Leggo con piacere che ieri l’Associazione culturale “Aspromonte”, per iniziativa del presidente Massimiliano Rositano, ha protocollato al comune la richiesta di intitolare una piazza di Sant’Eufemia al medico condotto Giuseppe Chirico, per tutti “Don Pepè”: nello specifico, la piazza attualmente dedicata a don Giovanni Minzoni nel rione Paese Vecchio.
Come sa bene chi segue “Messaggi nella bottiglia”, più volte io stesso ho avanzato la proposta di omaggiare la memoria di questo nostro illustre concittadino. Della valorizzazione della figura professionale e umana del dottore Chirico mi sono occupato per la prima volta nel 2001, come autore del testo per il documentario biografico realizzato dalla Pro Loco, in occasione dell’assegnazione (“alla memoria”) del “Premio Solidarietà – Ginestra”. In qualità di consigliere comunale di minoranza, il 16 ottobre 2017 ho proposto l’istituzione di una commissione toponomastica, per la quale con delibera C.C. 42/2017 del 27 novembre 2017 è stato approvato il regolamento. Il 27 giugno 2018 ho poi protocollato la proposta di intitolazione della pineta comunale a Giuseppe Chirico (con allegata la relazione richiesta ai sensi dell’art. 9, comma 3).
Nel mio ultimo libro ho dedicato un paragrafo alla biografia di Giuseppe Chirico, che considero tra i migliori figli di Sant’Eufemia, mentre in ultimo, il 24 agosto 2023, ho indirizzato all’attuale sindaco Pietro Violi una lettera aperta, nella quale riprendevo la mia vecchia proposta e allargavo il ventaglio delle possibilità aggiungendo alla pineta comunale altri due spazi pubblici: la piazzetta accanto al monumento dei caduti, attualmente priva di denominazione, oppure – ipotesi molto suggestiva – uno dei due lati in cui corso Umberto I divide piazza don Minzoni, laddove si svolgevano le passeggiate serali del dottore Chirico, rievocate dal professore Giuseppe Calarco proprio nel documentario realizzato dalla Pro Loco.
Personalmente concordo con la posizione della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, che è contraria alla sostituzione dei nomi di piazze e vie, per cui propenderei per l’ultima opzione, che non comporterebbe la cancellazione del vecchio toponimo.
Va anche detto che, nel 2002, al dottore Chirico era stato intitolato il Centro semiresidenziale di riabilitazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che ha chiuso i battenti nel 2016. Tuttavia, negli stessi locali dovrebbe prossimamente sorgere una casa di comunità, da realizzare con i fondi del Pnrr assegnati alla provincia di Reggio Calabria. Al momento non sappiamo cosa ne sarà della denominazione: se cioè sarà mantenuto anche dalla nuova struttura. Ad ogni modo, tutte le alternative elencate mi sembrano valide e meritevoli di essere sottoposte all’attenzione dei nostri amministratori.
14 maggio 1976: il giorno in cui Sant’Eufemia uscì da un incubo
Il 14 maggio 1976 segnò per Sant’Eufemia il risveglio da un incubo, condensato nelle lacrime di una donna inginocchiata in mezzo alla strada: «La Madonna ha fatto il miracolo. Il nostro medico è ritornato a casa sano e salvo». Dopo 77 giorni veniva restituito agli affetti familiari e alla comunità eufemiese il medico condotto Giuseppe Chirico (1915-1995), che all’alba era stato rilasciato dai sequestratori lungo la strada provinciale tra i Piani di Carmelia e l’abitato di Delianuova. Alle sette di mattina una folla immensa abbracciò “Don Pepè”, appena sceso dall’auto dei carabinieri che lo aveva riaccompagnato a casa.
Ho scritto di Giuseppe Chirico in diverse occasioni e mi onoro di avere curato il testo del documentario realizzato nel 2001 dalla Pro Loco eufemiese, per l’assegnazione “alla memoria” del Premio Solidarietà “Ginestra”. Don Pepè è tra le personalità più amate nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Per l’umiltà, l’umanità e il senso del dovere: qualità proprie di chi fa della professione una missione al servizio della collettività.
