Perché esco dal Partito Democratico

Non bisogna restare in un posto nel quale non si è più felici. Non bisogna restare in un posto nel quale, giorno dopo giorno, si è costretti a subire la mortificazione dei valori e degli ideali che hanno segnato la propria formazione civica e politica. Questo è diventato il Partito Democratico: un partito nato per fondere in un’unica formazione politica le tradizioni dei due più grandi partiti popolari della storia repubblicana si è trasformato in uno strumento di potere scollato dalla società reale, incapace di emozionare e di emozionarsi.
Esco pertanto dal Partito Democratico, a quattro anni dalla costituzione del circolo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che avevo promosso nel 2013 e del quale sono stato fino ad oggi segretario. Da troppo tempo i sentimenti prevalenti sono disagio e imbarazzo per ciò che il Partito Democratico è diventato a tutti i livelli, nel metodo e nel merito della sua azione. Una speranza tradita, un’occasione persa di promozione della partecipazione dei cittadini alla politica per la rappresentanza delle istanze più diffuse: «La politica – scriveva Guido Dorso – segue la logica delle occasioni sfruttate o perdute, e queste ultime costituiscono il passivo più terribile per i partiti ed i loro dirigenti».
L’esito di una gestione autoreferenziale ed autoritaria del partito ha la sua rappresentazione plastica nell’emorragia di iscritti fotografata dai più recenti tesseramenti. Invece di interrogarsi sul perché di questa fuga per tentare di porvi un argine, si è continuato a tenere la testa sotto la sabbia, a ballare tra gli specchi del salone mentre il Titanic affonda. E sì che di segnali inequivocabili, dal Referendum costituzionale alle varie tornate amministrative, gli elettori ne hanno mandati in quantità.
Arrivismo e trasformismo sono i mali storici della politica: il Partito Democratico ne rappresenta, oggi, la sintesi perfetta. Un partito che sacrifica sull’altare del potere le storie politiche dei propri militanti e che non si pone nemmeno il dubbio se sia controproducente lisciare il pelo ai tanti Verdini sparsi sul territorio. E che, defezione dopo defezione, è ormai diventato altro: un simulacro di partito, infeudato da ristretti comitati elettorali, che non discute al suo interno, né con l’esterno. Una scatola priva di identità che a livello nazionale mette la faccia su provvedimenti umilianti per i lavoratori e per le fasce più deboli; che a livello regionale rinuncia ad essere protagonista, delegando la proposta di governo ad una giunta tecnica; che a livello provinciale, nelle segrete stanze, decide sostanzialmente di fare saltare due tesseramenti (2015 e 2016: quest’ultimo raffazzonato in maniera molto discutibile e fuori tempo massimo, a pochi giorni dalle Primarie nazionali del 30 aprile 2017) e di non celebrare il Congresso di partito, perché la conta rischierebbe di fare crollare l’edificio messo in piedi nell’oramai lontanissimo 2014.
Non è questa la politica che mi ha fatto appassionare sin da ragazzo e che mi ha sempre spinto a trovare rappresentanza e collocazione in una sinistra attenta ai bisogni degli ultimi, capace di dare voce a chi voce non ha. Vado pertanto via da questo PD, senza rancore ma con tanta delusione. Rimetto il mio mandato di segretario di circolo, né intendo rinnovare la mia adesione al partito.
Riparto dalla forza identitaria di ideali che sento ancora vivi e attuali e dalla convinzione che dignità e coerenza debbano essere i valori irrinunciabili dell’agire politico.

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Per l’istituzione della commissione toponomastica

Stamattina ho presentato la richiesta di inserire all’ordine del giorno
del prossimo consiglio comunale un punto con oggetto l’istituzione della
commissione toponomastica. 
La memoria storica è il collante di una comunità, la ragione dello stare insieme e del sentirsi protagonisti di un destino comune. Per questo motivo auspico che il consiglio comunale riesca a lavorare sulla mia proposta con spirito unitario e che vi sia il massimo coinvolgimento possibile della cittadinanza.

*La proposta di istituire la commissione consiliare “toponomastica” risponde a due ordini di motivi. Il primo, di carattere pratico, attiene all’esigenza amministrativa di governo del territorio mediante la predisposizione di un’adeguata toponomastica laddove esistono strade, vicoli e spazi pubblici privi di alcuna denominazione.
La seconda esprime invece un alto contenuto ideale di tutela della memoria collettiva, considerato che il lavoro della commissione dovrebbe essere finalizzato alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale di Sant’Eufemia, alla riscoperta del senso di comunità, all’orgoglio di sentirsi eufemiesi.
La toponomastica, quindi, come strumento di gestione del territorio che consente di tramandare la storia locale coltivando il ricordo delle personalità che hanno dato lustro alla comunità nel campo dell’arte, della scienza, della cultura, del sociale, della politica.
La toponomastica attuale è molto datata: salvo qualche sporadica eccezione (Largo Giovanni Paolo II e Piazza Giorgio La Pira), è infatti rimasta ferma al secondo dopoguerra. Ed è altresì inconcepibile che a Sant’Eufemia vi sia una sola strada dedicata a una donna (via regina Margherita): compito della commissione dovrebbe essere anche quello di sanare tale ingiustizia; ancora, essa potrebbe finalmente porre rimedio alla presenza di veri e propri errori storici (esempio: sostituire “Via Ruggero VII”, inesistente personaggio storico, con “Via Ruggiero Settimo”, che fu protagonista del Risorgimento italiano e primo presidente del Senato del Regno dopo l’unificazione nazionale).
La commissione, da istituire nel rispetto del criterio di rappresentanza proporzionale tra maggioranza e minoranza consiliare, svolgerà l’incarico a titolo gratuito, per cui il suo lavoro non comporterà alcun onere per l’Amministrazione. Inoltre, nell’ottica di promozione del ruolo responsabile e propositivo della cittadinanza attiva, essa sarà aperta al contributo dei singoli cittadini e delle associazioni secondo modalità che saranno definite con un apposito regolamento.

