La profezia di Paolino Visalli

Ascoltata la sentenza del tribunale che lo condannava a diciannove anni di prigione, il 20 settembre 1852 Paolino Visalli avrebbe pronunciato le celebri parole: «Per me bastano diciannove giorni; lascio ai miei giudici il resto della pena».
Nel libro Vitaliano Visalli ed i suoi figli (1790-1860), Luigi Visalli ricostruì nel 1935 le vicende che interessarono la sua famiglia in epoca risorgimentale. Dopo il fallimento dei moti del 1848 e lo sbandamento del comitato reggino che aveva il quartier generale nei “Piani della Corona”, dove era di stanza la Terza divisione dell’esercito calabro-siculo guidata dall’eufemiese Ferdinando De Angelis Grimaldi, sugli insorti si abbatté la scure della repressione borbonica, che si tradusse in condanne pesantissime. Eccessive se si considerano contestazioni quali “avere insultato il ritratto del sovrano”, oppure essere stati trovati in possesso di un fazzoletto simile a quello dei “repubblicani”.
La famiglia Visalli, sulla scorta di accuse fumose (“discorsi contro la Monarchia regnante”) fu decimata. Vitaliano morì latitante, i figli Ottaviano (padre dello storico Vittorio) e Paolino furono condannati a diciannove anni, il figlio minorenne Vincenzo a sette. Nelle rivoluzioni e nelle controrivoluzioni accade non di rado che sotto il manto degli ideali sbandierati si nascondano, in realtà, questioni personali e private. Non sfuggivano a tale logica le accuse contro Vitaliano Visalli, probabilmente inviso a parte della popolazione eufemiese per il suo ruolo di esattore comunale. Un episodio inquietante, d’altronde, si era verificato il 13 maggio 1848, giorno in cui il sindaco Antonino Lupini era stato deposto da rivoltosi che avevano occupato il municipio alla ricerca dei registri della fondiaria, da distruggere per cancellare i titoli giuridici che giustificavano la ricchezza dei proprietari terrieri. Venuti a sapere che i registri erano custoditi da Vitaliano Visalli, i ribelli avevano addirittura tentato di incendiarne l’abitazione, prima di essere messi in fuga dalle guardie nazionali. Organizzatore di quel tumulto era stato un certo Agostino Calabrò, “sinistro ceffo di malvivente, […] pignorato per mancato pagamento delle imposte”, che nel 1850 fu l’istigatore della denuncia presentata contro i Visalli da tale Pasquale Tripodi.
Paolino era inoltre accusato di avere portato il cappello “all’italiana” (“guarnito di penna e di nastro tricolore”), altrimenti noto come cappello “alla Ernani”, dal nome del protagonista dell’omonima opera di Giuseppe Verdi. Indossato dai patrioti risorgimentali come simbolo dell’aspirazione alla libertà e all’unità della patria, il copricapo trovò più tardi la consacrazione nel quadro “Il bacio”, del pittore Francesco Hayez (1859).
E pittore era lo stesso Paolino, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1824 e trasferitosi a Napoli nel giugno del 1846 per frequentare la scuola di Giuseppe Cammarano, esponente della pittura neoclassica partenopea, presso la quale si era formato il fratello Rocco, prematuramente scomparso a soli ventitré anni nel 1845 e autore delle opere “San Francesco” e “Santa Filomena”, conservate oggi nella chiesa delle Anime del Purgatorio a Sant’Eufemia.
In seguito al peggioramento delle condizioni di salute del fratello maggiore Francesco, nell’ottobre del 1847 Paolino Visalli era rientrato in paese e vi era rimasto per quasi tre anni prima di ritornare a Napoli, nel tentativo di sfuggire alla reazione borbonica. Tra la fine del 1850 e l’inizio del 1852 – scrive Luigi Visalli – realizzò una cinquantina d’opere, quasi tutte andate distrutte nel terremoto del 1908.
La sua prolifica attività pittorica fu bruscamente interrotta il 16 febbraio 1852. Arrestato, fu tradotto a Reggio Calabria presso il carcere di San Francesco (l’ex convento dei frati minimi, oggi sede del tribunale per i minorenni), dove il successivo 20 settembre accolse la sentenza di condanna.
Sugli ultimi giorni di vita di Paolino Visalli, che soffriva di gravi problemi di salute, drammatica è la testimonianza recuperata dallo storico Francesco Arillotta tra le annotazioni del diario segreto del sacerdote don Francesco Pontari, nello stesso periodo ristretto a San Francesco in attesa del processo.
Il 4 ottobre don Pontari sottolineava la crudeltà dei carcerieri nel rigettare la richiesta del “moribondo” Visalli, il quale domandava di incontrare il medico eufemiese Giuseppe Oliverio, anch’egli condannato per i fatti del 1848: «Non gli fu permesso. Al tardi venne il confessore Massara; dietro essersi confessato prega il confessore d’intercedere presso il custode maggiore per il medico, ma non l’ottenne». Il 9 ottobre 1852, poco prima della mezzanotte, Paolino Visalli esalava l’ultimo respiro. Dal giorno della sua condanna erano trascorsi esattamente diciannove giorni.

