di guerra del IV corpo d’armata, “perché incorso nel reato di diserzione essendo passato al nemico il giorno 12 marzo 1916”, quattro mesi dopo viene condannato a morte in contumacia, mediante “fucilazione nella schiena previa degradazione per diserzione con passaggio al nemico”. La sentenza non verrà mai eseguita, in virtù dell’amnistia intervenuta dopo la fine della guerra, ma a conflitto in corso l’atteggiamento del comando supremo nei confronti dei soldati caduti prigionieri è molto severo. Considerati vigliacchi e traditori (“imboscati d’Oltralpe”, secondo la celebre definizione di D’Annunzio), vengono abbandonati a se stessi. A differenza dei governi francesi e inglese, quello di Roma non fa arrivare ai propri soldati pacchi con generi di prima necessità: dall’Italia partono soltanto aiuti privati o spediti da associazioni di carità, che spesso però non giungono a destinazione a causa delle enormi difficoltà di consegna. La situazione si aggrava dopo il blocco navale imposto a Germania ed Austria, poiché, con i civili che muoiono letteralmente di fame, le già misere razioni di cibo distribuito ai prigionieri (1.000 calorie giornaliere) subiscono una drastica riduzione. Centomila prigionieri italiani muoiono di freddo, per malattie infettive scatenate dalle spaventose condizioni igienico-sanitarie delle baracche o per “esaurimento organico”. Sei sono di Sant’Eufemia.
Il racconto di Rostislav aggiunge particolari a quanto riportato dai documenti ufficiali e rivela il motivo per cui suo padre riesce a sopravvivere dopo l’imprigionamento nel campo di Mauthausen. Nella località che diventerà tristemente nota nel secondo conflitto mondiale Pietropaolo rimane infatti internato per poco tempo, poiché i sarti e i calzolai vengono quasi subito trasferiti a Brno, in una fabbrica che si occupa della riparazione delle divise militari. Il rancio rimane scarso, ma alcuni colleghi di lavoro autoctoni forniscono di nascosto generi alimentari extra; inoltre, i prigionieri-operai si arrangiano sottraendo dal deposito stivali che di notte scambiano con i contadini del posto, in cambio di qualcosa da mangiare.
Per questioni burocratiche Pietropaolo non viene raggiunto subito dalla moglie Nicoletta Gioffrè (classe 1891, figlia di Generoso e Grazia Maria Tripodi), “ricamatrice” che aveva sposato a Sant’Eufemia l’11 ottobre 1913 e dalla quale aveva avuto una figlia, Teresa (classe 1914). Il ricongiungimento avviene un paio d’anni dopo la fine della guerra e in Cecoslovacchia Nicoletta dà alla luce altri due figli: Josef (classe 1923), futuro ufficiale dell’esercito, dal quale verrà espulso dopo la “Primavera di Praga”; e, appunto, Rostislav, il cui nome – suggerito dal parroco e dalla madrina di battesimo – è un omaggio (nonostante il refuso) al duca e poi re di Boemia Vratislav II, che nell’XI secolo aveva introdotto il culto dei santi Pietro e Paolo e fatto costruire a Praga l’omonima Basilica. Vincenzo si dedica con successo alla sua professione di calzolaio e avvia un laboratorio artigianale nel quale trova impiego un buon numero di operai: lo stesso Rostislav vi lavora a lungo, prima di decidere – in età matura, di completare gli studi per potersi iscrivere all’università. Anche lui ha qualche problema con le autorità governative nel corso del Sessantotto cecoslovacco: tuttavia, dopo il conseguimento del dottorato, lavora come ricercatore presso l’Accademia delle Scienze di Praga e fonda l’associazione “Amici dell’Italia”, con sedi sparse su tutto il territorio cecoslovacco e circa 6.000 iscritti. L’associazione organizza corsi di lingua italiana e promuove lo scambio di studenti tra Italia e Cecoslovacchia, in strettissima collaborazione con l’ambasciata italiana a Praga. Per questo suo impegno, con decreto del 30 luglio 2003 Rostislav Pietropaolo viene nominato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi “Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà italiana” (oggi: “Ordine della Stella d’Italia”), onorificenza che viene conferita agli italiani all’estero o agli stranieri “che abbiano specialmente contribuito alla ricostruzione dell’Italia”.

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Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra sulla Gazzetta del Sud

Forgione riscopre la Grande Guerra
Presentato il libro del ricercatore di storia eufemiese

Articolo di Pino Fedele 
Gazzetta del Sud 26 agosto 2018

È stato presentato nei giorni scorsi l’ultimo libro del ricercatore e storico Domenico Forgione Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, frutto di quattro anni di ricerche condotte sul fondo documentario dei ruoli militari del Distretto di Reggio Calabria (conservato all’Archivio di Stato) e sull’Archivio del Comune di Sant’Eufemia.
Introdotti dalla giornalista Monia Sangermano, che ha moderato i lavori, si sono susseguiti – dopo i saluti istituzionali porti dall’assessore comunale alla Cultura, Teresa Borrello – gli interventi della direttrice dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, Fortunata Minasi, dell’editore de “Il Rifugio” Antonio Aprile, del giornalista Agostino Pantano ed a conclusione quello dell’autore “Dominic” Forgione.
Il dibattito ha visto la patecipazione non programmata degli scrittori Aldo Coloprisco e Giuseppe Pentimalli e del pittore e scrittore Domenico Antonio Tripodi, più noto come “L’Aspromontano”, che hanno lodato il lavoro di Forgione per l’accuratezza delle ricerche e per l’intento di ricostruire il ruolo del paese nella Grande Guerra.
In tutti gli interventi è stato evidenziato che Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra è destinato a costituire un esempio di sguardo sul passato ed al tempo stesso una finestra sul futuro di Sant’Eufemia in quanto l’autore – è stato affermato durante la presentazione – non ha semplicemente scritto un libro di storia, ma ha costruito una storia visiva.