*Relazione illustrativa allegata alla richiesta di inserimento, nell’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, della proposta di istituzione della commissione toponomastica.

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Due parole sul referendum

Nessuna sorpresa, né delusione: raggiungere il quorum era difficile e lo si sapeva. Ho votato, come il 32% circa degli elettori, e ho votato SÌ perché credo e spero che il futuro della politica energetica dellItalia sia nelle rinnovabili.
Rispetto lopinione di chi invece ritiene ancora prematuro o comunque non opportuno affrancarsi completamente dallutilizzo dei fossili e, coerentemente, ha votato NO.
Rispetto anche chi non è andato a votare perché è stanco di questa politica e ne ha le scatole piene; così come rispetto quelli che sono rimasti a casa perché dellavviso che tocchi alla classe dirigente di questo nostro Paese affrontare con competenza e responsabilità una materia così complessa. Comprendo le loro ragioni, che sono fondate.
Rispetto di meno chi invece ha deciso di disertare le urne esclusivamente per fare saltare il quorum, al termine di un “calcolo” politico che niente doveva avere a che fare con il contenuto del quesito referendario. Non si votava pro o contro Renzi e, per quanto mi riguarda, sono allergico ai plebisciti. Il trucchetto di unire il proprio NO con la percentuale (ahinoi sempre crescente) di astensionismo fisiologico che si registra ad ogni elezione è unazione da “furbetti del quartierino” poco dignitosa, come tutte le “furbate”.
Rispetto meno ancora i dirigenti del Partito Democratico travestiti da ultras che si sono lasciati andare a battute da bar dello sport, con espressioni offensive nei confronti di chi non ha fatto altro che esercitare un diritto costituzionalmente riconosciuto, nonché una conquista di libertà ereditata dai nostri padri e nonni.
Non si scrive mai una bella pagina di democrazia quando così poca gente va a votare. Comunque la si pensi.
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L’intervista a Pont’i Carta

Qualche giorno fa sono stato contattato da Francesco Martino, che da un anno gestisce insieme a un gruppo di ragazzi di Sant’Eufemia d’Aspromonte il blog Pont’i Carta: abbiamo fatto una chiacchierata sui temi scottanti del momento, toccando questioni nazionali ma anche locali. Pubblico di seguito il contenuto dell’intervista, consultabile nella sua versione originale cliccando sul link:
https://ponticarta.wordpress.com/2016/04/09/a-colloquio-con-domenico-forgione/

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Domenico Forgione, segretario del circolo PD “Sandro Pertini” del nostro Paese. Domenico è un grandissimo studioso della storia di Sant’Eufemia, oltre che dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea, giornalista pubblicista, scrittore e autore di numerosi libri sulla storia eufemiese e non solo. E’ proprio per questo, insieme al suo impegno politico che lo vede protagonista nel PD cittadino, che ci ha spinto ad incontrarlo e a porgli delle questioni. In maniera particolare, la nostra breve intervista si è soffermata su un tema che abbiamo deciso di affrontare con decisione anche nei prossimi giorni. Si tratta del referendum del prossimo 17 Aprile, evento che come spesso accade rischia di passare sottobanco, ma sul quale cercheremo di sensibilizzare il più possibile. Dunque, affronteremo anche nei prossimi giorni la “questione referendum” in diversi articoli. Intanto, vi lascio alla nostra conversazione con Domenico, auspicando che da essa si possano trarre già molti elementi di riflessione e di analisi sia sul referendum in se’, sia soprattutto sul nostro modo di porci con il contesto che viviamo, possa essere esso lavorativo, sociale o ambientale. Buona lettura.


