La discarica della discordia

La Gazzetta del Sud di oggi dà notizia della lettera che come gruppo consiliare “Per il bene comune” ieri abbiamo depositato presso il protocollo del Comune. Le vicende della discarica “La Zingara” sono note a tutti; molti nodi, a nostro avviso, sono rimasti irrisolti e sono giustamente causa di forte preoccupazione: proprio per questo crediamo che sia necessario uno sforzo di trasparenza da parte di tutti gli attori e il coinvolgimento della nostra comunità, altrimenti anche questa – come quella dello svincolo – sarà l’ennesima decisione presa passando sopra le teste della popolazione.
Di seguito, il testo completo della lettera indirizzata al sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte e, per conoscenza, al presidente del consiglio comunale e a tutti i consiglieri
.

Gentile Sindaco,
ormai da diverso tempo si susseguono voci preoccupanti relative alla prossima apertura della discarica “La Zingara”, ricadente nel territorio di Melicuccà, ma situata pericolosamente nell’entrata del nostro comune. Come lei ben sa, tale eventualità è fonte di giustificata apprensione tra i nostri concittadini, per le possibili nefaste conseguenze ambientali. Già in passato, le popolazioni di Sant’Eufemia e di Bagnara Calabra manifestarono con forza la propria contrarietà: oggi quelle paure riemergono prepotentemente, a fronte di una decisione che la Regione Calabria ha assunto di concerto con l’ATO di riferimento, come emerge anche da recenti notizie di stampa (Il Quotidiano del Sud, 30 agosto 2019).
Abbiamo apprezzato la Sua ferma e contraria presa di posizione, in occasione della riunione tenuta il 30 luglio presso il Dipartimento Ambiente e Territorio della Regione Calabria, presente l’Assessore regionale all’Ambiente, il sindaco di Melicuccà, il vicesindaco del comune di Reggio Calabria, il consigliere regionale Giuseppe Pedà, i dirigenti del dipartimento.
Sui temi della difesa dell’ambiente e della tutela della salute dei nostri concittadini non possono esserci divisioni. Proprio per questo motivo Le chiediamo di farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio.

I Consiglieri comunali
Domenico Forgione
Pasquale Napoli

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Incontro con Domenico Antonio Tripodi, l’artista eufemiese che fa filosofia con i colori

Un fotogramma frequente delle estati eufemiesi ritrae una coppia di anziani coniugi passeggiare per le vie del paese. Domenico Antonio Tripodi e la moglie Eufemia (“Fena”) Borzumato hanno il passo lento e l’occhio attento di chi conosce la storia di Sant’Eufemia e si sofferma per trovare conferme o per commentare le trasformazioni. Ma anche soltanto per incontrare gente, scambiare un saluto e intrecciare i ricordi. Da diversi anni per me estate significa avere la possibilità di conversare con il Maestro Tripodi (“L’Aspromontano”), godere della pacatezza del suo argomentare e della serenità che trasmette il suo eloquio, entrare in punta di piedi nel mondo dell’arte attraverso le sue preziose lezioni. Capire come nasce un artista, cosa lo rende unico, cercare di vedere attraverso i suoi occhi quello che occhi ordinari non riescono a percepire. Tripodi vive a Roma, ma in estate abita nella casa della sua infanzia, tra le poche a resistere al terremoto del 1908, che fu anche bottega di pittura e di scultura e studio fotografico del padre, Carmelo.
La nostra conversazione parte proprio da Carmelo Tripodi.