*La didascalia della foto non è corretta. Da sinistra verso destra: Aprile, Sangermano, Forgione.

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La presentazione del libro come l’ho vista e sentita

Cosa mi rimane della presentazione del libro? Se riavvolgo il nastro e riparto dalla fine, dalla composizione floreale che il giorno dopo ho portato al monumento dei caduti, la prima cosa che penso è che non l’avevo preparata. Non ci avevo pensato prima, ma a ben vedere è stata la cosa più naturale dopo un pomeriggio dedicato alla memoria dei soldati di Sant’Eufemia.
Tutto l’evento si è svolto con una linearità sorprendente, come se un regista ne avesse scritto la sceneggiatura. Ogni cosa al suo posto, ogni parola misurata, incastonata nel quadro di un pomeriggio per me indimenticabile. Eppure gli interventi non erano stati “studiati”. Nessuno di noi sapeva cosa avrebbero detto gli altri, al massimo ne intuiva il tema per grandi linee, in base al profilo dei relatori. Io stesso avevo un foglio con degli appunti da sviluppare, ma credo di averlo fatto soltanto per metà: alla fine, mi mancavano ancora parecchie cose da dire. Un pomeriggio volato via leggero, tra tantissime persone rimaste fino all’ultimo. Attente, coinvolte, emozionate.
Mi interessava legare la piccola storia a quella grande, come con la lettura della poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”, un luogo che per gli studenti è il simbolo delle atrocità della guerra. Ma anche il luogo dove, nella stessa giornata (29 giugno 1916), morirono sei soldati di Sant’Eufemia, asfissiati dal fosgene e dal cloro dell’attacco chimico degli austroungarici. Corre una grandissima differenza tra “un” e “il”.
Ripenso alle notti trascorse al computer, spesso “ai computer” perché a lungo ho avuto bisogno di lavorare su due monitor. Sono soddisfatto perché ritengo di avere anche compiuto un atto di giustizia: tirando fuori dall’oblio due vittime della guerra i cui nomi non sono presenti nell’albo dei caduti, né tantomeno sono incisi sul monumento dei caduti (Giuseppe Ierico, Giuseppe Sofo); oppure “consegnando” alle rispettive famiglie le cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, scritte cento anni fa e mai giunte ai propri cari.
È stato toccante leggere l’emozione nei volti degli adulti intervenuti alla fine della presentazione per condividere con il pubblico i propri ricordi familiari. E mi ha riempito il cuore di speranza constatare l’attenzione dei giovani per quelle storie lontane che tanto hanno ancora da raccontare e da insegnare. C’è bisogno di sentirsi comunità e di poterlo rivendicare; di farlo pizzicando le corde giuste, sforzandosi di elevarsi dalla gretta quotidianità. Non esiste altra strada, se vogliamo sopravvivere a questi tempi così tristi.
Ripenso agli incoraggiamenti e all’attesa suscitati dagli “aggiornamenti” che ogni tanto pubblicavo sul mio profilo facebook: mi sono stati di grande aiuto. Non perché temessi di non farcela. La ricerca è stata lunga ma non pesante: niente è pesante quando si fa ciò che si ama. Ma è stato importante avvertire l’interesse di tante persone nei confronti del lavoro che stavo portando avanti.
I tanti messaggi ricevuti dopo la presentazione mi lusingano come uomo e come cittadino del mio paese, ancor prima che come studioso.
Tutto si tiene. Bisogna riuscire ad assecondare la propria indole, a coltivare le proprie passioni: scrivere, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, praticare sport o qualsiasi altra attività. Se si fa del bene a se stessi, ci sono buone probabilità di fare del bene anche alla comunità nella quale si vive.

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Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – L’intervista al blog “Pont’i carta”

Ringrazio Pont’iCarta per questa intervista nella quale racconto il “dietro le quinte” di “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra”. Colgo anche l’occasione per rinnovare a tutti l’invito per la presentazione del libro, mercoledì 22, alle ore 17.30. Se il meteo ce lo consentirà ci vedremo alla pineta comunale, altrimenti presso la sala consiliare del comune. Vi aspetto!

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Domenico Forgione per parlare della sua ultima fatica letteraria. Si tratta di una ricostruzione dettagliata e ricca di particolari dei protagonisti eufemiesi nella Grande Guerra. Un lavoro di ricerca storica enorme, frutto di un metodo certosino e che ha bisogno veramente di tanta pazienza e passione. “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra” è il titolo del libro, il che già è un promemoria sul contenuto del testo. Noi, con la nostra intervista abbiamo cercato di capirne di più, perché tra quelle trincee cento anni fa, siamo certi, tutti noi abbiamo lasciato un piccola parte della nostra storia. Buona intervista!