È stato pertanto per me naturale riservare a Chirico un paragrafo del libro Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, integrando il materiale documentario già in mio possesso con i servizi giornalistici realizzati per la Gazzetta del Sud da Giuseppe Toscano e Luigi Malafarina (che lo intervistò “a caldo”, subito dopo il rilascio), ma soprattutto raccogliendo l’inedita testimonianza del figlio Gaetano sui tragici giorni del sequestro e sul rapporto d’amore del padre con i suoi concittadini: «Mi portava spesso da piccolo con sé alle visite a domicilio con la sua mitica Fiat 500 bianca. Lì mi accorgevo dell’affetto e del calore di cui veniva circondato dai suoi pazienti e dai familiari, affetto da lui ricambiato».
Proprio per questo, il rapimento provocò uno shock collettivo. Un tradimento, una intollerabile vigliaccata contro un uomo e un professionista esemplare che non conosceva orari di lavoro, “reperibile” giorno e notte, come ricorda il suo amico professore Giuseppe Calarco nel documentario: «Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere». E infatti, quando la banda dei sequestratori entrò in azione (intorno alle ore 21 del 27 febbraio), Don Pepè stava effettuando il consueto giro serale, con in tasca qualche caramella da offrire ai bambini da visitare a domicilio.
«Guardate come hanno ridotto il nostro medico», urlò un’altra donna vedendo Don Pepè con la barba lunga e incerto nei passi, a causa dei due mesi e mezzo trascorsi per lo più bendato e legato ad una catena. Un’immagine che ancora oggi commuove, al pari dell’intervento del professore Luigi Crea in occasione del conferimento al dottore Chirico del “Premio Sant’Ambrogio” (dicembre 1990): «Sono tanti quelli di cui Lei ha ascoltato il primo vagito e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli a cui Lei ha donato la salute del corpo, contribuendo così anche a rendere l’animo più sereno e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli che hanno aspettato con ansia il Suo arrivo nella loro casa, sentendosi confortati dalla Sua sola presenza, e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli che, in momento di difficoltà materiale e spirituale, si sono rivolti a Lei sicuri di essere ascoltati e capiti e che adesso La ringraziano; sono stati tanti quelli che, prima di chiudere gli occhi alla vita terrena, L’hanno ringraziata, rasserenati dall’amorosa e quasi paterna Sua presenza al loro capezzale. Sembra quasi che anche le case, le strade, gli angoli dei rioni, abituati da sempre a vedere la Sua figura girare instancabilmente in ogni momento del giorno e della notte, vogliano unirsi a noi in questo momento per esprimere il loro grazie. […] Non possiamo però prima non chiederle scusa se in questi cinquant’anni, a volte, non Le abbiamo usato il rispetto che Lei meritava. Soprattutto vogliamo chiederLe scusa per quei vergognosi settantasette giorni che tutti noi cittadini non abbiamo saputo evitarLe. Nei momenti di riflessione e di ricordi, quando persone, avvenimenti Le scorreranno davanti agli occhi, facendoLe rivivere la Sua vita passata, non si fermi, Dottore, su quei tristi giorni, quanto piuttosto sulla gioia che invase tutto il paese per il suo ritorno a casa».
Un paese dormitorio
Provate a fare un giro per le strade del paese anche soltanto dopo le 21.00, non a mezzanotte. Un deserto. Incrocerete qualche rara macchina, a volte neanche quella. A me mette tristezza questo lento spegnersi di candela. Nell’ultimo decennio Sant’Eufemia ha avuto un crollo, è inutile girarci attorno. Come una persona anziana che di colpo si sveglia pieno di acciacchi e, a un certo punto, si lascia andare. I segnali c’erano già, anche prima di dieci anni fa. Perché l’emorragia di giovani prima o poi la paghi in termini di vitalità, di voglia di cambiare le cose, di spirito combattivo. Di dire: «Ci provo, comunque vada ci provo».
Si vive rannicchiati sulle proprie piccole certezze, che danno un minimo di tranquillità a chi le possiede. Ma per lo più si sopravvive, in tutti i sensi. Non è soltanto questione di economia, anche se i soldi sono oggi purtroppo al vertice della scala dei valori. È proprio apatia, come se niente potesse avere importanza al di là del proprio superbo deretano. Un paese rassegnato al declino, che ha subito una sorta di mutazione genetica. Che si indigna poco o niente, che ha fatto del quieto vivere la propria filosofia di vita. E che aspetta a bocca aperta. «Chi me lo fa fare?»: tutto ruota attorno a queste cinque miserabili parole. Non eravamo così. No, non eravamo così. Timidi, impauriti, servili.