*In foto, Il bacio (Francesco Hayez, 1859)

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Passeggiata storica/5

La quinta tappa omaggia uno dei più grandi studiosi del Risorgimento calabrese, il cui busto in bronzo fu scoperto il 29 dicembre 1932 all’interno della biblioteca De Nava di Reggio Calabria, dove sono custoditi circa 1500 libri appartenuti a Visalli. L’Archivio di Stato conserva invece i documenti utilizzati dall’illustre eufemiese per scrivere i suoi volumi di storia.

PANNELLO 5: VITTORIO VISALLI

Vittorio Visalli nacque il 15 ottobre 1859 da Ottaviano e Maddalena Imparato. La sua famiglia, coinvolta nei moti del 1848, era stata falcidiata dalla persecuzione borbonica. Il nonno Vitaliano morì braccato dalla polizia di Ferdinando II, lo zio Paolino si spense in carcere, lo zio Vincenzo fu condannato a sette anni di reclusione, il padre Ottaviano fu mandato al confino nell’isola di Ventotene.
Dopo avere conseguito la patente magistrale presso la scuola normale di Reggio, a partire dal 1876 insegnò in diversi istituti della provincia. Nel 1892 ebbe l’incarico di vicedirettore della scuola normale di Messina, dove visse fino al 1908 insieme alla moglie Giuseppina Augimeri e alla figlia Maddalena, entrambe decedute nel terremoto del 1908. Costituì l’associazione “Pro Calabria” e la “Società calabrese di storia patria”. Dal 1909 direttore della scuola normale di Catanzaro, sposò in seconde nozze Maria Mottareale e, nel 1914, fu destinato alla direzione della scuola normale di Tivoli. Negli ultimi anni di insegnamento, tra il 1923 e il 1926, fu preside dell’Istituto magistrale “Maffeo Vegio” di Lodi. Morì a Reggio Calabria il 27 giugno 1931.
Autore di manuali di storia e di geografia adottati in molte scuole del Regno d’Italia, conferenziere prolifico e apprezzato, diede alle stampe numerosi saggi e interventi pubblici. Il suo nome è legato agli studi storici sul Risorgimento calabrese, che approfondì in due volumi fondamentali: I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862; Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848).

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L’eufemiese Ferdinando De Angelis Grimaldi e i moti del 1848