Cosa significava per un bambino degli anni Trenta-Quaranta vedere come venivano sviluppate le fotografie? 
Ogni tanto mi infilavo nella camera oscura, anche se la mamma [Carmela Giordano] non voleva. Mio padre era un po’ indeciso, ma se vedeva che mi attaccavo ai pantaloni mi trascinava dentro: aggrapparmi alle sue gambe mi rassicurava in quella oscurità. Riuscivo a scorgere qualcosa del suo paziente lavoro, non molto perché non arrivavo al piano su cui operava. Quel buio era misterioso e affascinante.
Con la pittura era diverso? 
Con la pittura era tutto visibile, era all’aperto. Nell’Ottocento erano arrivati ad una sofisticheria che facevano addirittura delle tende, dei pannelli come quelli che si utilizzavano al cinema per ottenere certi riflessi sulla persona che posava. Era molto bello, complesso. Ma mio padre creava anche le statuette del presepe. Osservavo le sue mani lavorare al braciere e poi vedevo uscire fuori le braccia, le gambe, le mani: i personaggi prendevano vita ed io ne ero affascinato.
Come ha iniziato a dipingere? 
Da piccolo, con un carbone rubato dal braciere cercando di non farmi vedere da mia mamma. Eravamo in tempo di guerra e un pezzo di carbone costava. Ricordo quando scappavamo nella galleria [della linea taurense Sinopoli-Gioia Tauro], durante le incursioni aeree degli Alleati. Chi aveva i soldi riusciva a comprarsi la carne, quando c’era o quando ammazzavano gli animali, ma non tutti potevano. Un pezzo di carbone valeva tantissimo per le famiglie di allora.
Cosa disegnava con il pezzo di carbone sottratto dal braciere? 
Avevo la mania di disegnare per terra. La casa aveva i pavimenti in tavola, per cui io con il carbone “andavo a mille”. Mia madre si metteva lì con una scopa in mano, in un angolo, perché sapeva che poi sarebbe toccato a lei pulire. Mio padre seduto al cavalletto, sornione, andava avanti con i suoi lavori: lui aveva capito che ero portato. Così io disegnavo al piano di sopra, ma la stanza era piccola. Non mi bastava tutto il pavimento per completare i miei disegni, per cui spesso la gamba di qualche personaggio “scendeva” sui gradini della scala. Riproducevo per terra quello che mio padre disegnava al cavalletto.
Chi era Carmelo Tripodi? 
Mio padre è stato un artista grandissimo, che va riscoperto. È quello che faccio da diversi anni con il volume a lui dedicato, giunto ora alla terza edizione. Prendiamo ad esempio il suo “Galileo Galilei”, con quel bellissimo gioco di luci. Galileo riflette, studia: forse sta pensando al dissidio tra scienza e religione. Questo quadro mio padre lo dipinse nei primi anni del Novecento. Bisogna pensare a questo: nel 1906 il quadro parte da Sant’Eufemia sul carretto trainato dai muli degli “scandesci” [soprannome di una famiglia dedita al trasporto di cose], attraversa lo stretto e arriva a Palermo, dove viene premiato. Poi parte per Parigi, insieme al disegno “Sant’Antonio Abate”: le due opere vincono tutto quello che c’era da vincere.
Carmelo Tripodi fu iniziato all’arte nella bottega di Giosuè Versace (autore, in particolare, di due tele pregevoli: San Luigi e Santa Chiara), il quale era figlio di Giuseppa Violi, decoratrice dei quadri dei Misteri gaudiosi e gloriosi nella chiesa del Rosario e, a sua volta, figlia di Domenicantonio Violi (suo un quadro dell’Immacolata Concezione). Nella prima metà dell’Ottocento a Sant’Eufemia operarono, inoltre, i fratelli Rocco e Paolino Visalli, a conferma di una tradizione antica e feconda. Un filo rosso che conduce a lei e ai suoi fratelli Graziadei e Agostino.
Sì, la mia formazione e quella dei miei fratelli è stata influenzata molto dalla produzione artistica di nostro padre. A Milano, dove arrivai nel 1953 (prima ero stato a Firenze e Siena, dove avevo molto studiato), ho “incontrato” Cézanne, Van Gogh, Matisse, Gauguin, gli impressionisti. E poi la pittura di Giorgio De Chirico, di Aligi Sassu, che è stato mio grande amico, di Aldo Raimondi. Quell’arte era la mia arte, il mio stile diventa più frastagliato. Gli oggetti, le figure prendono la luce del sole e la riflettono. Mio padre chiude l’Ottocento; io ho cercato di fondere il vecchio con il nuovo. Nei tre periodi della mia produzione artistica ho essenzialmente studiato l’uomo (e il mito); la natura, che ho ritratto nella sua sofferenza: come nel quadro del piccione ferito e morente che raccolsi e portai a casa, a Venezia; infine Dante.

Il filosofo

Il suo quadro più celebre è “Il filosofo”. Ci parli di quest’opera.
Si tratta di un dipinto del 1984 che ha una bella storia. Me l’hanno chiesto in tanti: politici come Amintore Fanfani e Luigi Gui, artisti come Don Backy e Gena Dimitrova, che nel 1986 aveva interpretato il Nabucco alla Scala di Milano. La Dimitrova era particolarmente insistente, ma le dissi: «Chiedimi una costola, ma non questo quadro». In quel periodo tenevo una mostra in via Manzoni, vicino alla Scala. Sul quotidiano “Il Giorno” uscì un articolo con la testa del filosofo in prima pagina. Dopo un paio di giorni mi contattarono da Torino le Edizioni Paoline: «Abbiamo visto la testa del filosofo. Venga perché abbiamo bisogno di lei». Mi recai a Torino cercando di capire il perché di quella necessità assoluta: “la provvidenza”, come mi avevano detto. Erano pronti per mandare in stampa dieci volumi di un’enciclopedia della filosofia e delle religioni e avevano bisogno dell’immagine del mio quadro, poiché in essa avevano visto la rappresentazione del pensiero di Sofocle.
Un motivo di grande orgoglio.
«Tripodi fa filosofia con i colori»: è questo l’orgoglio. Non la copertina in sé. Noi dall’Aspromonte facciamo filosofia, diamo forma fisica al pensiero dei filosofi.
È bella l’espressione “dall’Aspromonte”. Un artista che gira il mondo ed espone i suoi quadri a New York, Tokio, Istanbul, Parigi, Londra, Stoccolma, Mosca porta avanti le proprie radici, le proprie origini. Proprio a Mosca lei ha esposto le opere del ciclo dantesco: quanto studio c’è dietro i 150 quadri dedicati alla Divina Commedia, quanta fatica per riuscire a interpretare Dante e dare forma alla sua poesia?