1) Partiamo subito entrando nel vivo della questione che vogliamo affrontare. Che idea si è fatto del referendum del prossimo 17 Aprile?
Sono dell’avviso che bisogna sempre andare a votare, si tratti di referendum o di elezioni, anche per rispetto di chi ha lottato contro la dittatura fascista e ha pagato con la prigione e con la vita per la conquista di un diritto che oggi ci consente di essere un popolo libero. Non condivido la posizione di chi invita all’astensione. Ricorda il celebre invito rivolto agli elettori da Bettino Craxi nel 1991 (“andate al mare”) in occasione del referendum sulla preferenza unica, che segnò l’inizio della fine della Prima Repubblica. Credo però, anche, che lo strumento referendario sia talmente importante per il funzionamento della nostra democrazia che andrebbe utilizzato con maggiore parsimonia e preferibilmente per questioni di carattere generale, non tecniche, che rischiano di presentarsi come materia ostica per chi non sia un esperto del settore. Il referendum “sulle trivelle” ha assunto un valore che va oltre gli effetti che produrrà: sia che a vincere siano i Sì, sia se dovessero prevalere i No o, addirittura, anche nel caso di non raggiungimento del quorum. Questo perché, grazie all’intesa raggiunta tra governo centrale e Regioni, nessuna compagnia potrà mai più, in ogni caso, trivellare il mare entro le 12 miglia marine. Tuttavia, il referendum pone una fondamentale questione di principio riguardo la politica energetica nazionale, che personalmente gradirei sempre più “verde” e rispettosa della natura. Da qui il mio Sì, convinto: in favore dello sviluppo delle energie alternative, per la salvaguardia dell’ecosistema marino e, per dirla con le parole di Roberto Speranza, per la promozione di un modello di sviluppo ecosostenibile nel nostro Paese.
2) All’interno del Partito Democratico sono tantissime e molto diverse le posizioni riguardo al referendum. Bersani si è espresso favorevolmente al voto senza però sbilanciarsi verso una preferenza. Guerini e la Serracchiani hanno sposato la linea renziana dell’astensione, mentre Prodi ha chiaramente fatto intendere di essere sulla linea del NO. Infine Speranza ed Emiliano, molto critici con la linea di Renzi e favorevoli al SI. Visto che il referendum è stato proposto da nove regioni, di cui sette governate proprio dal Pd, non crede che ci sia stata un po’ troppa confusione? E il Pd eufemiese, quale linea ha deciso di sposare? Ci saranno delle vostre indicazioni? 
Concordo sulla confusione, che però è anche conseguenza del carattere pluralista del Partito Democratico. Una ricchezza (la presenza al suo interno di diverse sensibilità) che diventa un handicap quando non si riesce a trovare un punto di sintesi. L’errore più grave, per il partito, sarebbe però fare di ogni appuntamento elettorale una sorta di regolamento di conti, un prova muscolare che produce soltanto disaffezione e alimenta l’antipolitica. Lo sforzo di tutti dovrebbe invece essere rivolto a far convivere le posizioni di tutti, senza il ricorso ai diktat della maggioranza: penso, ad esempio, alle troppe volte che su un provvedimento legislativo viene posta la fiducia. E senza, d’altro canto, che la minoranza del partito minacci di fuoruscire dal partito ogni volta che “va sotto”. La democrazia funziona così e, alla fine, in politica contano i numeri: chi ce li ha, porta avanti la sua visione di società, all’interno di una cornice di valori intangibili che i padri costituenti hanno scolpito, in particolare, nella Prima parte della costituzione repubblicana.
Per l’insieme di queste ragioni, non credo sia utile alcuna “crociata”. Personalmente andrò a votare Sì, però ritengo opportuno lasciare libertà di voto agli iscritti del circolo di Sant’Eufemia.
3) Noi di Pont’i carta, come blog nato proprio dalla necessità di sensibilizzare su temi che molte volte non sono conosciuti o che vengono troppo facilmente liquidati, abbiamo interesse a mettere in luce non solo ciò che potrebbe interessare il nostro paese, ma anche più largamente il nostro territorio, la nostra Regione e anche tematiche nazionali come il referendum. A tal proposito abbiamo scelto il referendum come argomento proprio col chiaro intento di sensibilizzare sul rapporto uomo e natura, oltre che su dei modelli economici di sviluppo nuovi e sostenibili. Alla luce di ciò, cosa pensa degli accertamenti che la magistratura sta effettuando sullo sversamento illecito di rifiuti speciali a Gioia Tauro, sempre nell’ambito dello scandalo “Trivellopoli” scoppiato in Basilicata? Quanto questa inchiesta potrà incidere sull’andamento del referendum? 
