Rompo il silenzio che mi sono imposto sulle vicende politiche di Sant’Eufemia per rispondere definitivamente alle tante voci che negli ultimi mesi sono circolate rispetto ad un mio impegno nelle prossime elezioni amministrative, che dovrebbero tenersi in autunno.
Non mi candiderò, come sa bene chi ha chiesto direttamente a me; né mi fa piacere essere accostato a questo o a quel gruppo. Nel momento in cui saranno presentate le liste, se saranno più di una, leggerò i nomi dei candidati e, nel segreto dell’urna, sceglierò chi a mio avviso considero capace di dare qualcosa al paese.
Ho ricevuto diverse sollecitazioni, che mi hanno lusingato, ed ho molto riflettuto. Non nego che forte è stata la tentazione di cedere all’opera di convincimento di diversi amici, sia per ricambiare il loro attestato di stima e di affetto, sia per un senso personale di rivalsa rispetto alla disavventura che ha prodotto la mia assurda carcerazione tra febbraio e settembre 2020. L’orgoglio, però, non è mai una medicina efficace contro gli acciacchi dell’anima.
La mia decisione nasce da motivi personali e di carattere generale. Sorvolo sulle ragioni personali, mentre credo possa essere utile soffermarsi su quelle che attengono ad una questione di carattere generale molto grave, fintantoché il legislatore non produrrà una riforma che a parole è invocata da tutti, mentre nei fatti risulta ancora inevasa.
Nelle aule del tribunale si sta svolgendo il processo scaturito dall’inchiesta che ha provocato lo scioglimento per mafia del comune di Sant’Eufemia, sulla base di una legge antidemocratica che eleva a parametro di valutazione il pregiudizio e il sospetto.
Per sciogliere un comune, oggi, non è necessario accertare condizionamenti, infiltrazioni, presenza della criminalità organizzata all’interno del consiglio comunale. È sufficiente che un prefetto, sulla base di informazioni, segnalazioni, risultanze investigative, ritenga possibile che ciò accada. Possibilità che, è di facile intuizione, viene considerata elevata, se non addirittura scontata, quando viene rilevata nel territorio la presenza di una cosca.
Allo stato attuale è diventato quasi impossibile fare politica nei comuni piccoli, dove tutti conoscono tutti, si incontrano più o meno volontariamente, hanno rapporti di parentela con soggetti condannati o imputati per mafia. Fare politica, soltanto per questo, potrebbe comportare l’invio di una commissione di accesso antimafia, la cui attività generalmente si conclude con lo scioglimento del comune.
Voglio essere ancora più chiaro. Non è una questione di coraggio. Non temo niente, così come niente ho temuto nei sette mesi trascorsi ingiustamente in carcere. La verità, presto o tardi, viene sempre a galla. Così è stato per me e così sarà per molti altri, ancora in carcere o liberi ma sotto processo.
Chiunque può determinarsi come meglio ritiene nelle scelte private, mettendo in conto che ciò potrebbe avere effetti negativi sul piano personale. Altra cosa, invece, sono le decisioni che comportano conseguenze non esclusivamente individuali e che potrebbero procurare un danno alla propria comunità, facendo così passare per egoismo e irresponsabilità le proprie legittime aspirazioni.
Fuori dalle istituzioni esistono d’altronde ampi spazi di intervento per contribuire alla crescita sociale e culturale del posto in cui si vive e per condurre, forse addirittura con maggiore libertà, importanti battaglie di civiltà.
«È un tempo che sfugge, niente paura/ che prima o poi ci riprende». Nessuno può sapere cosa ci riserverà il futuro. Ma ora, in questo particolare e delicato momento storico, Sant’Eufemia ha bisogno di tornare alla normalità e di recuperare, anche lei, un po’ di serenità.
Morire di carcere
Se in Italia si registrassero 10,6 suicidi ogni 10.000 abitanti sarebbe un’emergenza? I giornali vi dedicherebbero approfondimenti, verrebbero scomodati sociologi e psicologi, la politica prenderebbe atto della condizione di disagio di una larga fetta di popolazione e del fallimento delle sue politiche sociali? Penso proprio di sì e sarebbe la cosa giusta da fare.