Monte del Purgatorio

Dante non ti lascia spazio per fare altro, ti prende tutto. Non si smette mai di studiarlo. Da bambino ero affascinato dalle anime del purgatorio dipinte da mio padre. Quelle fiamme lì, con le figure dentro, a quattro-cinque anni mi attraevano. I miei dicono che io mi arrabbiavo perché con il carbone non potevo farle rosse. Mio padre quindi era dantista, conosceva Dante e mi ha trasmesso l’amore lui. Poi l’ho studiato sui banchi di scuola. È una passione che si è sedimentata negli anni ed è maturata piano piano. Interpretare Dante significa anche “andare oltre” Dante e svilupparne in un certo senso il pensiero, così come credo di avere fatto con Manfredi, che Dante colloca nel terzo canto del Purgatorio. Il “mio” Manfredi ha un’espressione di pace e di tranquillità, ha già superato la fase di chi attende di conoscere quale pena dovrà scontare.
In conclusione, a me sembra che il tratto caratteristico della sua produzione artistica sia la convivenza dell’umanesimo con la religione e con la fede. È d’accordo?
Sì, è un equilibrio necessario: c’è l’uomo e c’è la spiritualità. Attraverso i miei lavori cerco di penetrare la materia, la carne: di tirare fuori la sostanza, l’essenza della natura umana. Per questo mi sono messo a lavorare con Dante. Dante ha tessuto una tela di salvezza per lui, ma anche per tutti gli uomini. Il fine ultimo della Cantica del Paradiso, come scrive a Cangrande Della Scala, è quello di rimuovere i viventi dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità. L’artista è uno strumento di Dio, come affermano chiaramente Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per cui non si può che condividere il pensiero del critico d’arte Antonio Paolucci: «Per il pontefice l’artista è chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell’esercizio della sua spontaneità di “creatore”, ciò che è trascendente, inesprimibile, “ineffabile”».

*Antonio Paolucci, tra l’altro Ministro per i Beni Culturali e Direttore dei Musei Vaticani, nel 2010 scrive a Domenico Antonio Tripodi: «Lei è un artista vero. Ha passato la vita attraversando l’arte e il servizio dell’arte in tutte le sue forme e l’Arte Le ha restituito cuore caldo e mente serena. Le sue interpretazioni pittoriche della Commedia sono molto belle. Lei dimostra ispirazione, sensibilità, passione, capacità evocativa e visionaria e, naturalmente, mestiere; una cosa che manca, purtroppo, agli artisti di oggi e che è sempre importante. Lei, Tripodi, è testimone ed è alfiere delle Arti. Auguri di ogni bene e di ogni successo».

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Vincenzino Fedele e quelle parole mancate

Nei giorni scorsi ci ha lasciato Vincenzino Fedele, “u Signuri”. Nella sua lunga vita Vincenzino è stato un infaticabile organizzatore di eventi, sia come fondatore e poi presidente emerito dell’Associazione Sarti e Stilisti Calabresi, sia come fondatore e presidente per circa quattro decenni dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”.
Un uomo che ha dedicato la sua vita per realizzare iniziative che facessero crescere culturalmente e socialmente la nostra comunità, quella Sant’Eufemia dove aveva deciso di vivere nonostante le tante opportunità avute per trasferirsi altrove. Sant’Eufemia ha un grande debito di riconoscenza nei suoi confronti, noi tutti gli dobbiamo molto. Mi vengono in mente le sfilate di moda, a partire dagli anni ’60, che hanno fatto di Sant’Eufemia un punto di riferimento anche fuori regione. E poi le tante attività della “Sant’Ambrogio”: sagre, minifestival e giochi senza frontiere, gruppo folcloristico, organizzazione delle sfilate di carri allegorici per Carnevale, festa della famiglia, recite e tanto altro. Per 18 anni la pubblicazione della rivista “Incontri”, l’unico esperimento editoriale della storia eufemiese. E ancora l’opera di riscoperta della nostra memoria storica, con l’organizzazione del convegno sul bicentenario dell’autonomia del nostro paese e la successiva pubblicazione degli atti, oppure la ristampa dell’introvabile “Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte”, la cui prima edizione risaliva al 1945.
Ho aspettato qualche giorno prima di pubblicare queste poche righe perché pensavo che l’amministrazione comunale avrebbe saputo onorare questa grande figura di eufemiese. A maggior ragione dopo alcuni interventi registrati nell’incontro in pineta del 5 agosto sul tema “Volontariato è territorio”: interventi nei quali si sottolineava, giustamente, che non bisogna sempre aspettare l’iniziativa dell’amministrazione comunale, che bisogna darsi da fare e rimboccarsi le maniche come cittadini che hanno a cuore il benessere della propria comunità.
Ecco, io credo che Vincenzino Fedele sia stato uno di quelli che non è mai stato con le mani nelle mani, è stato un uomo instancabile da questo punto di vista. Forse proprio per questo la sua morte avrebbe meritato da parte dell’amministrazione comunale un comunicato stampa o un manifesto, insomma anche due parole ufficiali di ringraziamento per tutto quello che ha fatto nella sua vita per Sant’Eufemia.
Scusate lo sfogo.

*Tra gli altri articoli, tre anni fa a Vincenzino Fedele ne avevo dedicato uno in occasione dei suoi 90 anni:
https://www.messagginellabottiglia.it/2016/02/vicenzinu-u-signuri.html