Sin dall’esordio, ho salutato con favore la nascita del vostro blog, perché credo che ogni luogo di discussione sia (meglio: debba essere) occasione di crescita per la realtà in cui si vive. Vale sia nel caso in cui l’agorà sia reale, sia quando il confronto è virtuale, come nel caso del vostro blog o dei social network. Mi ha fatto pertanto molto piacere il vostro invito a rilasciare questa intervista e vi esorto a continuare su questa strada, quella dell’impegno costruttivo, della ricerca del dialogo e dell’elaborazione di proposte utili per la crescita sociale e culturale di Sant’Eufemia. Per rispondere al merito della domanda, mi auguro che l’inchiesta in Basilicata produca “anche” l’effetto di sensibilizzare maggiormente i cittadini sui contenuti del referendum. Ad ogni modo, ritengo che il lavoro della magistratura finalizzato all’accertamento di eventuali irregolarità nel trattamento di rifiuti speciali nell’impianto di Gioia Tauro non solo è giusto, ma siamo noi cittadini a doverlo pretendere con forza. Sulla salute delle persone non si scherza e se qualcuno ha commesso un reato, attaccando un falso codice identificativo su 26 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, deve pagare.
4) Recentemente, in un incontro avvenuto nel nostro comune, cui ha partecipato anche il presidente dell’associazione “Ferrovie in Calabria” Roberto Galati, si è nuovamente discusso della situazione del nostro ponte di ferro della vecchia stazione. Cosa pensa della situazione del nostro ponte? Crede che possa divenire in futuro il simbolo di quel nuovo sviluppo economico sostenibile di cui parlavamo prima? Oppure è destinato solamente ad una funzione simbolica di “memoria collettiva” da conservare?
Nella battaglia per scongiurare la demolizione del ponte della ferrovia il PD di Sant’Eufemia si è speso molto, promuovendo una sottoscrizione che ha raccolto poco meno di 1.100 firme. Lo ha fatto grazie alla collaborazione dei cittadini, delle associazioni e delle istituzioni, in un momento di grande unità che ha fatto onore a tutti i protagonisti di quella lotta. Il primo passo, salvare il ponte, è stato fatto. Bisogna ora attivarsi per ottenere altri due importanti risultati: 1) mettere in sicurezza tutta l’area su cui il ponte insiste, che è interessata da una situazione di gravissimo dissesto idrogeologico; 2) recuperare e ridare “vita” al ponte stesso. In proposito, le soluzioni possibili sono diverse: dal ripristino della vecchia linea taurense San Procopio/Sinopoli – Gioia Tauro per il trasporto locale o in funzione turistica, alla realizzazione sul vecchio tracciato di una pista ciclabile e di un percorso naturalistico, sul modello della politica di recupero delle linee ferroviarie dismesse attuata in molte regioni d’Italia: soluzione, quest’ultima, che personalmente preferisco, in funzione della valorizzazione delle bellezze e dei prodotti dei territori che la ferrovia attraversa.
5) A proposito di futuro, come ultima domanda, vorremmo andare un po’ fuori tema. In quanto segretario del circolo del Pd “Sandro Pertini”, e in quanto studioso e profondo conoscitore della storia di Sant’Eufemia, cosa pensa che riservi il futuro al nostro paese? E, secondo lei, cosa serve seriamente al nostro paese per costruire un avvenire migliore? In tal senso, il circolo, che obiettivi si pone?
“Il futuro è un’ipotesi”, cantava Enrico Ruggeri quasi trent’anni fa. Quindi non so, con certezza, cosa esso ci riserverà. Vedo, come tanti altri, i segni di un declino preoccupante: il lavoro che manca, l’isolamento anche fisico che il nostro paese ha subito con la soppressione dello svincolo autostradale, i troppi giovani costretti ad emigrare, che portano altrove le proprie competenze e vanno ad arricchire il tessuto sociale delle realtà che li accolgono e dove riescono ad affermarsi. Mentre qua la meritocrazia latita e i diritti vengono spesso cambiati per generose concessioni del potente di turno, del compare o di chi sfrutta il bisogno altrui per fare carriera. Sant’Eufemia ha la fortuna di avere al suo interno le “armi” per costruirsi un futuro migliore: realtà associative vivaci e molto attive sul territorio, professionalità riconosciute e un tessuto economico con straordinarie potenzialità, a cominciare dal settore agricolo e da quello dell’allevamento del bestiame. Si tratta di riuscire a capitalizzare questo vasto patrimonio, mettendo da parte l’egoismo dei singoli e pensando, finalmente, al bene comune. La politica non può considerarsi fuori da questo processo: è anzi chiamata a svolgere un compito di guida, in una prospettiva di sintesi delle soluzioni migliori proposte dalle esperienze amministrative maturate negli ultimi decenni. Un paese con poco più di 4.000 abitanti ha bisogno di una prospettiva il più unitaria possibile, che valorizzi al meglio il capitale umano di cui dispone.