E mentre una sorta di mutazione genetica sta stravolgendo il nostro stesso carattere, la nave affonda. Non basta ordinare all’orchestra di continuare a suonare. La nave affonda e là sopra ci stiamo più o meno tutti.
A Sant’Eufemia c’erano due filiali di banca: chiuse entrambe. Il centro di riabilitazione “Chirico” dava lavoro e forniva un servizio di assistenza fondamentale per i disabili del comprensorio: chiuso. L’associazione turistica Pro loco, dopo vent’anni, ha chiuso i battenti, preceduta dall’associazione culturale Sant’Ambrogio. Non ci è rimasta nemmeno la squadra di calcio, sparita; mentre il tennis aveva tirato le cuoia già da tempo. Ogni tanto ne ricordano funzione e gloria qualche lavoro di ristrutturazione del campo sportivo o la ritinteggiatura di quello da tennis, dovesse un giorno succedere un miracolo. Per chi crede nei miracoli.
Ricordi di un passato che sembra lontanissimo, mentre dietro gli scuri di questo moderno e triste dormitorio ognuno coltiva la propria solitudine.
Sant'Eufemia oggi
Magari è soltanto una mia impressione, una percezione temporanea destinata a svanire con le nuvole dei pensieri tristi. Forse è proprio così, vorrei che fosse così. Una visione amara dovuta ai cicli naturali della vita, che portano via figure di riferimento per un’intera comunità mentre l’orizzonte appare confuso: tempo di mezzo, tra un’epoca che sta per finire e un’altra che stenta ad iniziare.
Mi chiedo come sarà domani, se ci saranno giovani pronti a raccogliere il testimone e a proseguire il cammino dei tanti che ci hanno preceduto. Avverto una malinconica sensazione di riflusso, di ripiegamento su se stessi. Come se la visione d’insieme non conti nella formazione e nell’esaltazione dell’anima di un paese. Come se trama e ordito non abbiano bisogno di tenersi stretti per dare vita a un tessuto. Quel tessuto sociale oggi sempre più sfilacciato, debole.
Non si fa un buon servizio se si dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non si è onesti con gli altri, né con se stessi. Sant’Eufemia si sta impoverendo, nonostante la caparbia di quanti si oppongono a un declino che è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta di politica, no. Quello semmai è l’effetto, non la causa. Le ragioni sono più profonde, strutturali: è un declino figlio della congiuntura storica contemporanea, della crisi economica ed etica che scava la roccia, giorno dopo giorno.
Un paese impoverito dai troppi salassi dell’emigrazione, chiuso anche fisicamente: che non prende aria, che non respira, che non vola. Negli ultimi anni sono scomparse associazioni storiche: l’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, anni fa; la Pro Loco, più di recente. Neanche la squadra di calcio esiste più. C’è l’isola felice del “Terzo Millennio”, ma è un’eccezione: una vitale eccezione. Il resto è fatica e caparbia di chi non vuole arrendersi, encomiabili e da incoraggiare. Ma il pluralismo associazionistico è ricchezza e carburante prezioso per la crescita culturale e sociale di una comunità, anche quando mostra la faccia della sana competizione.
Il liceo scientifico ad ogni inizio di anno scolastico fatica a comporre la prima classe: e fortuna che ancora ci soccorrono i paesi vicini. I nostri figli sono per lo più fuori. Le strade e le piazze deserte sono una pugnalata al cuore, il certificato di morte che accomuna i piccoli centri interni dell’Aspromonte.
Non ho la soluzione in tasca: osservo, considero. Nel mio piccolo cerco di fare il mio “pezzettino”, come altri, perché aveva ragione Robert Kennedy: «Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione».
Credo che si dovrebbe cercare di amare un po’ di più il proprio paese (tutti: chi ci vive, chi ci torna ogni tanto, chi guarda da lontano). Chissà che non sia questo l’antidoto giusto.
Don Pepè Chirico, il medico che aveva una parola di conforto per tutti
«Eccolo, è arrivato don Pepè». Poche parole che riuscivano a infondere speranza, non appena il medico condotto Giuseppe Chirico metteva piede dentro la casa di un ammalato a Sant’Eufemia. Lo ricorda il professore Giuseppe Calarco nella testimonianza rilasciata per un documentario biografico realizzato dalla Pro Loco nel 2001: «Aveva sempre una parola di conforto e la sua presenza al capezzale dell’ammalato trasmetteva serenità, tanto incideva la sua personalità. Don Pepè non era “un” medico, ma “il” medico: sempre pronto ad ascoltare, consigliare, infondere fiducia. Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere. Questo era il dottore Chirico».