Come hai maturato l’idea del libro? 
Da molti anni mi dedico alla ricostruzione della memoria del nostro paese e delle storie dei suoi protagonisti più o meno illustri, devo ammettere con una leggera preferenza per coloro che per diversi motivi in vita non hanno avuto notorietà: penso che scrivere sia impegno civile e opera di giustizia, di riconoscimento del valore di ogni piccola vicenda umana. Ogni vita, anche quella apparentemente più insignificante contiene una lezione nascosta dalla quale tutti possiamo imparare qualcosa, per questo merita di essere raccontata. Avevo già “sfiorato” il tema della Grande Guerra nel libro sulla toponomastica di Sant’Eufemia d’Aspromonte e già allora mi ero riproposto di scriverne, prima o poi. La molla è però scattata grazie ad un convegno tenuto presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria in occasione dell’apertura degli eventi per la celebrazione del centenario della fine della guerra. In quella circostanza pensai che era giunto il momento di impegnarmi in questa ricerca.

Scrivere un libro di questo tipo è molto complicato, soprattutto dal punto di vista delle fonti e dei confronti storici tra periodi diversi della Grande Guerra. Ci spieghi come hai utilizzato le fonti e il materiale storico a tua disposizione?
La prima guerra mondiale, per quanto sia un argomento al quale studiosi e memorialisti hanno sempre prestato molta attenzione, rimane un periodo storico nel quale a predominare è l’avverbio “circa”: per l’Italia, circa 650.000 caduti, un milione circa di feriti e 600.000 circa tra prigionieri e dispersi. Le sue cifre sono difficili da calcolare con esattezza, perché i dati a disposizione sono incompleti e a volte incongruenti. Ho intrecciato informazioni provenienti da più fonti per cercare di avvicinarmi quanto più possibile al dato reale: alla fine sono riuscito a ricostruire, più o meno approfonditamente, le vicende che interessarono 580 giovani di Sant’Eufemia. Dovrebbero mancare all’appello circa venti-trenta soldati (ecco che torna l’avverbio “circa”), per i quali o non è rimasta traccia, o queste tracce erano troppo flebili. La documentazione che ho utilizzato proviene dal fondo dell’Ufficio notizie dei militari della provincia di Reggio Calabria e da quello dei ruoli matricolari dei soldati, entrambi custoditi presso l’Archivio di Reggio Calabria, che ho esaminato per intero alla ricerca dei soldati di Sant’Eufemia. All’Ufficio anagrafe di Sant’Eufemia ho consultato i registri delle nascite, per le opportune verifiche su date di nascita, casi di omonimia e per individuare anche i nomi dei genitori di ogni militare, non sempre presenti nei documenti a disposizione. Ho inoltre spulciato gli atti di morte, utili per riportare in maniera precisa la data, le cause, il luogo del decesso e di sepoltura dei caduti. Per completare i medaglioni biografici ho infine incrociato i dati raccolti con quelli del sistema sanitario e con i riassunti storici dei corpi e dei comandi: questa operazione mi ha consentito di stabilire i luoghi esatti e i periodi di permanenza di ogni soldato sui fronti di guerra, i ricoveri e le convalescenze per ferite o malattie. I cinque grafici pubblicati nell’appendice del libro illustrano in sintesi le cifre della partecipazione eufemiese alla prima guerra mondiale.

I ragazzi di allora fecero l’Italia senza saperlo?
Certamente la Prima guerra mondiale rappresenta il primo passo del processo di nazionalizzazione delle masse che caratterizza, non solo in Italia, la prima metà del Novecento. Quei ragazzi “fecero” l’Italia nel freddo, nella fame e nella sporcizia delle trincee: lì matura il seme di un sentimento nazionale, tra soldati che spesso fanno fatica a comunicare tra di loro perché ognuno parla il dialetto del proprio luogo di origine. Da questo punto di vista la Grande Guerra chiude il processo risorgimentale: difatti, sulla medaglia commemorativa istituita nel 1920 si legge “Guerra per l’Unità d’Italia 1915-1918”. È altrettanto vero che soldati per lo più analfabeti non potevano avere una sviluppata coscienza politica, né erano al corrente di quello che stava succedendo in tutta Europa. Il loro mondo era molto più ristretto: una delle maggiori preoccupazioni, ad esempio, era riuscire a farsi concedere una licenza nei periodi in cui c’era più bisogno di braccia nei campi, per la semina o per il raccolto.

A 100 anni dalla Grande Guerra, la memoria storica gioca un ruolo nella vita culturale nostrana?
La memoria storica è una pianta che va innaffiata di continuo affinché non appassisca. Dalle reazioni agli articoli di storia scritti per il mio blog deduco che i lettori desiderano conoscere il proprio passato, sentirsi parte di una storia comune, ricercare i tratti di un’identità collettiva. In generale però mi sembra che oggi ci si scontri con due ordini di problemi. Il primo è dato dalla scarsa attenzione che purtroppo a tutti i livelli si registra nella destinazione di fondi per la cultura. Fare ricerca comporta un dispendio di risorse al quale in genere non corrisponde alcuna gratificazione economica. Per tale ragione la ricerca rimane sostanzialmente confinata in ambiti ristretti: chi vive fuori dai circuiti accademici può fare leva esclusivamente sulle proprie forze. Il secondo problema ha a che fare con le conseguenze della odierna e diffusa tendenza “de-specialistica”: con lo sforzo di un clic oggi tutti riteniamo di essere medici, avvocati e, di conseguenza, anche storici. Ma la ricerca storica richiede senso di responsabilità, rigore nello studio e nella metodologia, approccio scientifico.