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La stampa inglese, noi e la Salerno-Reggio Calabria

Leggevo ieri sul “Quotidiano del Sud” la notizia della critica ironica e spietata del giornale inglese “The Indipendent” a proposito dei lavori eterni sulla Salerno-Reggio Calabria, tornati ancora una volta d’attualità dopo la rassicurazione del presidente del Consiglio Renzi circa il loro completamento entro il 2016. Ho chiesto la collaborazione di Mario “il londinese” per una traduzione ottimale del pezzo firmato da Michael Day il 20 maggio (“Ultimo sforzo per l’autostrada italiana ‘eterna incompiuta’, a 50 anni dall’inizio dei lavori”), che pubblico. Insomma, al netto di qualche scontato luogo comune, il dato è che non siamo ben visti e che l’ironia degli inglesi sui ritardi nei lavori della nostra autostrada è purtroppo giustificata.

Nel 1966 Lunar 9 fu la prima navetta spaziale ad atterrare sulla luna, l’Inghilterra vinse la coppa del mondo, l’Italia aprì il primo tratto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Nel successivo mezzo secolo, le missioni spaziali hanno raggiunto obiettivi più importanti e l’Inghilterra non ha più vinto, ma incredibilmente l’Italia sta ancora, lentamente, lavorando alla costruzione dell’autostrada A3, generalmente conosciuta come “l’eterna incompiuta”.
La costruzione di quest’autostrada, 443km di distanza da Salerno, sud di Napoli, giù sino a Reggio Calabria, la punta dello stivale italiano, è stata condizionata da lavori non regolari, ritardi e scandali. I sindacalisti affermano che l’autostrada rappresenta l’incarnazione di tutto ciò che va male nel Paese, azzoppato dalla corruzione e dalla cattiva amministrazione: “l’autostrada è il simbolo di come le opere pubbliche siano gestite in Italia”, dice Stefano Zerbi, portavoce del Codacons, l’organizzazione che tutela i consumatori italiani.
Non è un segreto che l’autostrada parte dalla Campania, la casa della Camorra, e poi scende giù fino alle aree malfamate della Ndrangheta, che includono città come Rosarno e Gioia Tauro.
Se da un lato i mafiosi guadagnano milioni grazie a contratti di lavoro con ditte a loro affiliate, dall’altro fanno anche in modo che l’autostrada non disturbi le altre loro attività. Infatti, a circa metà percorso, sembra che l’autostrada torni indietro curvando goffamente su se stessa. Si dice che questa deviazione sia stata fatta per soddisfare la richiesta di un boss locale che non voleva che l’autostrada passasse troppo vicino alla propria villa.
Questa settimana però il primo ministro Matteo Renzi, che sembra essersi imbarcato nella missione di modernizzazione dell’Italia, dopo l’approvazione della riforma elettorale in parlamento ha espresso ottimismo: “Tutto sarà finito nel 2016!”. “Finiremo la Salerno-Reggio Calabria”, ha dichiarato a RaiUno. “Entro la fine del 2015 tutti i cantieri affretteranno i lavori e, al massimo entro il prossimo anno, l’autostrada sarà completata”.
Sembra che 3.000 operai stiano lavorando notte e giorno, sette giorni alla settimana, per velocizzarne il completamento.
In tanti però diffidano dai toni trionfalistici di Renzi, visto che dopo cinquant’anni ancora non è sicura la data di ultimazione dei lavori.
“È chiaro a tutti che solo un miracolo permetterà che i lavori siano completati tra un anno” afferma La Repubblica. Il quotidiano afferma infatti che alcuni documenti del ministero dei Trasporti indicano nel novembre del 2017 l’apertura dei 20 km di autostrada tra Laino Borgo a Campotenese.
“Sono sorpreso dalle parole del Primo Ministro”, dichiara Gigi Verardi, sindacalista della sezione calabra della Fillea-Cgil: “a nostro avviso, sono solo dichiarazioni propagandistiche”.
E anche se fosse “finita” l’anno prossimo o l’altro ancora, è probabile che 43 km di autostrada non avranno la corsia d’emergenza.
“Crederemo alla fine dei lavori quando lo verificheremo”. “E ciò significa con tutte le misure di sicurezza che sono state previste nel progetto”, aggiunge Zerbi.
Nel frattempo, il contribuente italiano continuerà a pagare di tasca propria, anche se ancora non avrà l’autostrada che avrebbe dovuto avere diversi decenni fa.

(Michael Day, The Indipendent, 20 maggio 2015. Traduzione in collaborazione con Mario Forgione)

Articolo originale:
http://www.independent.co.uk/news/world/europe/italys-eternally-unfinished-highway-enters-final-stretch–50-years-after-construction-began-10261986.html

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La maggioranza non c’è più

Prima o poi doveva accadere, perché anche l’elastico più resistente non può sfidare le leggi della fisica e alla fine si spezza. Più o meno è successo questo all’interno dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia. Dispiace perché la mia personale opinione è che si sia persa una buona occasione per tentare davvero di scrivere “un’altra storia”, come recitava lo slogan elettorale della lista “Leali al Paese” che nel maggio del 2012 portò alla guida del Comune Mimmo Creazzo.
Dalle cronache dei giornali abbiamo appreso i termini della questione, sulla quale non intendo in questo momento pronunciarmi anche se qualche passaggio interessa l’azione politica del Partito Democratico, del quale sono segretario e la cui costituzione, nel novembre 2013, non era di certo finalizzata a mettere il bastone tra le ruote a un’amministrazione che molti di noi avevano contribuito ad eleggere, quando ancora non esistevamo come gruppo politico organizzato.
Occorre invece sottolineare le conseguenze politiche che comporta la rinuncia alla carica di assessore espressa dai primi due eletti, Pasquale Napoli (216 voti) e Carmelo Pirrotta (183). Un totale di 399 voti su 1.255 complessivi della lista, ben oltre i 99 registrati tra i vincitori delle elezioni comunali e lo schieramento classificatosi secondo con candidato a sindaco Gianni Fedele.
Sul piano numerico, è evidente, la maggioranza non c’è più. Perché il sindaco non ha più la legittimazione del voto popolare. Senza entrare, ripeto, nel merito della questione e nell’ascolto delle diverse campane, il dato politico e inconfutabile è questo. E a nulla può servire la sicumera del sindaco Creazzo, che sul quotidiano “Il Garantista” di oggi tranquillizza i cittadini eufemiesi sostenendo che “i numeri per governare ci sono”.
Mi permetto di obiettare che i numeri non ci sono affatto. Il nostro consiglio comunale, complice una legge sciagurata – poi fortunatamente abrogata – è composto da otto membri, sette consiglieri (cinque di maggioranza e due di opposizione) più il sindaco: al prossimo rinnovo – vivaddio – i componenti saranno dodici più il sindaco.
Facendo di conto con le mani, otto diviso due fa quattro. Ci sono quindi i numeri per fare svolgere il consiglio comunale (è sufficiente la metà dei consiglieri), ma non quelli per approvare i punti all’ordine del giorno, per cui necessita la metà più uno dei consiglieri: cinque, se essi saranno di volta in volta tutti presenti. Certo, nel caso di assenze “strategiche”, anche con quattro voti a favore – quelli che sulla carta gli sono al momento rimasti – Creazzo non avrà problemi. Ma in quel caso, o nell’eventualità di un soccorso diretto proveniente dai banchi della minoranza, ci troveremmo di fronte a un quadro politico molto distante da quello deciso dagli eufemiesi quasi tre anni fa.
Anche sotto il profilo della democrazia, l’attuale situazione suscita qualche perplessità. Sempre sul “Garantista” il sindaco informa infatti che sta già facendo giunta con l’attuale vicesindaco. In due: un po’ pochi, francamente, per decidere le sorti di una comunità di oltre 4.000 abitanti.
La situazione è questa, per niente incoraggiante. Il sindaco si trova a un bivio: vivacchiare per altri due anni, magari confidando sull’aiuto della minoranza nei passaggi delicati che senz’altro si presenteranno; oppure prendere atto che è fallito il progetto politico per il quale i cittadini gli avevano espresso fiducia e trarne le conseguenze, dimettendosi e ridando la parola agli elettori.
Il cerino è nelle sue mani.