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Palazzo Capoferro com’era

Ho chiamato il blog “Messaggi nella bottiglia” perché mi piaceva l’idea di affidare alle onde del web tanti bigliettini che a volte vengono raccolti, altre no. Vedere quello che succede, se sono capaci di invitare alla riflessione e al confronto, perché da cosa può nascere cosa e ogni conversazione (reale o virtuale) offre nuovi spunti, costringe ad approfondire e, se necessario, a rivedere le proprie convinzioni. Il blog è una palestra per la mente, ma anche uno strumento di studio. Molto di quello che ho scritto nei miei libri è passato dai post pubblicati. Molto è stato idealmente qui concepito.
Sulla storia di Sant’Eufemia e dei suoi personaggi più illustri si sono rivelati preziosissimi i contributi di lettori a me completamente sconosciuti e sparsi in tutto il mondo. Alcuni non sono neanche nati a Sant’Eufemia, né l’hanno mai visitata. Sono stati loro ad avere aggiunto importanti tessere al mosaico che vado componendo da un decennio, sotto forma di dati che altrimenti non sarebbe stato possibile recuperare in nessun archivio. Alcune loro dritte mi hanno aperto gli occhi e suggerito ulteriori ricerche. E poi i regali, quelli belli!
Ad esempio le fotografie, come questa che pubblico oggi e che riproduce il prospetto di Palazzo Capoferro. Circa cinque mesi fa avevo dedicato un articolo proprio al rudere di questo palazzo nobiliare, una delle poche costruzioni rasa al suolo dal terremoto del 1908 della quale sia rimasta in piedi qualcosa: il bellissimo portale, oggi purtroppo interamente ricoperto dai rovi; i muri esterni e alcune pareti interne, anch’essi conquistati dalle erbacce; pochi gradini della scala interna, comunque seppelliti dalla terra; una parte della scalinata esterna, che conduceva all’ingresso principale e che in origine era ampia almeno il doppio.
Il disegno originale è custodito da Silvio Capoferro, il quale vive a Roma e che, come mi ha scritto in una email, è “casualmente capitato” nel mio blog: «mi ha fatto molto piacere – continua il messaggio – leggere le notizie su palazzo Capoferro. Spero che altrettanto piacere possa fare a lei ricevere la foto di questo disegno, dedicato nel 1922 da Gaetano Capoferro a mio padre Domenico e al suo fratello gemello Paolo, entrambi nati nel 1916».
La didascalia del disegno consente di risalire all’epoca della sua costruzione, avvenuta tra il 1818 e il 1820. Successivamente (1839), il palazzo fatto edificare dal medico Gaetano Capoferro fu ereditato dai figli Paolo e Luigi. Qui si innesta la parte di storia che eravamo riusciti a ricostruire, ovverossia il passaggio della proprietà a Paolo (sindaco eufemiese dal 1870 al 1875) e, da questi, alla figlia Rosaria che l’avrebbe portato in dote al medico chirurgo Saverio Greco di Delianuova, sposato a Sant’Eufemia il 18 luglio 1889.
Danneggiato dal terremoto del 1894, il palazzo fu quasi completamente distrutto da quello del 1908. Ancora nel secondo dopoguerra risultava abitata una parte del pianterreno, che progressivamente fu abbandonato. Dell’antico splendore oggi non rimane niente. A duecento anni dalla sua edificazione, rivive soltanto nel disegno realizzato e donato nel 1922 ai nipoti Domenico e Paolo dall’architetto Gaetano Capoferro.

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Dalla biblioteca ferdinandiana di Reggio Calabria alla “De Nava”, il busto e la sala “Visalli”

Sono tre gli articoli del decreto “per lo stabilimento di una pubblica biblioteca in Reggio” firmato il 31 marzo 1818 dal re delle Due Sicilie Ferdinando I di Borbone e dal guardasigilli marchese Donato Antonio Tommasi. Nei primi due veniva stabilito il nome (biblioteca ferdinandiana) ed il sito (palazzo arcivescovile di Reggio Calabria, presso piazza Duomo). Nel terzo si specificava che la sua direzione sarebbe stata affidata ad un bibliotecario – che aveva anche l’obbligo “di dare ogni settimana due lezioni di biografia letteraria e di bibliografia” – scelto di comune accordo con l’arcivescovo di Reggio e con l’intendente della provincia (il progenitore del prefetto).
La biblioteca ferdinandiana, composta anche da una sezione di “libri e manoscritti patrij”, avrebbe riunito tutti i volumi dei padri filippini del capoluogo e quelli del seminario, realizzando così il proposito del sovrano di offrire ai propri sudditi “i mezzi, onde attendere alla cultura dello spirito”.
La biblioteca è stata nel tempo più volte trasferita. A partire dal 1928 è ospitata nella villa “Pietro De Nava”, accanto alla quale nella seconda metà del Novecento è stato costruito un nuovo edificio, oggi sede centrale della biblioteca comunale “De Nava”.
Tra le tante donazioni che compongono il suo ricco patrimonio bibliografico, particolarmente significativa è quella effettuata dalla vedova di Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e deceduto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931: circa 1.500 volumi, consultabili nel catalogo “Donazione Vittorio Visalli”. Le carte utilizzate per la stesura delle opere dedicate al Risorgimento calabrese sono invece conservate presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
A riconoscimento dei “meriti di storico e di educatore” dell’illustre eufemiese, all’interno della biblioteca “De Nava” il 29 dicembre 1932 fu collocato un busto in bronzo di Visalli, commissionato dal podestà reggino Pasquale Muritano. E proprio a Visalli è inoltre dedicata una delle attuali sale di lettura aperte al pubblico.

*Link utili su questo blog:
Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici;
L’epigrafe di Visalli, lo stupore di Mico;
Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli;
Il terremoto del 1894 in una lettera di Vittorio Visalli;
Vittorio Visalli, anche poeta.