Gli ultimi due versi del Piave dicono “la Pace non trovò né oppressi né stranieri”: oggi si parla molto di stranieri e poco di oppressi, siamo davvero in pace? 
Come nella Bisanzio di Guccini, viviamo sospesi tra due mondi e tra due ere. Ci stiamo lasciando alle spalle l’epoca del Novecento, ma ancora non si è capito bene cosa ci riserverà il XXI secolo. Da qui il senso di spaesamento e di disagio che proviamo in questo tempo di mezzo, irto di contraddizioni e di problematiche complesse che l’ondata di populismo attuale non sembra in grado di affrontare concretamente, al di fuori di una prospettiva propagandistica, tanto strumentale quanto inconcludente. Si parla molto di stranieri e poco di oppressi, è vero. Ma io credo che valga sempre il monito di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Hai scritto tanti libri sulla storia di Sant’Eufemia, ma credo che questo sia quello che più di tutti possa entrare nell’intimo di molte storie paesane, magari dimenticate. Una sorta di moto continuo e di linea parallela che lega nonni e nipoti, madri e figli. Senti che anche per te è così, e cosa ti aspetti da questo libro? 
Sì, il significato ultimo di queste pagine risiede proprio nel filo rosso che lega fatti ignoti e lontani nel tempo con il presente. Siamo figli anche di quelle storie di fango e di freddo, di viltà e di coraggio, di inconscio senso del dovere nei confronti di una patria non sempre benevola con il Sud e con la sua povera gente. Mi sono emozionato nel ricostruire la vicenda militare, che in famiglia non conoscevamo, del mio bisnonno materno Carmine Candido, sul cui foglio matricolare ho potuto leggere l’encomio solenne ricevuto per una ferita riportata durante un assalto alle trincee nemiche a Bosco Triangolare, nel corso della Seconda battaglia dell’Isonzo. Mi auguro che i lettori provino la stessa emozione davanti alle proprie storie familiari e che le sofferenze patite da questi soldati facciano riflettere sulla barbarie di ogni guerra.

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La colonia estiva dell’Agape

Anche questa è andata. È la frase che ci ripetiamo ogni anno, dopo avere riaccompagnato a casa l’ultimo dei nostri amici. Significa che tutto è andato bene, che piccoli e inevitabili contrattempi sono stati superati senza particolari difficoltà, che i ragazzi si sono divertiti e noi pure. Possiamo rilassarci, perché inevitabilmente la responsabilità un po’ si sente. Ma è proprio quella una fonte di gratificazione, perché 12 ragazzi che hanno comunque bisogno di particolare attenzione sono stati affidati alle nostre braccia e alla nostra esperienza.
Quest’anno si sono registrati graditi ritorni sia tra gli assistiti che tra i volontari. Anche il meteo ci è stato amico, tanto che non si è dovuto rinunciare nemmeno ad un giorno di mare. Certo, un po’ di magone alla fine c’è: alcuni dei nostri ragazzi per quest’anno non torneranno più in spiaggia e, come noi, aspetteranno la prossima estate per schizzare acqua, giocare con la palla, stare sdraiati sotto l’ombrellone, raccogliere sassi colorati. Si vorrebbe fare di più, si dovrebbe fare di più, ma si fa quel che si può per mantenere un’iniziativa importante che – è bello ricordarlo – la comunità eufemiese sostiene da sempre.
La sostiene in tanti modi. Ad esempio quest’anno ci ha fatto emozionare il meccanico che ha eseguito alcuni lavori sul pulmino senza volere essere pagato: «Pe’ figghioli» – la sua risposta quando gli abbiamo chiesto quanto gli dovessimo. E non dimentichiamo (anzi cogliamo l’occasione per ringraziare) i tanti amici dell’Agape che a fine anno partecipano al “veglione di solidarietà”, finalizzato proprio alla raccolta di fondi che poi vengono spesi soprattutto per l’organizzazione della colonia estiva.
Due le novità, molto positive e apprezzate. La collaborazione con la Scuola dell’infanzia cattolica “Padre Annibale” ci ha consentito infatti di avere la disponibilità di un secondo pulmino, che ha ridotto di parecchio il ricorso alle macchine dei volontari; quella con il liceo scientifico “E. Fermi” ha invece fatto provare l’esperienza del volontariato a diversi studenti che si sono rivelati di grande aiuto per l’associazione. La speranza è che il seme piantato cresca e che la cultura del volontariato si diffonda sempre di più tra i giovani del nostro paese.
Per stare bene bisogna saper trovare la gioia nelle cose apparentemente piccole: la ragazza che torna appositamente dalla struttura di Cosenza dove vive per venire al mare con noi; quella che dopo un anno di pausa ci ha messo nuovamente allegria cantando “Azzurro”; il bambino che ha realizzato il sogno di toccare la boa grazie ai due volontari che l’hanno portato dentro aggrappato al collo; tutti gli altri che in una settimana hanno riempito le nostre vite con il loro affetto.
Che colore ha la felicità? L’azzurro del mare e del cielo, con il sottofondo di un vociare allegro.