La partecipazione eufemiese ai moti del 1848 è legata indissolubilmente all’opera di Ferdinando De Angelis Grimaldi, figlio di Tommaso e Caterina Violi, nato a Sant’Eufemia il 10 settembre 1787. Già volontario nell’esercito borbonico nei primi anni dell’Ottocento, De Angelis Grimaldi aveva poi proseguito la carriera militare sotto il regno di Giuseppe Bonaparte e con Gioacchino Murat, al servizio del quale il 23 aprile 1815 partecipò alla “battaglia di Radicena e Casalnuovo” contro briganti e borbonici, che si concluse con un bilancio di 53 morti e 150 feriti. Dopo il ritorno dell’ancien régime rientrò tra i ranghi del restaurato esercito borbonico, come attesta la qualifica di “capitano onorario” annotata nell’Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie per l’anno 1819.
Esponente di punta dei liberali moderati a Sant’Eufemia, fu sindaco dal 1837 al 1842, successivamente “capo urbano” e, dal 1848, capo della Guardia nazionale del comune. Nel biennio 1847-1848 svolse un ruolo di primo piano per la causa risorgimentale, attestato dalla corrispondenza con i promotori reggini dei moti, in particolare con i fratelli Romeo di Santo Stefano, dai quali ricevette l’incarico di comporre la cosiddetta “lista di insorgenza”, un elenco di uomini disposti ad unirsi alle squadre degli insorti.
De Angelis Grimaldi si muoveva nell’alveo del riformismo costituzionale borbonico, fautore dell’evoluzione in senso liberale della monarchia di Ferdinando II. Una finalità che niente aveva a che vedere con la jacquerie del 13 maggio 1848, quando a Sant’Eufemia i rivoltosi occuparono il municipio, deposero il sindaco Antonino Lupini e tentarono di dare fuoco ai registri della fondiaria. In quella circostanza, fu proprio l’intervento di De Angelis Grimaldi e delle sue guardie urbane a ristabilire l’ordine nello spazio di due giorni.
Il giro di vite imposto dal governo borbonico con il “colpo di stato” del 15 maggio, fece però mutare la natura della rivolta. A Reggio Calabria presero l’iniziativa i fratelli Plutino, Stefano Romeo e Casimiro De Lieto, i quali organizzarono il quartier generale del comitato reggino sui “Piani della Corona”. Il 19 giugno circa 150 insorti furono accolti a Sant’Eufemia da De Angelis Grimaldi, il quale li condusse nei paesi limitrofi per il reclutamento di altri volontari. Il proclama emesso il 24 giugno a Santa Cristina e rivolto ai “Fratelli Calabresi” ribadiva ancora il carattere costituzionale e liberale dell’insurrezione, nel solco del neoguelfismo giobertiano: «Rispettate la religione cristiana, e gridate con voce unanime: vogliam conservata la costituzione, colle modifiche che i nostri rappresentanti saran per fare». Ma, già il giorno dopo, un altro proclama sanciva lo strappo definitivo da Ferdinando II: «È rotto ogni vincolo tra il tiranno e il popolo […]. Il Borbone siede sopra un trono lavato di sangue e i Calabresi questa volta non sono indulgenti come prima ai di lui vantaggi».
La tipografia degli insorti fu allestita a Sant’Eufemia presso l’abitazione dei fratelli Pietro e Paolo Parisi. Alla fine del giro tra i paesi aspromontani, circa 500 volontari costituirono un “Comitato provvisorio di pubblica sicurezza”, presieduto da Casimiro De Lieto: Plutino e Romeo furono nominati segretari, Pasquale Cuzzocrea cassiere; a De Angelis Grimaldi fu invece affidato il comando della Terza divisione dell’esercito calabro-siculo.
Il bollettino diramato il 28 giugno spiegava l’obiettivo dell’insurrezione: «I Deputati qui sottoscritti, tenuta presente la protesta fatta dal Parlamento alli 15 maggio ultimo, ed atteso l’urgente bisogno di tutelare la libertà nazionale contro un governo violatore manifesto dello statuto fondamentale e provocatore dell’anarchia e della guerra civile, han risoluto di riunirsi qui in Sant’Eufemia nella Casa Comunale in Comitato permanente di pubblica sicurezza per la provincia di Reggio Calabria. […] Questo Comitato prende sotto la sua tutela la conservazione dell’ordine pubblico, la sicurezza dei cittadini e della proprietà e il rispetto delle leggi».
Un cannone, armi e munizioni furono trasportate al campo militare. Tuttavia, la compagnia di De Angelis Grimaldi non prese parte ad alcuna operazione, anche perché i rinforzi attesi dalla Sicilia non arrivarono. Gli insorti tentarono di congiungersi con il reparto catanzarese a Monteleone, ma lungo la strada furono avvisati della vittoria borbonica nella battaglia dell’Angitola. De Angelis Grimaldi decise quindi di sciogliere l’accampamento, accompagnò un’ottantina di volontari siciliani a Bagnara per farli da lì imbarcare e infine si diede alla macchia sull’Aspromonte con pochi fedelissimi, tra questi i nipoti Filippo e Saverio. Condannato a morte nel 1849, unico tra i patrioti eufemiesi, riuscì a riparare all’estero: prima a Marsiglia, poi a Mentone. Subirono gravi condanne anche i tre fratelli Visalli: diciannove anni di carcere Paolino e Ottaviano (papà dello storico Vittorio), sette Vincenzo. Una condanna di diciannove anni fu inoltre comminata a Francesco Pentimalli, Pietro e Antonino Parisi. Per tutti gli altri (una trentina), le pene oscillarono tra i tre e i sette anni.
De Angelis Grimaldi rientrò in Italia nel 1862, a processo di unificazione nazionale completato. Nel 1865 fu a un passo dalla candidatura per il Parlamento nazionale, che non si concretizzò nonostante le informazioni positive raccolte dal prefetto di Reggio Calabria. Già vecchio e malato fu invece eletto consigliere comunale a Sant’Eufemia. Morì nella sua abitazione in via Belvedere l’11 agosto 1868, “venerato e compianto”, secondo quanto riportato da Vittorio Visalli nel suo I Calabresi nel Risorgimento italiano.