Ma in Italia i suicidi sono 0,67 ogni 10.000 abitanti: siamo tra i paesi europei ad indice basso; mentre è dentro le carceri che sono proprio 10,6 ogni 10.000 detenuti. Come sottolinea Antigone, “in carcere ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna”.
Con il suicidio nel carcere di Verona della ventisettenne Donatella (e chiamiamole per nome, che già sarebbe un bel passo in avanti distinguere le persone dai numeri), pochi giorni fa, sono ben 44 i suicidi registrati dall’inizio dell’anno: uno ogni cinque giorni. Un dato altissimo, ignorato da gran parte di un’opinione pubblica distratta o disinteressata. Chi se ne frega. Peggio per loro se hanno deciso di impiccarsi con le lenzuola, hanno inalato il gas delle bombolette dei fornellini da campeggio che si utilizzano per cucinare, hanno trangugiato un beverone di medicine. Avrebbero dovuto pensarci prima, delinquenti che non sono altro.
Io non ci riesco a non pensare a ciò che accade dentro le carceri, alle tante ingiustizie che vivo come coltellate sulla mia pelle. Forse è vero che, una volta che ci entri, con la testa resti là dentro per sempre. E se chiudo gli occhi, sento ancora nelle orecchie le urla dei detenuti e il rumore metallico e spaventoso della battitura in tutti i padiglioni la notte che un detenuto si tolse la vita a Santa Maria Capua Vetere, nel luglio del 2020. Una rabbia impotente che non poteva superare la recinzione del carcere. Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare, neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro la porta blindata. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio.
In Italia è stata abolita la pena di morte, ma morire di carcere equivale a mantenere in vigore questo barbaro castigo. Ai suicidi vanno infatti aggiunti i decessi di gente che là dentro non dovrebbe starci: anziani, malati di tumore, detenuti psichiatrici, tossicodipendenti, cardiopatici come l’ultima vittima, un settantaduenne morto d’infarto a Secondigliano la settimana scorsa.
Se ti affido qualcosa in custodia, hai l’obbligo di restituirmela integra. Dovrebbe valere anche per la custodia in carcere: io, Stato, affido in custodia a te, carcere, il detenuto. I detenuti dovrebbero uscire dalle strutture penitenziarie sulle proprie gambe, non dentro una cassa da morto. Di chi è la responsabilità se questo non avviene?
Nelle celle vivono detenuti che ancora non hanno subito neanche il primo grado di giudizio e molti altri non condannati definitivamente. Tra questi, migliaia di innocenti. Non tutti hanno la forza di resistere all’umiliazione e alla vergogna. Ci sono poi soggetti fragili, che andrebbero aiutati, ma il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (educatori) non permette un’assistenza adeguata. Infine vanno considerate le oggettive condizioni di calpestamento della dignità umana: mancanza d’acqua, caldo insopportabile, sospensione delle attività trattamentali nel periodo estivo, sadiche assurdità regolamentari. In carcere si è sempre soli, d’estate in misura maggiore. Eppure per molti basterebbe anche soltanto la concessione di qualche telefonata a casa in più per tirarsi su di morale.
C’è una questione di fondo che non si vuole vedere. Compito dello Stato è assicurare la sicurezza dei propri cittadini, impedire la reiterazione dei reati, favorire il reinserimento sociale del reo. Poiché la visione carcero-centrica dell’esecuzione penale ha fallito su tutti i fronti, sarebbe il caso di cambiare strategia e strumenti. Ma un dibattito del genere necessiterebbe di una classe politica coraggiosa e illuminata, capace di prenderne atto e di sfidare l’impopolarità senza piegarsi al giustizialismo imperante.
Sale la temperatura nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua
L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura.
All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato.
Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali.
Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani.
Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura.
Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello.
Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché – giustamente – scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria.
In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione.
Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità.