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Chiedi chi erano i Wood

Nell’estate del 1969 c’era stato il festival di Woodstock, la tre giorni di musica più celebrata della storia, mentre negli anni Settanta la band inglese “The Who” passava da un successo all’altro. Influenze che arrivano in provincia con qualche anno di ritardo, ma con un’immutata carica di rivoluzionare costumi e tendenze di una società che il ’68 aveva stravolto. Riguardando a quegli anni balza evidente che il desiderio di cambiare il mondo era uguale per i giovani di Milano, Berkeley o Sant’Eufemia d’Aspromonte. I più impegnati erano attivi nelle scuole, nelle università e sui luoghi di lavoro. Poi c’era chi “faceva politica” con comportamenti individuali trasgressivi, spesso non compresi da una comunità che restava fondamentalmente arretrata, incapace di avvertire il vento di un cambiamento epocale. Minigonne e capelli lunghi non passavano inosservati in un paesino dell’Aspromonte: eppure ci furono ragazzi e ragazze che “sfidarono” genitori e benpensanti in nome di una libertà che era anche quella di vestirsi a proprio piacimento.
La musica diventa il grimaldello per scardinare vecchie convenzioni; le note, ali sulle quali fare volare il sogno di un mondo governato dalla fantasia, dalla bellezza, dall’amore. È il periodo d’oro per i complessi musicali, che si costituiscono un po’ ovunque e consentono inedite opportunità di incontro e relazione tra i due sessi.
Nascono così a Sant’Eufemia nel 1973 i “Wood”, il cui nome è un omaggio al paesaggio locale e, per assonanza, un richiamo esplicito al gruppo di Pete Townshend. La formazione iniziale è composta da Cosimo Luppino (chitarra elettrica e voce), Totò Orlando (tastiere), Natale Condello (batteria), Armando Calabrò (basso), ai quali in un secondo momento si unisce Mimmo Lupoi (chitarra acustica e voce). Qualche anno prima avevano in realtà segnato il cammino i “Pupi 32”, fondati dai cugini Pupo (entrambi sedicenni, da cui il nome): Vincenzo alla chitarra, Mimmo alla tastiera e voce, Cecè Tripodi al basso, Cesare Bille alla batteria. I Wood raccolgono però l’eredità di un altro gruppo, i Sud Boys (o Ragazzi del Sud): Luigi Nolgo (voce), Saverio Infantino (chitarra), Pino Fiorentino (chitarra da accompagnamento), Gaetano Chirico (batteria), Totò Orlando (tastiere) e, nella fase finale, Cosimo Luppino. Saranno proprio questi ultimi due a fare da trait d’union tra Sud Boys e The Wood, dopo le defezioni di coloro che per motivi di studio o di lavoro sono costretti ad andare via dal paese.
Totò Orlando è il componente che ha più familiarità con note e spartiti per via del genitore, il Maestro Vincenzo Orlando, clarinettista uscito dal conservatorio di San Pietro a Majella, anche se il colpo di fulmine, in lui, scocca ascoltando il suono della tastiera dei Pupi 32. Cosimo Luppino è un eclettico chitarrista infatuato di Carlos Santana, le corde della sua Gibson SG Custom “diavoletto” sprigionano sonorità che toccano l’anima. Natale Condello, che si innamora della batteria assistendo alle prove dei Sud Boys nel “basso” di don Pepè Chirico (medico condotto, papà di Gaetano), racimola fortunosamente una Hollywood Meazzi d’ennesima mano a Messina. Armando Calabrò, che come Mimmo Lupoi è di Sinopoli, porta in dote il basso dal disciolto gruppo musicale “Angeli azzurri”.
La band è composta da “bufali” e “locomotive”. I primi (Luppino, Condello) suonano ad orecchio, si lasciano trascinare dall’istinto, azzardano soluzioni creative: come il bufalo di De Gregori scartano di lato e per questo, ogni tanto, cadono. I secondi (Orlando, Calabrò) sono fedeli esecutori dello spartito, locomotive dalla strada segnata. La forza del gruppo è nell’equilibrio tra queste due spinte, l’estro di Luppino ricondotto da Orlando a struttura musicale ordinata.
Il repertorio dei ragazzi, nazionale e internazionale, viene costantemente arricchito dalle musicassette pirata acquistate nel mercato domenicale e dall’ascolto religioso di programmi radiofonici che divulgano le novità musicali del momento: “Per voi giovani”, condotto tra gli altri da Carlo Massarini e Raffaele Cascone; “Supersonic” (Tullio Grazzini), “Pop-Off” (Maria Laura Giulietti, Massarini, Cascone e altri).
Mimmo Lupoi incrementa le soluzioni artistiche e la scaletta del gruppo, ma soprattutto consente un salto di qualità significativo con l’acquisto di un impianto voce Montarbo da 700 watt, per quei tempi e in quel contesto un vero e proprio lusso. Come i loro predecessori i Wood suonano in paese e nel circondario, in occasione di serate danzanti, veglioni di capodanno, matrimoni e feste. Le trasferte sono avventurose: su un pulmino Volkwagen noleggiato oppure stipati dentro un’unica vettura, propria o di fortuna quando riescono a strappare un passaggio.
Sono ragazzi pieni di vita che al di là delle esibizioni sul palco fanno musica estemporanea, correndo a sperimentare per ore ed ore nuove soluzioni, quando non tirano tardi in piazza con chitarre e bongo, aggiungendo un pizzico di magia al cielo stellato dell’estate eufemiese. Qualcuno storce il naso («Che fanno questi?»), altri approvano quella sana goliardia che li spinge a parlare con un’inflessione nordica in un concerto tenuto a Gallico, pubblicizzato con una locandina geniale: “per la prima volta in Calabria”. Per una settimana, a Delianuova curano l’accompagnamento dei concorrenti dello “Zecchino Deliese”, ma eseguono anche brani propri, rifacendosi all’esperienza dei Sud Boys che qualche anno prima avevano organizzato nei locali del cinema di Sant’Eufemia un partecipatissimo festival per ragazzi.
Ogni tanto qualcuno passa a trovarli mentre provano nel primo piano che si affaccia sulla centralissima via Maggiore Cutrì. Dall’altro lato della strada c’è la sede della camera del lavoro e da lì accorre ebbro di gioia il segretario Vincenzo Gentiluomo (“u brigghiu”), per la storica vittoria del partito comunista e l’elezione a sindaco del professore Peppino Pentimalli: «Abbiamo vinto! Abbiamo un sindaco comunista! Suonate bandiera rossa!» – la richiesta, esaudita, mentre sotto una folla festante canta l’inno dei lavoratori.
La storia dei Wood è un’esperienza che si esaurisce quando prendono il sopravvento le necessità materiali dei suoi componenti, alcuni dei quali sono costretti all’emigrazione. Una parentesi esistenziale che tuttavia chiarisce la visione di una generazione, affascinata dallo spazio sconfinato della prateria e dal sogno inteso – alla Ivano Fossati – come elemento fondamentale della vita di ogni giovane: “un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle […]; un tempo sognato, che bisognava sognare”.