Vittorio Visalli
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5 luglio 1914: il discorso di Pietro Pentimalli per la posa della prima pietra del palazzo municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte

L’odierno assetto urbanistico di Sant’Eufemia d’Aspromonte è l’esito dei terremoti che si sono nel tempo succeduti e che hanno determinato la riedificazione del paese nell’area denominata “Petto del Principe” dopo il 1783 e, in conseguenza del sisma del 1908, nei terreni di “Pezza Grande”. Se dopo “u fracellu” la soluzione individuata non aveva trovato obiezioni, anche a causa della strettissima continuità territoriale tra le due aree, molto controverso fu invece lo “spostamento” di circa un terzo della popolazione eufemiese dopo il 1908. Le polemiche tra i favorevoli e i contrari si trascinarono per anni, con raccolte di firme e memorie inviate al governo nazionale a sostegno dell’una e dell’altra tesi. L’allora sindaco, il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950), e il vecchio ma ancora autorevolissimo Michele Fimmanò (6 marzo 1830 – 11 febbraio 1913) riuscirono infine ad imporsi, grazie anche al contributo fondamentale del deputato reggino Giuseppe De Nava, che si fece promotore in Parlamento di un provvedimento che mediava tra le due posizioni in quanto decretava l’edificazione nella nuova area, ma abrogava il divieto di ricostruire nel vecchio abitato. Sant’Eufemia cambiava fisionomia e, con la poderosa edificazione della Pezzagrande, un terzo popoloso rione si aggiungeva al Paese Vecchio e al Petto.
Le ferite di quello scontro non erano ancora completamente rimarginate quando, il 5 luglio 1914, vi fu la posa della prima pietra del nuovo palazzo comunale. Lo sapeva bene il sindaco Pietro Pentimalli, che più volte nel discorso inaugurale utilizzò i termini “concordia” e “rinascita”. Due sostantivi, ripetuti negli interventi del vescovo Giuseppe Morabito e dell’onorevole De Nava, che ritornano in ogni “adesione” alla cerimonia inviata per lettera o per telegramma dalle più eminenti personalità eufemiesi e del circondario, oggi scolpite nelle 29 pagine di un opuscolo quasi introvabile: Per la posa della prima pietra del Palazzo Comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, 5 luglio 1914 (Palmi, Tipografia C. Zappone, 1914).

La pubblicazione era stata decisa affinché il ricordo di quell’evento fosse trasmesso alle future generazioni:
«Perché della patriottica festa celebrata ai cinque di questo mese di luglio, non svanisse assai presto il ricordo, questa Giunta, nel giorno successivo, deliberò che, e la bella iscrizione posta nelle fondamenta del nostro civico palazzo, e dettata dallo storico illustre e nostro concittadino, Prof. Vittorio Visalli, e il discorso da me pronunziato, e le molte adesioni di persone autorevoli e di concittadini, si pubblicassero per la stampa. Ho adempiuto a tale voto. E se un augurio mi è lecito ancora formulare per la nostra città, dico che, avviata Sant’Eufemia alla sua rinascenza, questa si compia per la virtù e pel concorde proposito dei suoi generosi e forti figli».

Lo storico eufemiese Vittorio Visalli compose l’epigrafe che, arrotolata dentro un tubo d’acciaio, fu calata nelle fondamenta del palazzo municipale e il cui testo fu riportato sul retro della cartolina celebrativa stampata a ricordo della cerimonia inaugurale:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire».

Nel suo discorso Pentimalli riservò un ricordo commosso alle vittime del terremoto e rievocò la tragedia di quei giorni:
«Noi, o illustri signori, siamo i superstiti che, balzati esterrefatti nel sonno, nel ruinante fragore degli attimi sterminatori, le nostre case e i nostri cari perdemmo, mentre la tragica alba, indugiantesi di tra le brume del fatale dicembre, coglievaci ignudi sulle vie, sulle piazze, col terrore sui volti, colla disperazione fatta follia nelle anime. Consentite, o signori, che prima di ogni altra cosa, con commosso e devoto pensiero ai nostri poveri scomparsi sotto la greve mora della crollata casa nativa, io invii un mesto e reverente saluto, e alla loro memoria consacri una lacrima e un fiore».

Ma nonostante i lutti e la devastazione occorreva guardare avanti e, nello stesso tempo, fare il necessario per conservare la memoria del passato:
«La vita è uno spettacolo di trasformazioni perenni, è un impasto di dimenticanze e di speranze nuove, e sul ceppo del passato rampolla e rinverde la ricordanza profetica: bisogna, dunque, ricordare, infuturandosi, tener vive le tradizioni e coordinarle all’avvenire, e col rimpianto dovrà sorgere la fede che fortifichi le anime nello ascendentale cammino. E la nostra fede, venuta su di tra gli sconforti e le ansie dei tragici momenti, e rafforzatasi per sempre più tenaci propositi, ci ha inspirato che Sant’Eufemia d’Aspromonte vivesse ancora nel tempo, nella tradizione, nella storia; che, percossa ma non doma, attingesse dalla ombrosa calma e raccolta della maestà dei suoi boschi lo austero e pensoso raccoglimento per meditare il suo avvenire, e chiedesse all’impeto dei suoi torrenti, che sanno scavarsi la via, la indomita virtù del volere per risorgere qui, non lungi dal vecchio abitato, pupilla adombrata dal triste ricordo di un tragico destino, occhio vigile e aperto a più arridenti fortune».

Sulle polemiche attorno alla decisione di ricostruire il paese nell’area della Pezzagrande (“vane ire, faziosi propositi, dilaniatrici ambizioni”), Pentimalli considerava che “è bene che scenda l’oblio”:
«La prima pietra su cui sorgerà la nostra sede comunale è per me e per voi tutti la pietra miliare che segna il fatto cammino e addita il novo a quelli che dietro seguiranno. Questa prima pietra ha per noi un contenuto ampio e comprensivo che trascende e sorpassa la solennità di una pubblica cerimonia. Essa è la consacrazione tangibile di una fede accomunata, di un nuovo e concorde proposito di tendere a più alta e proficua meta, di un’auspicata e sospirata pacificazione di animi, che, ci riempie di legittimo orgoglio e di serena gioia».