La sconfitta referendaria
L’astensione al referendum sulla giustizia è stata talmente alta che tutte le ragioni di un fallimento di così vasta portata sono probabilmente valide. Una considerazione di carattere preliminare, che esula dai temi dei quesiti, va comunque fatta: dal 1997 ad oggi si sono tenuti nove referendum abrogativi e soltanto una volta (2011) il quorum è stato raggiunto. A testimonianza dello scarso appeal dello strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, almeno così com’è strutturato.
Poi, ovviamente, esistono ragioni più contingenti. Dalla selezione dei quesiti operata dalla Corte costituzionale, che ha cassato quelli che avrebbero “tirato” di più, alla scelta della data nella quale gli italiani sono stati chiamati alle urne, allo svolgimento della votazione in un’unica giornata, al silenziamento del dibattito politico operato dai mezzi di informazione. Senza dimenticare che la disaffezione degli italiani al voto viene ormai confermata ad ogni appuntamento elettorale da diversi anni. Basti pensare ad elezioni amministrative che, domenica, hanno registrato la partecipazione di neanche il 50% degli aventi diritto al voto. L’astensione fisiologica e l’indicazione di disertare le urne hanno così consentito di centrare con facilità l’obiettivo di fare saltare il referendum.
Per raggiungere il quorum sarebbe stata necessaria una mobilitazione massiccia, impossibile senza il coinvolgimento delle strutture partitiche. Che non c’è stata per le posizioni contrarie o pilatesche dei maggiori partiti politici. Neanche la Lega, che pure era tra i promotori del referendum, ha dato segni di vita, a differenza di quando furono raccolte le firme. A conferma di quanto quella iniziativa fosse stata essenzialmente strumentale, come molte altre di Salvini sui più svariati temi politici. D’altronde, non è una novità che il leader della Lega sia capace di sostenere oggi una posizione e l’indomani il suo contrario. Con il risultato di non avere alcuna credibilità e di generare soltanto confusione: non si può essere lunedì manettari e martedì dimostrarsi sensibili al tema dell’iniquità della carcerazione preventiva. Oltretutto, laddove c’era da eleggere un sindaco, gli esponenti della Lega hanno preferito concentrare le proprie forze sulla campagna elettorale per le amministrative.
Mi sento di escludere che la “colpa” sia degli elettori che domenica hanno preferito andare al mare. Se gli italiani non hanno compreso l’importanza delle questioni sulle quali avrebbero dovuto esprimersi, vuol dire che il messaggio, per le ragioni già espresse, non è passato.
Ciò non toglie che le questioni dello stato di diritto e del funzionamento della giustizia in Italia rimangono di stretta attualità. Non bisogna arretrare, anzi è di vitale importanza proseguire in una battaglia che riguarda tutti, anche gli otto italiani su dieci che in questa circostanza hanno preferito fare altro.
Perché voterò sì ai referendum – Intervista a StrettoWeb
“Io, arrestato ingiustamente, voterò sì al referendum Giustizia e vi spiego il perché”
Il referendum Giustizia è alle porte: “non si tratta di tifare per magistrati o garantisti, ma di creare le condizioni affinché la giustizia funzioni”
“La carcerazione preventiva è quella cosa per la quale tu finisci in carcere anche se forse non hai commesso il reato che ti viene contestato: accade così una volta su due. Uno dei motivi che giustifica la carcerazione preventiva è la possibilità che l’accusato possa commettere nuovamente lo stesso reato. Quel reato che una volta su due non è stato commesso. Cioè, resti in carcere (mesi, anni) perché potresti commettere nuovamente un reato che non hai mai commesso. Un’assurdità totale: si dovrebbe andare in carcere solo se colti in flagranza di reato o dopo l’accertamento processuale. Esiste un provvedimento più antidemocratico e liberticida, basato sul sospetto e sul pregiudizio? Il quesito referendario numero 2 abroga questa nefandezza giuridica. E francamente mi indigna che si debba ricorrere al referendum per cancellare una norma tipica dei regimi dittatoriali, non di uno Stato di diritto quale l’Italia dovrebbe essere”. E’ quanto scritto, sulla propria pagina Facebook, da Domenico Forgione, storico, ricercatore, ex consigliere comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, finito suo malgrado in un calderone di arresti effettuati nel comune aspromontano nel febbraio del 2020, a seguito dell’operazione Eyphemos condotta dalla Procura di Reggio Calabria.