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Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – La recensione di StrettoWeb

SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE E LA GRANDE GUERRA: LA COLOSSALE RICERCA CHE RESTITUISCE UNA STORIA E UN’IDENTITÀ AI CADUTI.
In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia d’Aspromonte offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli – Articolo di Monia Sangermano per StrettoWeb

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, un tema ostico e complesso, ma sempre attuale quello trattato da Domenico Forgione nel suo ultimo lavoro di ricerca, tramutato in un libro che a breve sarà dato alle stampe. Ciò che è accaduto in un periodo storico tra i più caldi che la storia italiana ricordi ha cambiato la conformazione umana e sociale di quasi i tutti i comuni della nostra penisola, andando a rivoluzionare soprattutto le regioni del sud. In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli. Forgione, esperto e appassionato di storia, ha voluto raccogliere in un volume tutte le vite di questi eufemiesi, “accompagnandoli” nel loro percorso di guerra e di vita, che li ha portati in alcuni casi a tornare dalle loro famiglie e in molti altri a trovare la morte in terra straniera. Una morte che ha dunque privato la comunità di un consistente patrimonio umano e che oggi, dopo un secolo, può essere ricostruito e fatto conoscere a tutti grazie a questa approfondita ricerca.
“Le fonti che ho utilizzato – spiega Forgione che ha portato a termine una minuziosa e certosina ricerca durata oltre 4 anni – sono diverse: i ruoli matricolari, ovvero 256 volumi con tutte le classi dal 1875 fino al 1900; l’Ufficio notizie, creato nel 1915 con sede centrale a Bologna (per i militari di terra e di mare); l’ufficio anagrafe del Comune. Alcuni dei documenti che ho avuto modo di analizzare, in particolare quelli dell’Ufficio notizie, erano lacunosi, mancavano dei dati, ma incrociandoli sono riuscito a venire a capo di tante storie, tante vite che da Sant’Eufemia sono partite e in alcuni casi purtroppo non sono più tornate. Complessivamente le schede dell’Ufficio notizie sono sessantamila e io ne ho utilizzate circa 1.500. L’Ufficio anagrafe del comune mi è stato molto utile per lo stato civile e in particolare per il nome delle mamme di questi ragazzi: ci tenevo molto, per un senso di giustizia anche nei confronti di queste madri che hanno sofferto in silenzio e con grande dignità subendo il dolore più devastante che un essere umano possa subire”. In totale i soldati censiti dal ricercatore eufemiese sono 580, ma probabilmente i suoi compaesani che hanno combattuto la prima guerra mondiale sono di più, di molti però si è purtroppo persa traccia.
“Il libro – racconta ancora Domenico Forgione – è costituito da una prima parte di introduzione generale, dove spiego che cos’è l’ufficio notizie, quali campi di prigionia hanno “ospitato” i nostri militari, quali sono state le principali malattie veicolate da e per la guerra, racconto la vita della trincea e descrivo i soldati, uno per uno, indicando nome, altezza e altri dati che potranno sicuramente interessare. Inoltre ho inserito un’appendice che contiene qualche cartolina dal fronte, qualche foto e soprattutto i grafici con le statistiche.”. Un tuffo nel passato, dunque, quello di Forgione che aiuterà molti suoi concittadini a comprendere il loro stesso presente, anche solo ricercando, tra quei 580 nomi, un cognome familiare, un “marchio” di famiglia, una storia già sentita dai racconti dei nonni.