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Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli

Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, è conosciuto principalmente per le opere I calabresi nel Risorgimento italiano e Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848). Meno noto è invece il lavoro dedicato al ferimento di Giuseppe Garibaldi sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862. Aspromonte, stampato per i “Tipi F. Nicastro” a Messina (1907), è un agile libretto di 74 pagine, suddiviso in nove capitoletti e un’appendice documentaria, che ripercorre il tentativo dell’Eroe dei Due Mondi di marciare su Roma per porre fine al potere temporale dei Papi e consegnare all’Italia la capitale naturale, interrotto tra i pini della località “Forestali” dalle truppe piemontesi del colonnello Emilio Pallavicini.
La particolare circostanza in cui il libro vide la luce induce al sospetto sulla sua reale diffusione e, di conseguenza, notorietà anche tra gli addetti ai lavori. “Una semplice e veritiera narrazione popolare del tentativo garibaldino su Roma” per “aiutare un’opera di alta beneficienza, la costruzione di un Sanatorio per tubercolosi” nel luogo del ferimento: così Visalli presenta il volume. Che non deve avere avuto molta fortuna, se non viene citato neppure dal massimo storico reggino, Gaetano Cingari, a differenza delle altre due pubblicazioni. A recuperare il volume dall’oblio ha però provveduto, nel 1995, l’editore Barbaro di Oppido Mamertina, che ne ha curato la ristampa anastatica. I piccoli editori sono perennemente con l’acqua alla gola, pronti a chiudere da un momento all’altro, né hanno la possibilità di sostenere un elevato battage pubblicitario. Più appassionati di storia e di storie che imprenditori, cercano l’equilibrio tra la quadratura dei conti e l’offerta di un prodotto apprezzabile. Nel caso di Aspromonte, è stata compiuta un’operazione di recupero del patrimonio culturale locale davvero encomiabile.
L’autore segue passo dopo passo Garibaldi e i suoi volontari nella sfortunata impresa, che inizia – è noto – con il consueto giallo all’italiana. C’era, come due anni prima (spedizione dei Mille), un tacito accordo tra il Generale e il governo piemontese? Di certo, nessuno dei protagonisti fece molto per fugare l’ambiguità. Visalli condanna senza appello la “pusillanimità” del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, ma dà anche conto dei tentativi bonari di arrestare la marcia delle camicie rosse, portati avanti da deputati della Sinistra parlamentare, amici e commilitoni di Garibaldi (Nicola Fabrizi, Antonio Mordini, Salvatore Calvino, Giovanni Cadolini). Per la ricostruzione degli avvenimenti, lo storico eufemiese non solo si affida a diverse fonti (biografie e autobiografiche, orali, documentarie), ma le mette anche a confronto, operando un controllo incrociato necessario per distinguere l’agiografia e la retorica risorgimentale dalla verità storica. Viene così sconfessata la tesi di Alberto Mario sul presunto tradimento del sindaco di Melito, accusato ingiustamente di avere indotto Garibaldi a dirigersi sull’Aspromonte perché lì attendevano “patriotti in arme fremebondi e vettovaglia copiosa”. Un falso smentito peraltro dallo stesso Garibaldi, quando ammette di avere egli peccato di “irresoluzione”.
Francesco Guardione, Giulio Adamoli, Piero Mattigana, Giuseppe Guerzoni, Francesco Bideschini, Giacomo Durando, Jessie White Mario, Francesco Bertolini, Celestino Bianchi, Enrico Albanese, Salvatore Calvino, Giuseppe Romano Catania, Alberto Mario: testimoni che hanno tramandato nelle rispettive memorie l’epopea garibaldina (non solo i fatti d’Aspromonte), essendone stati protagonisti diretti. E poi lettere e documenti ufficiali, riportati in appendice, ma anche testimonianze orali, come quella di Francesco Melari, ufficiale medico garibaldino. Il libro si chiude con la caduta del gabinetto Rattazzi e l’amnistia concessa da Vittorio Emanuele II in occasione delle nozze tra la principessa Maria Pia e Luigi I di Braganza, re del Portogallo. Sullo sfondo, un Garibaldi eroe romantico, al quale va la simpatia dell’autore, che si sta ristabilendo dalla ferita e, seppure sconfitto, “riconsacra nel sangue” l’ineluttabilità e “la necessità di Roma italiana”.