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Chi non vota e chi fa l’alba al seggio

Un paio di considerazioni – mi auguro – non banali sul dato della diserzione dalle urne, costantemente in crescita e confermato anche in questa tornata elettorale.
Votare nella sola giornata di domenica non aiuta. Ragioni di spending review, si motiva. Ma a forza di tagliare anche la possibilità di esercitare i propri diritti, alla fine resterà ben poco.
Disaffezione degli elettori, sempre più delusi dalla politica, ormai rassegnati al declino che comunque fa il suo corso, nonostante i politici. O forse proprio per causa loro. Può darsi.

Rabbia generalizzata contro tutto ciò che “puzza” di casta, privilegi, furberie, arricchimento personale a discapito del bene comune. Gli esempi non mancano. Se possibilità di salvezza può esistere, si conclude, è fatica sprecata cercarla in soggetti che si scannano per una poltrona. I canali da attivare sono altri, fuori dalla politica, nella strada e nell’impegno quotidiano per un mondo migliore.
Non è semplice contestare questo genere di considerazioni. Aggiungerei anche un altro elemento, non trascurabile: il disastro del Movimento Cinque Stelle, la formazione di Grillo e Casaleggio che era riuscita a intercettare lo scontento verso la classe politica dandogli “dignità” istituzionale, in forme spesso rozze e populiste, ma che ha finito per gettare nel cassonetto dei rifiuti il biglietto vincente della lotteria rivelandosi, in definitiva, forza politica inconcludente, velleitaria, autoreferenziale.

A mio avviso sono due i fattori che concorrono al dato spaventoso e preoccupante (checché ne pensi Renzi) dell’astensionismo: lo sbandamento dei partiti di destra e il fallimento del Movimento Cinque Stelle. Insomma, la “colpa” è di chi non va a votare, non di chi si reca alle urne. Ecco perché non è corretto sminuire la vittoria del centrosinistra. Chi vuole vincere deve essere in grado di avanzare una proposta politica credibile, cosa che evidentemente il centrodestra non è al momento capace di fare, intrappolato sotto le macerie del post-berlusconismo in Italia e del post-scopellitismo in Calabria, e pertanto propenso alla diserzione o al tentativo trasformistico e opportunistico di saltare sul carro del vincitore.
A maggior ragione sarebbe auspicabile il recupero dell’umiltà della militanza politica. Quella che dava, non chiedeva e neanche si aspettava. Si militava per un ideale, perché ognuno si sentiva il granello di sabbia che avrebbe inceppato la macchina del potere. I partiti sono indispensabili cinghie di trasmissione tra la società e i luoghi decisionali, strumenti di mediazione e composizione degli interessi collettivi dai quali non si può prescindere se non si vuole tornare al conflitto permanente dello stato di natura hobbesiano.
Sono stato al seggio dalle 6.45 di domenica all’alba di lunedì e conserverò l’immagine di due ottuagenari come monito da tirare fuori quando lo sconforto cercherà di prevalere sull’etica dell’impegno. Il primo fotogramma contiene un’esile figura appoggiata per tutta la durata dello spoglio alla transenna che separava il pubblico dal seggio, da dove mi lanciava occhiate di complicità ogni volta che dall’urna veniva estratta una preferenza per il nostro candidato. Il secondo, il passo lentissimo e sofferto di un compagno storico che ha impiegato 45 minuti per scendere dalla macchina, percorrere con l’aiuto di una stampella il lungo corridoio che portava al seggio, votare e fare il tragitto di ritorno.
Anche per loro occorre andare a votare, sempre. Perché c’è stata una notte buia in cui i nostri nonni non hanno potuto godere di questo e di molti altri diritti.