L’omaggio alla “veneranda figura” di Michele Fimmanò (deceduto l’anno precedente) e il ringraziamento rivolto a Giuseppe De Nava, “questa fulgida gloria del Parlamento italiano, il degno nostro rappresentante, che nato in questa regione, di essa conosce tutti i bisogni e ne intuisce tutto l’avvenire”, precedevano infine la chiusura del memorabile discorso, un inno d’amore rivolto alla propria terra:
«Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

*Link utili su questo blog:
La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908.
Sant’Eufemia e Milano, un legame storico.
Michele Fimmanò.

**Bibliografia:
– Giuseppe Pentimalli, La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, in Sandro Leanza (a cura di), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte 14-16 dicembre 1990), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1997.
– Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, edizioni La città del sole, Reggio Calabria 2008.
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013.

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Il terremoto del 1894 in una lettera di Vittorio Visalli

Il terremoto che il 16 novembre 1894 colpì il circondario di Palmi provocò 98 vittime e danni ingentissimi. San Procopio fu il paese che pagò il più alto tributo di sangue (48 morti); a seguire Bagnara (13), Seminara (8), Palmi (8) e Sant’Eufemia (7), mentre gli altri centri dove si registrarono decessi furono Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. I danni quantificati a Sant’Eufemia ammontarono a circa due milioni di lire: 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve.
Una testimonianza eccezionale di quell’evento è la lettera inviata il mese successivo dallo storico Vittorio Visalli a Giuseppe Mantica, che con Enrico Emilio Ximenes curò nel febbraio del 1895 la pubblicazione di un numero speciale della rivista “Fata Morgana”.
Si tratta di un documento preziosissimo, del quale sono venuto in possesso quasi per caso mentre spulciavo le “Carte Visalli”, custodite presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria. In apertura, Visalli descrive ciò che era successo nella sua casa di Messina, dove allora viveva:
«Eran quasi le sette di sera, quando un ruggito sotterraneo, lungo sibilante, annunziò la catastrofe: ed ecco un urto immane, una rapida vibrazione di sotto in sopra, da sinistra a destra, e le case oscillano, sbattono le imposte, i quadri si staccano dalle pareti, le travi scricchiolano come i fianchi di una nave in tempesta. Perdo l’equilibrio, mi appoggio allo stipite di un balcone, e vedo turbinare in un vortice i palazzi, i fanali accesi, la gente nella strada, e un vento caldo e furioso m’investe tutta la persona. Corro a prendere nelle braccia la mia bambina che dormiva, e preceduto dalle donne di case allibite e singhiozzanti, scendo all’aperto».

Dal 1892 Visalli era vicedirettore della scuola normale di Messina, città nella quale risiedette fino al terremoto del 1908: in quell’occasione la moglie Giuseppina Augimeri e l’unica figlia, la sedicenne Maddalena, ebbero infatti minore fortuna e perirono sotto le macerie.
A mano a mano che passano le ore, scrive Visalli:
«…si propagano dicerie di gravi danni accaduti non si sa dove; tutte le paure, tutti i pregiudizi risorgono in quel trambusto; s’interroga il mare, la luna, le nuvole. E intanto, ad ogni due o tre ore, i boati e le scosse si ripetono, sollevando pianti e clamori: le donne cadono in ginocchio, i ragazzi strillano, appaiono da ogni lato file di lanterne ed immagine sacre portate in processione».

Il pensiero di Visalli corre ai parenti che vivono in Calabria:
«Questo pensiero ci torturava. Erano là i vecchi genitori, là i fratelli, le famiglie nostre. Avranno sentito il terremoto? sono feriti? sono salvi? E quando cominciò a spuntare l’alba, già mille fosche notizie circolavano di bocca in bocca: in Calabria la rovina è immensa, vi son paesi distrutti, centinaia di morti, migliaia di feriti, la strada ferrata interrotta, la linea telefonica spezzata».

Il giorno successivo Visalli attraversa lo Stretto. Nel corso del viaggio chiede informazioni, ma le risposte sono angoscianti:
«Domando ai passeggeri che incontro, e mi rispondono: Sant’Eufemia e San Procopio sono spariti dal mondo, Palmi, Bagnara, Seminara quasi demolite, guasti enormi a Reggio, la provincia tutta ricaduta nelle condizioni in cui dovette trovarsi nel febbraio del 1783».

I suoi parenti, sparsi tra Sant’Eufemia e i centri viciniori, avevano superato incolumi la tragedia. La visione che gli si presenta è però sconvolgente. La prima città visitata da Visalli è Palmi:
«Entrando a Palmi, non si scorge a prima vista la gravità del danno, essendo le case in piedi e le vie quasi sgombre di frantumi; ma, fermando un po’ lo sguardo, si osserva uno spettacolo che agghiaccia il cuore. Spigoli aperti, imposte sgangherate, pareti oblique e spaccate da larghe fenditure, tetti sfondati, e per le strade una turba livida di stanchezza e di paura, che non ha ricovero, ed improvvisa capannucce e baracche di tavole o di cenci. Il giardino pubblico, quella stupenda terrazza d’onde l’occhio spaziava incantato sul cerulo Tirreno, da Capo Vaticano al Mongibello, ora sembra l’attendamento d’una lurida tribù di zingari. Vedo le signore più superbe, le più eleganti signorine, accoccolate in un angolo, ravvolte in coperte da letto o in vecchi scialli già smessi; vedo centinaia di persone inginocchiate innanzi ad un confessionale, aspettando l’assoluzione in articulo mortis: ed altre centinaia urlano e piangono a pie’ delle statue dei santi, che in lunga riga sono schierate nella piazza maggiore».