Forgione, che si era fin da subito dichiarato innocente e completamente estraneo ai fatti, era stato arrestato e aveva scontato buona parte della sua pena preventiva in Campania. La sua scarcerazione, come vi avevamo raccontato in un articolo del 18 gennaio 2021, era avvenuta dopo 7 mesi. La posizione di Domenico Forgione è completamente caduta: si è trattato di uno scambio di persona. Tutto qui, semplicemente, ma intanto il suo volto, il suo nome, la sua storia, erano finiti su tutti i giornali. E il suo caso non è l‘unico scambio di persona già appurato nel contesto dell’operazione Eyphemos.
Data la vicenda, dato il vissuto personale, dati i tanti nodi ancora da sciogliere sull’operazione che ha visto in manette parte dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte e che è costata lo scioglimento del comune e il conseguente commissariamento, abbiamo chiesto proprio a Domenico Forgione le sue personali ragioni del Sì, in vista del prossimo referendum Giustizia per il quale saremo chiamati a votare domenica 12 giugno.
“Il referendum in questione va considerato non in contrapposizione alla magistratura, ma come una spinta al Parlamento e alla politica italiana affinché si intraprenda una riforma sostanziale per la quale questo referendum è anche insufficiente, se vogliamo, ma è pur sempre un inizio per provare almeno a spronare una classe politica inerte: l’Italia è il Paese che più volte è stato richiamato dall’Unione Europea proprio per la cattiva amministrazione della giustizia”, spiega Domenico Forgione ai microfoni di StrettoWeb.
Nello specifico, in merito al quesito che andrebbe a modificare gli effetti della Legge Severino, Forgione precisa come il quesito stesso sia stato posto in maniera piuttosto equivoca: “se dovesse vincere il sì non avremo amministratori corrotti legittimati ad amministrare. Tocca alla discrezionalità del giudice stabilire se un amministratore debba decadere o meno. Chi viene condannato in primo grado di giudizio, per la Costituzione Italiana, non è ancora un colpevole, ma per i pubblici amministratori di fatto non è così. In sostanza la presunzione di innocenza, per un amministratore, attualmente non esiste. E il punto è proprio questo: c’è disparità di trattamento tra cittadino comune e amministratore”. Una stortura, questa, che va necessariamente limata secondo i sostenitori del Sì.
Forgione ha anche precisato le ragioni per cui voterà Sì al quesito numero 2, ovvero quello che ha lo scopo di limitare gli abusi della custodia cautelare. “I motivi per cui viene applicata la custodia cautelare – ci spiega il ricercatore storico – sono tre: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Il referendum si concentra su quest’ultimo punto”. La propaganda a favore del no fa leva, anche in questo caso, su un equivoco: se abroghi questo articolo vedrai i delinquenti a spasso. Di fatto, anche in questo caso non è così. “Intanto – precisa Forgione – i reati gravi vengono tenuti fuori da tutto questo, perché stiamo parlando solo di reati che prevedono pene al di sotto dei 4 anni. Inoltre c’è il discorso del pregiudizio: siamo ancora in un momento in cui non è accertata la responsabilità del reato, e siamo quindi in presenza di un paradosso; la legge va a incidere sul fatto che un imputato, il quale forse ha commesso un reato, lo possa ricommettere. E il tutto senza aver ancora appurato se il reato sia stato commesso o meno”.