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Perché voto Oliverio

Al termine di una telenovela estenuante e a dire il vero anche stucchevole, finalmente domenica 5 ottobre si terranno le primarie per scegliere il candidato del centrosinistra alla presidenza della giunta della Regione Calabria. Non era scontato che finisse così: chiunque segua con un minimo di attenzione le vicende politiche del partito democratico calabrese ha potuto verificare gli innumerevoli tentativi messi in campo più o meno strumentalmente per impedire il rispetto dello statuto del partito, che all’articolo 18 prevede lo svolgimento delle primarie per le cariche monocratiche istituzionali. Mesi a gettare sul tavolo il papa nero, quello bianco e l’altro arancione; chilometri su chilometri macinati tra via delle Nazioni a Lamezia e via del Nazareno a Roma, per trovare una quadra che semplicemente non c’era, come poi s’è visto. Non si è capito molto, purtroppo scontiamo un atavico deficit di chiarezza, ma tra quel poco c’è di sicuro l’ostilità pervicace di alcune frange del partito (segretario regionale in testa) nei confronti della legittima aspirazione del presidente della provincia di Cosenza Mario Oliverio, in campo già dalla primavera scorsa e con le carte abbondantemente in regola: ben 153, su 300, sono stati infatti i delegati regionali firmatari della sua candidatura.
Tra i candidati in lizza, considero Oliverio il più idoneo a guidare una regione complessa come la Calabria, principalmente perché dotato di un cursus honorum adeguato e del riconoscimento della bontà del suo impegno nelle istituzioni, come certifica l’apprezzamento unanime del lavoro svolto, da ultimo, a capo della Provincia di Cosenza. Esperienza che servirà molto più degli slogan, considerato che – finito il tempo della propaganda – poi bisognerà amministrare. Oliverio ha dimostrato di sapere governare: a questo si deve guardare quando si andrà a votare, non certo alla carta d’identità che di per sé può anche non significare niente. Il cambiamento vero va perseguito sul campo, nella guida di un ente che fa acqua da tutte le parti e che ha l’assoluta necessità di recuperare in credibilità. Altrimenti il cambiamento rischia di rivelarsi una bandiera sventolata in campagna elettorale e subito dopo riposta nel cassetto dei buoni propositi. La ragione per cui scelgo Oliverio, in definitiva, risiede nella sua affidabilità amministrativa.
Di Gianluca Callipo non mi convince la trita riproposizione dell’armamentario propagandistico renziano, lo scimmiottamento su scala locale del modus operandi del presidente del consiglio, il generico e ostentato richiamo al “cambiamento”. Indispensabile come l’aria, certo. Ma a partire dal rapporto con gli elettori, se non si vuole che rimanga parola vuota. Cambiamento significa, ad esempio, mettere chiarezza su “chi sta con chi” e porre fine ad atteggiamenti ambigui. Il trasversalismo della campagna per le primarie di Callipo, da questo punto di vista, è davvero imbarazzante. E prima o poi occorrerà aprire una discussione sull’opportunità di primarie condizionate dal voto di non iscritti ai partiti del centrosinistra. Personalmente, non mi rassegno all’idea che le “nostre” primarie possano essere inquinate dal voto di settori del centrodestra, oggi disorientati dal fallimento di quello schieramento e alla ricerca disperata di una nuova verginità politica. Transumanze dettate dall’opportunismo e che niente hanno a che fare con le ragioni ideali della politica. Votare Oliverio vuol dire anche sbarrare la strada al trasformismo dei gruppi di potere cresciuti a pane e inciuci.

* A Sant’Eufemia d’Aspromonte il seggio sarà allestito all’interno del Palazzo municipale, domenica 5 ottobre dalle 8:00 alle 21:00.

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Farage, l’amante londinese di Grillo

Ho chiesto a Mario cosa pensano i londinesi dell’incontro tra Grillo e Farage, uno che manda nelle case degli inglesi volantini come quello che vedete qui accanto, da mio fratello rispedito prontamente al mittente: “avete sprecato un pezzo di carta e un francobollo, perché io sono tra coloro che “rubano” il vostro lavoro. Lo faccio da 18 anni, impunito”. 
Ecco la sua risposta.