Le spoglie di Visalli riposano al cimitero di Gioia Tauro. Sul marmo, l’epigrafe scritta dal fratello Luigi: “Qui fra i suoi riposa/ Vittorio Visalli/ figlio e nepote di Patriotti/ educatore degli educatori/ di varie generazioni/ che il glorioso passato/ di fede di azione e di martirio/ del popolo calabrese/ sottrasse a le ombre dell’oblio/ affidandolo a luce dei secoli MDCCCLIX–MCMXXXI”.

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Convegno sull’Unità d’Italia

In collaborazione con l’Istituto superiore “Enrico Fermi” di Bagnara Calabra, l’associazione “Terzo Millennio” ha organizzato un convegno che si svolgerà domenica 20 marzo alle 17.00, presso il teatro della scuola media “Vittorio Visalli”: 1861-2011. Risorgimento nazionale e Risorgimento locale nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Introdurranno i lavori Francesco Luppino, presidente dell’associazione e coordinatore dell’iniziativa, e Angela Maria Palazzolo, dirigente scolastico dell’Istituto “Fermi”. Seguiranno poi i saluti delle autorità: il sindaco di Sant’Eufemia, Vincenzo Saccà; il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Sant’Eufemia, Giuseppe Gelardi; il coordinatore dell’ambito territoriale del Miur per Reggio Calabria, Vincenzo Geria; il consigliere provinciale Carmine Alvaro; il consigliere regionale Luigi Fedele. Quindi, avrà inizio il convegno vero e proprio, moderato da Rosario Monterosso, professore di Storia e Filosofia legato a Sant’Eufemia dai tanti anni di insegnamento nel locale liceo. Il primo intervento sarà “Il Risorgimento e la parola. L’identità nel linguaggio dell’altro”, di Francesco Idotta, professore di Storia e Filosofia al “Fermi”. Seguirà la mia riflessione su “Accentramento o decentramento? L’unificazione amministrativa dello Stato”; quindi, “Vittorio Visalli e il Risorgimento in Sant’Eufemia d’Aspromonte”, di Carmela Cutrì, professoressa di lettere al “Fermi”; infine, la relazione di Giuseppe Caridi, professore ordinario di Storia moderna all’Università di Messina e presidente della Deputazione di storia patria: “Il Risorgimento a Reggio e in Calabria”. È previsto inoltre un intermezzo musicale, eseguito dal soprano Giuseppina Violani, dal maestro di violino Francesco Russo e dalla professoressa di pianoforte Melania Scappatura.
La celebrazione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia può aiutare a riscoprire il valore dell’identità nazionale che le risse quotidiane dell’ultimo ventennio hanno parecchio infiacchito. Ma rappresenta anche un’occasione unica per portare alla luce fatti e circostanze del Risorgimento locale purtroppo noti soltanto a pochi appassionati, e che invece meriterebbero una più ampia divulgazione.
A volte sembra che il nostro paese non abbia storia, ma basterebbe soltanto uno studio della toponomastica eufemiese per capire da dove veniamo, cosa siamo stati e quanto abbiamo amato la libertà. Carlo Muscari, uno dei 15 calabresi giustiziati in piazza Mercato a Napoli il 6 marzo 1800, alla caduta del Repubblica Napoletana; Ferdinando De Angelis Grimaldi, comandante della Terza divisone siculo-calabra durante i moti del 1848, condannato a morte dal tribunale borbonico; Francesco Pentimalli, condannato a 19 anni per gli stessi avvenimenti. Tre grandi eufemiesi, tre vie, ma anche tre martiri della libertà pressoché sconosciuti. Così come la trentina di condannati a pene dai tre ai diciannove anni per i moti risorgimentali che non sono ricordati neanche con una minuscola lapide.
Il fatto che nessuno ci abbia mai pensato non è un buon segnale. Le belle pagine della nostra storia andrebbero ricordate, ma per coltivare la memoria e avvicinare le giovani generazioni allo studio delle proprie radici occorre anche l’impegno delle istituzioni. La realizzazione di un archivio storico comunale, tanto per fare un esempio concreto, consentirebbe la consultazione di moltissimi documenti (altrimenti visionabili soltanto presso l’archivio di Stato di Reggio Calabria) che sono “custoditi” anche nel nostro comune, sepolti sotto la polvere negli scantinati del palazzo municipale.

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