“Anche i promotori del referendum – spiega Forgione – si guardano bene dall’andare a fondo sul discorso delle ingiuste detenzioni, le quali sono a livelli esorbitanti nel nostro Paese: si parla di 1000 casi in un anno, ma questa cifra riguarda solo quelle già risarcite”. Dal 1992 al 31 dicembre 2021, infatti, si sono registrati 30.017 casi di ingiuste detenzioni: vuol dire che, in media, si sono registrati poco più di 1000 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Alla base della piramide, però, c’è ancora tutto un ‘sommerso’ che non è tenuto in considerazione in questo conteggio. “Inoltre – precisa Domenico – il referendum non tocca quel reato per cui si viene arrestati più ingiustamente, ovvero l’associazione mafiosa. Per lo più, infatti, le ingiuste detenzioni riguardano reati afferenti al 416bis. Ciò però non significa che chi evidenzia questo problema sia a favore della criminalità. E’ solo un modo per dire che evidentemente la legislazione emergenziale non funziona, visto che abbiamo tutti questi casi di innocenti arrestati, e quindi forse andrebbe rivista. Ma questa, purtroppo, non è materia che entra nel referendum. Chissà, forse viene messo in conto che in distretti giudiziari come la Calabria è normale che vi siano situazioni di questo genere”, chiosa Forgione con amara ironia.
In verità, secondo Domenico Forgione e non solo, queste riforme avrebbe dovuto attuarle il Parlamento. “Se avesse voluto (il Parlamento, ndr) avrebbe affrontato direttamente le questioni, ma da ‘Mani pulite’ in poi nel nostro Paese regna un clima di facile giustizialismo che non consente un dibattito sereno. Perché qua non si tratta di tifare per magistrati o garantisti, ma di creare le condizioni affinché la giustizia funzioni. E attualmente in Italia non funziona, tanto che negli ultimi anni l’indice di gradimento si è abbassato notevolmente. Toccare questo tema pubblicamente, però, è impopolare, perché il parlamentare o il gruppo politico che si fa carico di queste battaglie viene percepito male da un’opinione pubblica avvelenata da 30 anni di giustizialismo. Basti pensare che anche per il prossimo referendum il quesito più importante, ovvero quello della responsabilità civile dei magistrati, è stato cassato”, conclude Forgione.
Intervista realizzata da Monia Sangermano per StrettoWeb, 9 giugno 2022 (qui per il link originale)
Quando il custode non custodisce
Stamattina l’acqua che scendeva dal rubinetto aveva un poco rassicurante colore marrone. Ho pensato: «Chissà se qualcuno ha già chiamato per segnalare il problema». Che al comune sia arrivata o meno una telefonata, l’inconveniente è durato poco tempo.
Ci sono posti, nella nostra civilissima Italia, dove le cose non funzionano così. L’acqua sgorga costantemente mista a terra, ma farlo presente alle autorità competenti è fatica sprecata. È il caso della casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Molti sono a conoscenza di questa vergogna e, qualche volta, la questione ha guadagnato spazio pure sui giornali. Senza tuttavia produrre alcuna iniziativa eclatante. Nell’indifferenza generale, i detenuti continuano a lavarsi con l’acqua sporca e a cucinare con l’acqua minerale. Da anni e chissà per quanti anni ancora.
Non è vero che il carcere non ci riguarda. Noi cittadini siamo lo Stato. E lo Stato ha il dovere di “custodire” chi finisce dietro le sbarre. Ciò comporta un alto grado di responsabilità, alla quale sfugge chi calpesta la dignità dei detenuti che gli vengono affidati, per un periodo più o meno lungo. Così come non lo adempie ogni volta che un detenuto si toglie la vita: 54 nel 2021, 61 nel 2020, 25 nei primi cinque mesi del 2022. Custodia, per definizione, è l’attività di sorvegliare, avere cura, assistere cose o persone.
Politici, avvocati e la cosiddetta “società civile” dovrebbero incatenarsi ai cancelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere e urlare “da qua non ce ne andiamo fino a quando, là dentro, dai rubinetti non scenderà acqua potabile e trasparente”.
Senza girarci intorno: quella struttura andrebbe chiusa perché non rispetta la dignità umana. Ma è un abbaiare alla luna, se non si riesce a dare voce a chi non ha voce: «Quello che non si sa – scrisse Enzo Tortora (del quale oggi ricorre il trentaquattresimo anniversario della morte) in una delle sue Lettere dal carcere – è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».