Quindi arriva a San Procopio. Nella tragedia di un paese raso al suolo rifulge l’eroismo del dipendente comunale Marafioti:
«San Procopio non esiste più: non è altro che un ammasso informe di tegole, di travi, di calcina, di mattoni, purtroppo chiazzati di sangue, da poi che fu questo il comune che diede il maggior numero di morti. I popolani erano dentro la chiesa della Madonna degli Afflitti, quando avvenne il terremoto: i più vicini alla porta cercarono scampo nella fuga, ma trentaquattro di essi rimasero schiacciati sotto la facciata che precipitava con orrendo fracasso. I superstiti e i feriti, forse più sventurati dei morti, son ora sparsi intorno al diruto paese, tremanti pel freddo, affamati, pieni di cordoglio e di raccapriccio. Ma in quel paese v’è un eroe, il vicesegretario comunale Marafioti: egli passò la notte brancolando sui ruderi, chiamando a nome coloro che supponeva sepolti, parecchi svincolando dalla stretta mortale, e continuò l’opera salvatrice pure quand’ebbe rinvenuti fra i cadaveri due suoi fratelli ed una sorella adorata!».

Infine Sant’Eufemia, il caro paese natio:
«Sant’Eufemia è distrutta. Un’ansia affannosa deprime l’energia dei superstiti, erranti per le campagne, senza lavoro, senza cibo, mentre le piogge cadono dirotte e la neve già si affaccia dai culmini dell’Aspromonte. Addio, mia povera e cara dolce casetta nativa! Quando mio nonno ti fece costruire e mio padre ingrandire, quando io bambino tornava di scuola a ricevere in te il premio d’un bacio materno, eri tanto lieta e graziosa che non avrei sognato mai di doverti un giorno rimirare in così misero stato. Il mio piccolo nido sembra oggi un sepolcro abbandonato; ed i muri esterni incombono sovr’esso come scheletri minacciosi o crollanti».

Sant’Eufemia non sarebbe più stata la stessa. Nel terreno denominato “Pezza Grande” fu infatti costruito un baraccamento che ospitava circa 200 famiglie. Si trattava del nucleo originario del rione che si sarebbe ulteriormente sviluppato dopo il terremoto del 1908 e che avrebbe determinato l’attuale assetto urbano, caratterizzato tra tre grandi aree: Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), Petto e Pezzagrande.

*Testo integrale della lettera, datata 10 dicembre 1894, in «Fata Morgana», Pei danneggiati del terremoto in Calabria e Sicilia, (a cura di Ettore Ximenes e Giuseppe Mantica), febbraio 1895, pp. 76-78.

**Link utili su questo blog:
Sant’Eufemia d’Aspromonte e il terremoto del 16 novembre 1894.
Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici.

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Elezioni Europee – Sant’Eufemia d’Aspromonte: i risultati delle liste e dei singoli candidati

Votanti: 1211 (32,02%)

Schede bianche 14 (1,15%)
Schede nulle 32 (2,64%)
Voti attribuiti alle liste:
Forza Italia 335 (28,41%)
Lega Salvini Premier 277 (23,49%)
Movimento 5 Stelle 234 (19,84%)
Partito Democratico 168 (14,25%)
Fratelli d’Italia 105 (8,9%)
Partito Comunista 12 (1,01%)
La Sinistra 9 (0,76%)
+ Europa 8 (0,67%)
Federazione dei verdi 7 (0,59%)
Popolo della Famiglia 4 (0,03%)
Partito animalista italiano 2 (0,17%)
Partito Pirata 1 (0,08%)
Destre Unite-Casa Pound Aemn 1 (0,08%)
Popolari per l’Italia 1 (0,08%)
Preferenze assegnate ai candidati dei partiti
che hanno superato lo sbarramento elettorale:
FORZA ITALIA: Lorenzo Cesa (191), Giuseppe
Pedà (51), Alessandra Mussolini (29), Giorgio Magliocca (29), Silvio Berlusconi
(27), Fulvio Martusciello (26), Beatrice De Donato (20), Caligiuri Fulvia
Michela (14), Barbara Matera (1), Aldo Patriciello (1), Antonietta Pecchia (1);
LEGA: Andrea Caroppo (73), Matteo Salvini
(56), Ilaria Antelmi (46), Giancarlo Cerrelli (33), Vincenzo Sofo (28), Massimo
Casanova (11), Francesca Anastasia Porpiglia (8), Aurelio Tommasetti (1);
MOVIMENTO 5 STELLE: Laura Ferrara (148),
Piernicola Pedicini (6), Chiara Maria Gemma (5), Rosa D’Amato (4), Isabella
Adinolfi (2), Mario Furore (2), Vito Avallone (2), Mariano Peluso (1), Enrico Farina
(1), Danilo Della Valle (1), Antimina Di Matteo (1);
PARTITO DEMOCRATICO: Massimo Paolucci
(96), Lucia Anita Nucera (66), Andrea Cozzolino (22), Elena Gentile (17),
Nicola Caputo (13), Francesco Antonio Iacucci 7, Gerarta Ballo (2), Franco
Roberti (1);
FRATELLI D’ITALIA: Denis Domenico Nesci
(33), Caio Giulio Cesare Mussolini (29), Stella Mele (26), Giorgia Meloni (23),
Rosario Achille Aversa (14), Carmela Rescigno (12), Raffaele Fitto (10),
Lucrezia Vinci (5).
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Una favola di Pinocchio molto speciale

«Bravo, Pinocchio!» è stato un incontro generazionale che ha visto protagonisti i bambini della Scuola dell’infanzia cattolica “Padre Annibale” e gli ospiti della Residenza sanitaria per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”.
Sono stati loro infatti ad interpretare i personaggi della celebre favola di Collodi e sono stati bravissimi.
Gli operatori della Rsa e il personale della scuola hanno preparato gli attori e curato la messa in scena; i volontari dell’Agape hanno invece fatto da voci narranti.
Un pomeriggio particolare, che ha suscitato nei presenti forti emozioni, ribadendo inoltre quanto sia importante la sinergia tra le varie realtà che operano nel nostro territorio.