La stima dei suoi concittadini è totale: a lui vengono confidate anche le preoccupazioni di chi, nel secondo dopoguerra, spesso fatica a guadagnare un pranzo dignitoso. Braccianti agricoli, pastori, gente in cerca di una jornata, piccoli artigiani che vivono dell’essenziale: un’umanità a volte dolente, piegata dagli stenti e dalla fatica del duro lavoro, dalle cattive condizioni igieniche delle proprie misere abitazioni, dal dolore causato in quasi tutte le famiglie dall’elevatissimo indice di mortalità infantile. Don Pepè ascolta, consola, consiglia. Una lezione di vita appresa nel negozio di cereali all’ingrosso che i genitori – Gaetano e Maria Domenica Barilà – gestivano nel rione Paese Vecchio, dove Giuseppe Chirico nasce il 16 ottobre 1915, primo di cinque fratelli (quattro maschi e una femmina).
Conclusi gli studi ginnasiali a Palmi e conseguito il diploma di maturità classica presso l’Istituto “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, si iscrive alla Regia Università di Messina e si laurea in Medicina nel giugno del 1940. È destinato a raccogliere il testimone dello zio Stefano, medico condotto del paese sin dalla fine dell’Ottocento, ma con l’entrata in guerra dell’Italia viene inviato in Croazia, dove trascorre gli anni del conflitto prima come tenente, successivamente come capitano medico. Un’esperienza forte e dolorosa, che ne segna il carattere.
Alla fine della guerra rientra a Sant’Eufemia e finalmente può incominciare a dedicarsi alla cura dei propri concittadini. Lo fa a qualsiasi ora del giorno e della notte, con un senso di umanità fuori dal comune. Per quarant’anni la sua è una missione al servizio di tutti: non c’è porta che non sia stata varcata dalla sua esile figura, nella destra l’inseparabile borsa in pelle. Professionista serio e preparato, uomo onesto e dalla profonda rettitudine morale, per il dottore Chirico l’affetto e il rispetto degli eufemiesi assumono le caratteristiche della devozione.
Proprio per questo l’intera comunità rimane sconvolta quando, il 21 febbraio 1976, don Pepè viene rapito mentre sta rientrando dalla visita a un suo paziente. Sant’Eufemia vive settantasette lunghissimi giorni di angoscia, stretta attorno alla moglie ed ai tre figli del “suo” medico. Ma la rabbia e la preoccupazione della popolazione si sciolgono infine in un’esplosione di gioia collettiva, alla notizia del rilascio. Un fiume di persone si riversa nelle strade e accorre commossa sotto la sua abitazione, fino a quando Chirico non si affaccia dal balcone per ricambiare il calore di una folla immensa e per assicurare a tutti che “la nottata è passata”: «È stato un brutto sogno», dichiara al giornalista che ne raccoglie la prima dichiarazione.
La sua missione al servizio del paese riprende con maggiore slancio. Una missione che prosegue anche dopo il pensionamento, per i tanti concittadini che chiedono ugualmente di essere visitati da don Pepè. Dal 3 maggio 1995 – data della sua morte – sono trascorsi oltre vent’anni, ma tra la gente che lo ha così tanto amato è ancora vivo il ricordo dell’uomo e del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli migliori di Sant’Eufemia.
Don Pepè
Nel 2001 l’Associazione Turistica Pro-Loco di Sant’Eufemia d’Aspromonte decise di assegnare al dottore Giuseppe Chirico, ad memoriam, il tradizionale “Premio Solidarietà – Ginestra”. In quell’occasione ebbi l’onore di contribuire, come autore del testo per la voce narrante, alla realizzazione di un documentario che ripercorreva la vita di “Don Pepè”, amatissimo medico condotto venuto a mancare il 3 maggio 1995: l’infanzia negli anni della ricostruzione dopo il terremoto del 1908, gli studi universitari, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, i decenni di “missione” al servizio dei suoi concittadini eufemiesi e i dolorosissimi settantasette giorni di sequestro di persona patiti nel 1976.
Di quel lavoro, fino ad oggi, esistevano poche copie in VHS: per questa ragione ho ritenuto utile convertire il video in un formato adatto alla visione con i moderni supporti tecnologici, che offrono inoltre la possibilità di una sua più ampia diffusione.