Viva la libertà, senza retorica
La Liberazione costituisce l’evento fondante della Repubblica e segna il riscatto del popolo italiano dal disonore della dittatura fascista, delle leggi razziali e dell’ingresso nella seconda guerra mondiale. Come tutte le ricorrenze, ha un senso se non si riduce a vuota retorica, a citazione di frasi che non hanno attinenza con lo stato reale della libertà in Italia, oggi.
Il 25 aprile viene celebrato onorando la memoria dei caduti per la libertà, della quale tutti ci sentiamo paladini quando – ad esempio – riproponiamo la celeberrima epigrafe composta da Piero Calamandrei per la lapide “ad ignominia” dedicata al criminale di guerra nazista Albert Kesselring, o la lettera scritta nel 1933 dal “recluso politico” Sandro Pertini, che si dissociava con sdegno dalla richiesta della grazia presentata al regime fascista dalla madre. Non bisogna abbassare la guardia poiché – come ammoniva Calamandrei – “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.
Eppure esistono posti, nel nostro amato Bel Paese, nei quali per molta gente quell’aria manca, e non dovrebbe mancare. Nelle carceri italiane sono attualmente reclusi oltre 54.000 detenuti, 16.000 dei quali non ancora condannati definitivamente: 8.500 di essi addirittura in attesa di primo giudizio. Un detenuto su tre, secondo la lettera della nostra Costituzione, è un presunto non colpevole.
Un dramma silenzioso, che non provoca alcuna indignazione se non in settori minoritari della società e della rappresentanza politica. Non potrebbe essere diversamente, dopo tre decenni di propaganda giustizialista che hanno fatto dire ad un (per fortuna ex) ministro della Giustizia che gli innocenti non finiscono in carcere e a un celebre (per fortuna ex) pubblico ministero che un innocente è un colpevole che l’ha fatta franca.
Il carcere preventivo rappresenta il buco nero della giustizia italiana. Statisticamente, ogni anno circa 1.000 persone che finiscono in carcere sono innocenti. Prigionieri sequestrati per mesi o per anni dallo Stato, non dall’Anonima sequestri, per effetto di uno strumento emergenziale (la custodia cautelare) che nel tempo è diventato distorsione e abuso.
Alla luce di queste tragedie umane, siamo sicuri che in tema di libertà personale esista in Italia una questione più grave dello scempio costituzionale che si consuma quotidianamente con l’ingiusta privazione della libertà a danno di un così alto numero di persone?
Buona festa della Liberazione, dunque. Senza retorica.
Palamara, atto secondo
Un anno dopo l’uscita del libro-intervista Il sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana, Alessandro Sallusti e Luca Palamara sono tornati in libreria Lobby & Logge. Le cupole occulte che controllano «il Sistema» e divorano l’Italia, che completa il quadro sconcertante dello stato della giustizia in Italia. Il secondo atto è un viaggio in quello che Palamara definisce il “dark-web” del sistema giudiziario, l’ombra nella quale si muovono «faccendieri, servizi segreti più o meno deviati, logge all’incirca massoniche o più semplicemente lobby che usano la magistratura, a sua volta lobby potente, e l’informazione, per regolare conti, consumare vendette, puntare su obiettivi altrimenti irraggiungibili, fare affari e stabilire nomine propedeutiche ad altre, e ancora maggiori utilità, Cambiare, di fatto, il corso naturale e democratico delle cose».
La mia impressione è che questo secondo volume stia avendo un risalto mediatico inferiore rispetto al primo, nonostante la realtà descritta offra molteplici spunti di riflessione. Dalla presunta loggia Ungheria alle faide correntizie, alle dinamiche “politiche” che determinano la gestione di inchieste e pentiti, alla deriva giustizialista iniziata con Tangentopoli, all’opacità di certa antimafia, per finire all’implosione di un sistema che ha portato a compimento la profezia di Francesco Cossiga: «Finiranno ad arrestarsi tra di loro». Dalla giustizia ad orologeria all’intreccio perverso tra procure e informazione, che fa dire a Palamara che un gruppo composto da un procuratore della Repubblica con i suoi aggiunti e sostituti, un ufficiale della polizia giudiziaria “ammanicato” con i servizi e un paio di giornalisti delle testate più importanti ha un potere superiore a quello del Parlamento, del premier e dell’intero governo.