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Il ricordo degli alpini eufemiesi della grande guerra nel centenario della costituzione dell’ANA

Sull’epopea degli alpini in guerra sono stati versati fiumi d’inchiostro. Emblematico il titolo dato da Paolo Monelli al suo libro di memorie sulla grande guerra (Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino), con l’accostamento tra muli e soldati che fa riecheggiare il “tasi e tira” legge del dovere di ogni alpino. E poi Mario Rigoni Stern, con la sua vasta produzione di racconti ed il capolavoro Il sergente nella neve, autobiografica narrazione della tragica ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale, tema affrontato – tra gli altri – anche da Giulio Bedeschi in Centomila gavette di ghiaccio: «Gli alpini arrivano a piedi/ là dove giunge soltanto/ la fede alata», i versi che il “poeta” Pilòn dedica alla conclusione dell’odissea dei soldati italiani sul Don.
Ma la leggenda degli alpini continua ad alimentarsi nel servizio di protezione civile svolto in occasione di calamità naturali, come è accaduto nei sismi e nelle tragedie ambientali più recenti.
Essi rappresentano uno dei simboli identitari più forti della nazione italiana, come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio inviato all’Associazione Nazionale Alpini, che oggi concludeva a Milano la tre giorni di “Adunata del Centenario”: «Le Penne nere identificano una lunga e nobile tradizione di coraggio, sacrificio e dedizione incondizionata a servizio della nostra comunità, nel segno di una profonda e convinta affermazione della indivisibile identità nazionale e della solidarietà che affratella ovunque le genti di montagna».
Tra le genti di montagna con il cappello dalla penna nera, chiamate a difendere i confini della patria nella grande guerra, più di trenta furono valorosi soldati di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Anche per loro vale “La canzone alpina” del capitano Barbier, della quale qui si riportano le prime due strofe:

D’Italia siamo i forti e valorosi Alpin 
nel cuore abbiam l’ardor di sana gioventù 
Nostro è l’onor di vigilare sui confin 
e tal dover compiam con fede e con virtù. 


Dove il nemico dall’Alpi tenta di guardar 
pronto è l’accorrer nostro sempre forte in massa 
«Di qui non si passa, di qui non si passa!» 
da noi sente gridar! 

Sul totale di 88 eufemiesi caduti, quattro appartenevano a reparti alpini: di Giuseppe Amuso (classe 1897), che morì nella disfatta di Caporetto, non fu mai trovato il corpo. In ospedale, per malattia, morirono invece i due ragazzi del ’99 Sebastiano Denaro e Agostino Fava, rispettivamente a Messina e ad Aosta. Mentre Francesco Larizza (1885) “versò il suo sangue per la grandezza della Patria” sul Monte Fior (Asiago), dove “rimase ucciso da proiettile nemico”.
Cinque i feriti in combattimento: Francesco Caruso nel 1916; Gaetano Cammarere, diciannove anni non ancora compiuti quando prese parte ai combattimenti fra la Val Brenta e il Piave di dicembre 1917; Rosario Panuccio e Vincenzo Conte sul Monte Vodice, nel corso della Decima battaglia dell’Isonzo; Rocco Fedele sull’altopiano di Asiago.
Quattro caddero prigionieri del nemico: Vincenzo Conte nella Seconda battaglia delle “Melette”, Cosmo Luppino a Monte Fior, Cosmo Viviani sull’Ortigara, Vincenzo Larizza nella ritirata di Caporetto.
Tutti patirono la rigidità degli inverni di guerra sulle montagne: febbri, bronchiti, polmoniti ed altre patologie legate al freddo erano all’ordine del giorno; ma Antonino Carlo sull’altopiano di Asiago e Francesco Villari, sul Monte Pasubio, subirono anche il congelamento dei piedi.
Due penne nere eufemiesi furono infine decorate per meriti speciali. A Giuseppe Criaco (1896) fu assegnata la medaglia di bronzo al valor militare: «Sia durante la postazione di perforatrice in zona battutissima dal nemico, sia durante il recupero di abbondante materiale di perforazione rimasto sotto il violento e preciso fuoco dell’artiglieria e fucileria avversaria dava prova di sangue freddo e valida cooperazione dei dipendenti (Costone Bocche-Pederobba, aprile-novembre 1917)». Antonino Tripodi (1899) fu invece insignito della medaglia di bronzo al valore civile: «In occasione di una inondazione provocata dalla piena dell’Isonzo avventuravasi con altri animosi militari tra le acque turbinanti e profonde per recare soccorso a 7 persone in procinto di affogare, dopo faticosi sforzi riusciva a trarre in salvo 5 dei pericolanti».

*Foto tratta dal sito dell’Associazione Nazionale Alpini: www.ana.it

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