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Per aspera ad astra

Per aspera ad astra”: forse è nella citazione latina utilizzata come immagine di copertina della sua pagina facebook la chiave per capire il senso della maturità conseguita da Jessica Tripodi, 28 anni compiuti da poco. Mi ha molto incuriosito la storia di questa ragazza caparbia che un giorno decide di “riprendere in mano” la propria vita, ricominciando da dove dodici anni fa era rimasta interrotta. Il diploma di maturità per molti è qualcosa di scontato; per altri può invece rappresentare “un appuntamento dove non incontrerò nessuno, ma incontrerò me stessa”.

D. Quando e perché avevi interrotto gli studi?
R. Mi fermai nel 2006, all’inizio del terzo anno al liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sant’Eufemia. Probabilmente non era l’istituto superiore che desideravo, ma la ragione vera è che non riuscivo più ad avere un mio equilibrio a causa dei problemi interiori maturati nel corso dell’infanzia, tra i quali il trauma della morte di mio fratello Damiano, che hanno segnato la mia psiche e il mio modo di rapportarmi con il mondo. Mi ritrovai a combattere contro un mostro che a quell’età non si dovrebbe conoscere affatto: la depressione. Arrivai al punto di non avere più alcuna energia fisica né mentale, nemmeno per le attività quotidiane. Tutto era diventato troppo pesante, opprimente, disperato. I professori si precipitarono a casa mia implorandomi di non mollare: ero una brava studentessa, in seconda e in terza media avevo pure vinto due borse di studio intitolate al preside Lorenzo Battaglia. Ma ero troppo stanca, psicologicamente e fisicamente.

D. Come hai fatto a capire che si trattava del “male oscuro” e come ne sei uscita?
R. Un giorno decisi di chiedere aiuto. Mi recai a Scilla e incontrai il dottore Plutino, il quale dopo avere chiacchierato un po’ con me mi affidò alle cure di una dottoressa dell’ospedale, la psichiatra e psicoterapeuta Rosa Milasi. Era il 2014 e la decisione del dottore Plutino mi ha salvato la vita. Iniziai un percorso lento, graduale, non facile, con una dottoressa eccellente che è riuscita a farmi superare piano piano il mio blocco di vita. Oggi sono riuscita a riprendere in mano molte cose e, nonostante ancora rimangano alcune cose da risolvere con me stessa, sto bene.

D. Era quindi giunto il momento di “riprendere in mano” la tua vita.
R. Qualche anno dopo l’abbandono della scuola avevo tentato di fare domanda al liceo linguistico per recuperare e diplomarmi, ma non stavo ancora bene e le domande si perdevano nel vuoto. A novembre 2017 ci riprovai. Presentai la domanda come candidata esterna agli esami di stato. Alcuni mi sconsigliarono di fare tutto in una volta: dovevo recuperare terzo, quarto e quinto anno e poi sostenere l’esame di maturità. Ma io non volevo perdere altro tempo. Presentai la domanda al liceo statale “Tommaso Gullì” di Reggio, indirizzo linguistico. Il 21 maggio 2018 cominciarono gli esami preliminari.

D. Come li hai affrontati?
R. Ebbi un momento di sconforto perché, lavorando, avevo avuto poco tempo per studiare. Telefonai alla mia migliore amica e piangendo le dissi che non intendevo presentarmi perché ritenevo di non avere una preparazione adeguata. Lei si arrabbiò, sapeva bene quanto ci tenessi ed io non volevo deluderla: insomma, mi presentai. Il primo giorno ci fu la prova di italiano. Tema sul progresso. Amo scrivere, quindi andò bene. Il secondo giorno c’erano le prove di matematica e di inglese. La matematica è sempre stato per me un discorso troppo complesso. Quel giorno davvero avevo deciso di non andare e di mollare tutto. Ebbi una lite furibonda con mio padre, ma ero inamovibile. Scrissi alla dottoressa Milasi per comunicarle che non sarei andata. Mi telefonò subito e mi disse: «Jessica, io non le permetto di non permettermi di aiutarla. Lei DEVE andare. Non importa se consegnerà la prova di matematica in bianco, ma deve andare!». Arrivare in tempo fu un’odissea, perché ero in netto ritardo. Cercai di fare quello che potevo, usando anche la logica: ho imparato che non bisogna mai lasciare in bianco nulla, sul foglio come nella vita. La prova di inglese andò bene, così come – il giorno dopo – quelle con le mie materie del cuore, il francese che avevo studiato a scuola e lo spagnolo imparato da autodidatta. Presi due “otto” e la soddisfazione dei complimenti della professoressa di spagnolo, madrelingua, che mi chiese se avessi un secondo diploma: «Magari», pensai io. Il 26 maggio affrontai l’orale sul programma di tre anni: non mi comunicarono esplicitamente il risultato, ma mi lasciarono intendere di cominciare a studiare per gli esami di stato. La sera me ne andai ad Acireale, al concerto di Emma, felice e leggera. Ero stata ammessa.