La qualità delle immagini in alcuni tratti non è eccellente, tuttavia spero di fare cosa gradita agli appassionati di storia locale e a coloro che hanno conosciuto e amato “Don Pepè”, personalità illustre da annoverare tra i figli migliori di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Che succede alla Pro Loco?
Stamattina la Gazzetta del Sud titolava: “Caos alla Pro Loco, presidente pronto a gettare la spugna”. Ho letto l’articolo con interesse: di questa associazione sono stato socio fondatore nel 1997 e membro del consiglio direttivo per quasi un decennio, dopodiché ho ogni anno rinnovato la tessera, pur non partecipando da tempo all’organizzazione di alcun evento. Il mio è più un supporto morale, se vogliamo anche una manifestazione d’affetto per quel che è stato: tra le tante cose belle fatte, mi piace ricordare la realizzazione del documentario “Don Pepè”, che ricostruiva la vita del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli più illustri e amati di Sant’Eufemia.
Parlo soprattutto da eufemiese che non può restare indifferente di fronte alla notizia della crisi di un’associazione del paese. Sono sempre stato dell’avviso che il mondo del volontariato costituisca una preziosa risorsa per i piccoli comuni. Esso va pertanto messo nelle condizioni di operare e svolgere al meglio la propria azione di valorizzazione del patrimonio umano e territoriale del quale è parte integrante. Se un’associazione chiude, siamo tutti più poveri. Da qui la preoccupazione per le dimissioni degli organi elettivi – presidente Rocco Luppino in testa – preannunciate nell’articolo, ma non ancora ufficiali.
Dispiace non aver letto nell’articolo il nome di Eufemia Costanzo. Molto di ciò che la Pro Loco ha fatto in 18 anni di attività porta la sua firma, la firma di una donna che ha sempre dato tutta se stessa per animare il paese, trascinando giovani e meno giovani nelle associazioni per le quali ha operato in 40 anni di encomiabile attività. Attività che è continuata anche in questi ultimi due anni, nonostante cioè la scarsa o nulla collaborazione della Pro Loco e la necessità di inventarsi esternamente ad essa il gruppo di supporto “Insieme per crescere”. La cito soltanto per questo, perché credo che la riconoscenza debba essere un valore e non un rimpianto. Tralascio ovviamente ogni considerazione di natura personale.
Che la Pro Loco abbia negli ultimi anni ridotto le proprie attività è un dato di fatto. Sagra della Patata e davvero pochissimo altro. Ma non sto qui a giudicare. L’esperienza nell’associazionismo mi insegna che ognuno dà quel che può, per come sa, quando ne ha tempo e voglia. Anche se ci sono dei doveri minimi nei confronti dell’associazione della quale si fa parte. Ma lo spirito è quello, altrimenti non sarebbe volontariato. Onestà intellettuale vorrebbe però che chiunque non sia nelle condizioni di “dare” un minimo di contributo si faccia da parte. Le medagliette sul petto non hanno nessun senso.
So che è antipatico parlare di sé, ma è quello che io ho fatto proprio con la Pro Loco otto anni fa, quando mi resi conto che l’associazione per me era diventata un peso. Mi dimisi da segretario, lasciai il campo e mi dedicai alle attività che tuttora svolgo con l’Agape. Perché questo mi rende felice (“e la felicità non è un fatto secondario”), non certo per questioni personali nei confronti di chicchessia.
Voglio sperare che da questa situazione si possa venire fuori. Me lo auguro soprattutto per il paese. Ma serve il coraggio di fare qualche passo indietro. L’attuale direttivo è stato eletto nel 2013, a neanche un anno dalle elezioni comunali. In quella circostanza furono riconfermati presidente Rocco Luppino e vicepresidente Eufemia Costanzo (più Pino Sobrio nel direttivo), mentre un nuovo gruppo – espressione del nuovo corso politico e amministrativo del paese – entrò a far parte del consiglio d’amministrazione. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è il fallimento di un’associazione attiva da quasi un ventennio.
Il peccato originale del direttivo eletto nel 2013, a mio avviso e senza farne una questione di nomi, sta proprio nel tentativo di dare una connotazione “politica” alla Pro Loco. Il corto circuito è scattato per la confusione dei ruoli e perché dovrebbe essere la politica a mettersi sempre al servizio delle associazioni. Non il contrario.