Sto seguendo con interesse il dibattito italiano sulla vittoria del movimento di estrema destra Ukip (United Kingdom Independence Party) nelle elezioni per il Parlamento europeo in Inghilterra e le polemiche sollevate dall’incontro del comico e leader del M5S Beppe Grillo con Nigel Farage. Non credo però sia il caso di fomentare isterismi ingiustificati e cercherò di spiegarne il motivo.
In Inghilterra solo il 37% degli aventi diritto al voto si è recato alle urne, per varie ragioni. Tra questi, la circostanza che le elezioni coincidevano con un Bank Holiday, una delle cinque vacanze nazionali caratterizzate dall’astensione dal lavoro anche il lunedì. Un week-end lungo che molti hanno sfruttato per concedersi una vacanza, ai quali vanno aggiunti coloro che il 22 maggio (giorno delle votazioni) hanno ripiegato su un bel barbacue, considerato che una volta tanto qua splendeva il sole.
Al voto europeo in Inghilterra partecipano prevalentemente i detrattori dell’UE, per esprimere il proprio disappunto. Per questo motivo Ukip ottiene buoni risultati, potendo contare anche sul sostegno dei conservatori vecchio stampo. Per intenderci, quegli elettori che avrebbero imbalsamato Margareth Thatcher pur di averla ancora al potere, i quali non riescono a digerire la coalizione che il leader David Cameron ha messo in piedi con i liberali. Lo stesso Nigel Farage è un fuoruscito del partito conservatore, per cui non è sorprendente che su di lui convergano le simpatie dei vecchi compagni di viaggio, attempati e in aria da pensione.
Gli equilibri verranno ristabiliti il prossimo anno, quando ci saranno le elezioni politiche. L’Ukip tornerà ad essere una forza marginale, perché non ha una solida agenda sulle vere problematiche del paese e si limita a slogan nazionalisti e antieuropeisti. Farage non ha mai partecipato ad un dibattito televisivo con gli altri leader politici, ma anche se lo facesse non avrebbe la dialettica, né la preparazione sufficiente per riuscire a tener testa agli avversari.
A differenza che in Italia, qua l’effetto Farage è durato 24 ore. Il tempo di stabilire che nella remota eventualità di un exploit alle elezioni del 2015 nessuno se lo imbarcherebbe in una coalizione di governo e già martedì il leader di Ukip non era più una notizia.
Farage è un impulsivo, non sa contenersi, è sopra le righe, parla a sproposito e non conosce la storia. Tanto meno la discrezione e il rispetto, due principi cardine della società britannica. È affascinato dal modus operandi di Putin e, effettivamente, ha molto dello “stile” di Beppe Grillo, con il quale sono certo che a Bruxelles andrà d’amore e d’accordo. Con lui berrà una birra o due, perché a Farage piace dare l’idea di essere uno di noi, uno che va al pub. Della loro agenda comune non mi preoccuperei più di tanto. Cosa potrebbero programmare, dare fuoco a Palazzo Charlemagne?
Con questo incontro Beppe Grillo conferma però ciò che ho sempre sospettato, sin dai tempi delle sue ospitate sui palchi di Sanremo, vissute da me con un certo disagio. È un estremista che ha cavalcato il malessere e la rabbia prodotti dalla crisi economica e dall’immobilismo istituzionale del sistema politico italiano, riuscendo così ad avere molto successo in Italia. Ora ha bisogno di farsi conoscere fuori dalle frontiere nazionali, per cui probabilmente userà Farage per accrescere l’esposizione mediatica.
Qualche amico inglese mi ha chiesto com’è possibile in Italia che un comico guidi un movimento politico. Poiché in Inghilterra apprezzano l’ironia, rispondo che la cosa non mi sorprende, visto che per vent’anni siamo stati nelle mani di un leader che non si lasciava sfuggire l’occasione per raccontare barzellette, pure male. Non ci resta che ridere.

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Il dato più rilevante è quello dell’astensionismo: a Sant’Eufemia si sono recati alle urne 1.083 elettori, pari al 28,75% degli aventi diritto. Quasi il 9% in meno rispetto alle Europee del 2009 e 73 elettori in meno rispetto all’ultima consultazione, quella relativa alle Politiche del 2013, competizione però storicamente più “sentita” dall’elettorato e quindi più partecipata. La percentuale di affluenza è di molto al di sotto del dato nazionale (58,69%), a sua volta inferiore di otto punti rispetto a quella delle Europee del 2009, che si svolsero però in due giorni. Sarà compito degli analisti spiegare la montante disaffezione nei confronti della politica, chi osserva il responso nudo e crudo deve invece concentrarsi sui risvolti politici immediati. Su chi vince e su chi perde, perché alla fine chi ha partecipato ha deciso per tutti. È la politica, bellezza.

In sintesi ha vinto Renzi, ha perso Grillo. Ha vinto il desiderio di “normalità” contro la guerra continua, gli slogan truculenti, la paura e il terrore mediatico. Ha vinto il senso di responsabilità del Partito Democratico e lo spirito riformista dell’azione di governo, con tutti i limiti e le difficoltà che non si vogliono certo nascondere. Secondo questa lettura, tutto il resto scompare, o comunque assume poca rilevanza. A livello nazionale e a livello locale.
Laddove sei mesi fa esistevano soltanto macerie in otto abbiamo “aperto” (non “fisicamente”, purtroppo) il circolo Pd “Sandro Pertini”. Alla prima importante scadenza elettorale siamo risultati il primo partito con 361 voti (36,06%), davanti a Nuovo Centro Destra (272), Forza Italia (181), Movimento Cinque Stelle (96), Fratelli d’Italia (26), Verdi (21), Tsipras (17), Italia dei Valori (12), Lega (6), Scelta Europea (5), Maie (4). I due candidati che sostenevamo sono stati entrambi eletti: Elena Gentile, primatista a Sant’Eufemia con 220 preferenze, e Gianni Pittella (177).

Un risultato che ci riempie di orgoglio e che consideriamo un buon punto di partenza per l’azione che andremo a sviluppare in futuro, in piena autonomia e con spirito costruttivo. Il tesseramento per il 2014 sarà l’occasione per verificare su quali forze potremo realmente contare, anche sotto il profilo pratico dell’organizzazione. E poi il problema più grande, quello della sede, un punto di riferimento indispensabile soprattutto per i giovani che ci hanno sostenuto in questa campagna elettorale, sui quali puntiamo per continuare a crescere e diventare sempre più protagonisti. Perché un partito ha senso se è al servizio della collettività, non se si riduce a comitato elettorale da mobilitare nelle vicinanze di ogni appuntamento con il voto.
Conserverò per sempre tra i ricordi più cari la stretta di mano ricevuta da un militante storico (classe 1928) del vecchio Pci che ci ha fatto i complimenti e ci ha esortato a continuare su questa strada.

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