D. Veniamo al grande “appuntamento”. Com’è stato?
R. Nella prima prova ho scelto il saggio breve sulla solitudine nell’arte e nella letteratura. Adoro Alda Merini, nei suoi versi rivedo le profonde sofferenze che ho patito: solo chi ha a che fare con i problemi dell’anima può comprendere il dramma del dolore interiore. Per la seconda prova, lingua inglese, ho puntato sull’analisi di un brano di letteratura, mentre nella terza ho fatto il massimo pur nella consapevolezza di non potere avere una preparazione ottimale in tutte le materie. Gli orali me li ero immaginati diversamente. Sognavo di andare là e di fare un’interrogazione perfetta, esponendo in maniera impeccabile la mia tesina sulla passione. Ma non è stato così. Ero nervosa, tesa ed emozionata. Mentre parlavo piangevo: mi sono passati davanti agli occhi tutti questi anni, le difficoltà, i miei problemi. Il professore di spagnolo si è alzato per prendermi dell’acqua, gli altri commissari e la presidente sono stati dolcissimi e comprensivi. Ho cercato di dire quello che potevo e che ricordavo, e di arrivare per logica dove non ricordavo. Ho concluso con una poesia di Francisco Luis Bernardez, poeta argentino amico di Jorge Luis Borges: “Se per recuperare quello che ho recuperato/ è stato necessario che perdessi prima quello che ho perduto,/ se per ottenere quello che ho ottenuto/ ho dovuto sopportare ciò che ho sopportato,/ se per essere adesso innamorato/ è stato necessario essere ferito,/ tengo per ben sofferto quello che ho sofferto,/ tengo per pianto bene ciò che ho pianto./ Perché dopotutto ho constatato/ che non si gode bene quel che si è ottenuto/ se non dopo che questo si è patito./ Perché dopotutto ho ben capito/ che quanto l’albero possiede di fiorito/ vive di quel che tiene seppellito”.

D. Una volta promossa, hai pensato a qualcuno in particolare?
R. Sì. Voglio dedicare questo mio traguardo alla signora Maria Rosa Carbone Falvetti, una donna meravigliosa che mi voleva tanto bene, colta nel profondo e dall’animo gentile, provata duramente dalla vita ma sempre abituata a combattere.

D. Progetti per il futuro?
R. Ora mi aspetta la facoltà di Lingue e letterature straniere!

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Francesco Antonio Colella

Il 9 luglio l’associazione culturale “Geppo Tedeschi” di Oppido Mamertina ha onorato il ricordo di Francescantonio Colella, meglio noto come Mastr’Antoni ’u poeta, singolare esponente della poesia vernacolare la cui opera merita di essere riscoperta e divulgata. La manifestazione, che si è svolta nel cimitero di Oppido, ha avuto vissuto il primo emozionante momento con la collocazione di una croce commemorativa benedetta da don Letterio Festa, subito dopo la celebrazione della Santa Messa officiata nella cappella centrale del camposanto. A seguire lo studioso Antonio Roselli ha ripercorso la parabola umana e artistica del mastro d’ascia e poeta Francescantonio Colella, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1871 e trasferitosi per motivi di lavoro ad Oppido dopo il terremoto del 1908, tragico evento nel quale perì l’adorata moglie Serafina. Qui si risposò e continuò a coltivare la passione per la poesia, componendo poemetti di carattere politico, sociale e religioso ed intraprendendo una fitta collaborazione con la rivista cittanovese “Albori”, fino alla morte sopraggiunta nel 1942.
Le sue poesie sono quasi tutte inedite, per cui è auspicabile che l’iniziativa di sensibilizzazione ai temi della cultura e della memoria locale portata avanti da Roselli e dall’associazione “Geppo Tedeschi” abbia come seguito proprio una pubblicazione che consenta la loro fruizione ad un pubblico più vasto.
La chiusura della manifestazione è stata affidata all’arte declamatoria di Ciccio Epifanio, che ha proposto una propria composizione vernacolare dedicata al poeta Colella, del quale ha successivamente recitato il poemetto inedito “O vivi, vivi, chi a lu Campusantu”.
Condivisibili le parole di Roselli sulla necessità di riscoprire “la produzione letteraria di un uomo che pur lavorando con la sua mannaia e con la sua scure nei boschi e nei campi, dal sorgere del sole al tramonto, ha amato religiosamente il suo lavoro e la poesia; una poesia edificante e in alcuni casi preveniente il futuro in modo mirabile”.

Tra i componimenti editi, di grande impatto emotivo e rilevanza per il carattere di testimonianza è “Storia del terremoto del 28 dicembre 1908 a Sant’Eufemia”, ricostruzione in versi della tragedia che distrusse anche il paese d’origine di Colella. Di seguito uno stralcio, tratto dal libro di Caterina Iero, Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1997 (pp. 95-106; ivi, p. 96):

Lu affrittu patri levau lu figghiu,
lu figghiu affrittu li so genituri,
li frati a li so frati ed eu a ddhu gigghiu
luci dill’occhi mei, sinceru amuri.
O jornu di terribili scumpigghiu,
d’affannu, di spaventu e di duluri!
O fracellu terribuli! O scuncassu
chi vitti cu chist’occhi ad ogni passu!
Li genti mi affruntavanu portandu
li morti nta li casci o ncoddhucavaleri
cu anchi, testa e vrazza, mpendulijandu.
Poi guardu a ttia, pajisi, e di com’eri
nvanu ti jiva cchiù raffigurandu!
Li casi eranu tutti cimiteri
e a ttia nfurma di grandi macellu
nta n’attimu cangiau lu gran fracellu.

*La foto è tratta dal profilo facebook di Maria Frisina

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