Lo spaccato inquietante conferma quanto sia indispensabile mobilitarsi a sostegno dei referendum che si terranno il 12 giugno. Tranne qualche rara eccezione, da questa classe politica non c’è da attendersi nessun sussulto di dignità sul tema della giustizia. Solo ipocrisia, come quella di chi sostiene che le riforme vanno fatte in Parlamento: campa cavallo. Tanto che fa venire i brividi alla schiena la reazione scomposta dell’Associazione nazionale magistrati contro la mini-riforma Cartabia: un attacco sostanziale al principio cardine della separazione dei poteri, secondo il quale compito dei giudici è applicare le leggi, non produrle.
Sono emblematici il mutismo del servizio pubblico e l’indifferenza generale nei confronti della mortificazione del fondamentale diritto dei cittadini ad essere informati sui referendum. Così come il silenzio assordante sulle vicende raccontate da Palamara, che coinvolgono toghe stellate e i vertici istituzionali della magistratura e della politica italiana negli ultimi vent’anni.
Tutto questo conferma la sensazione di avere di fronte una casta dalla doppia morale. Sull’esistenza di due giustizie, con un metro di giudizio valido per tutti tranne che per i magistrati e uno esclusivo dei giudici, profetiche appaiono le parole di Giulio Andreotti, opportunamente rievocate da Sallusti: «Quando ho dovuto affrontare il mio processo ho capito perché la stupenda scritta “La legge è uguale per tutti” è alle spalle e non davanti agli occhi del giudice».
Pacifismo e putinismo
Ho la spiacevole sensazione che dietro molti pacifisti di facciata in realtà si nasconda una inconfessabile simpatia per un autocrate come Putin. Perché è antiamericano, perché le canta a questa Europa che non ci piace. Il fondamentalismo ideologico è il più potente tra gli oppiacei.
Passano così in secondo piano le sofferenze di un popolo in fuga. Ci sono già, a parte le vittime, 2 milioni e mezzo di profughi. Alla gente con il culo al caldo, in fondo, interessa solo non perdere nessuno dei privilegi dei quali gode la società occidentale, quella stessa società che possono criticare perché hanno la fortuna di viverci. In Russia non gli sarebbe consentito farlo, per dire. Privilegi che vedono minacciati da una eventuale estensione del conflitto. Interessa che il prezzo del gas non aumenti ancora, che nei nostri negozi continui ad arrivare il pellet, la pasta, la farina. Interessa continuare a fare lezioni su qualsiasi questione, “approfondita” leggendo il post di miocuggino, spaparanzati sul divano di casa con lo smartphone in mano. Ma di questi 2 milioni e mezzo di profughi ne vogliamo parlare?
Intellettuali di vaglia, argomentando il proprio pacifismo non ne fanno cenno. Davvero siamo tutti numerini senza valore? Un cinismo deludente per me che sento di avere affinità con quel mondo. Perché, diciamoci la verità, ovvia ma che purtroppo va ribadita in questo impazzimento generale: non vogliamo la guerra. A me non piace Zelensky e non piace Putin. Ma ho chiaro in testa chi ha aggredito e chi è stato aggredito. Non mi pare che ci siano russi costretti a scappare, che hanno avuto le case distrutte e il cui Paese è stato attaccato nei principi fondamentali della democrazia: libertà, indipendenza, autodeterminazione dei popoli.
È compito della diplomazia risolvere la crisi, ma nel frattempo che facciamo? Lasciamo massacrare un popolo? Questa, per me, è la questione vera. Non credo che se una sorte del genere fosse toccata a noi avremmo accolto l’invasore stendendo al suo passaggio un tappeto di petali di rose. O almeno me lo auguro.
La guerra e noi
Provocano sempre sconcerto la violenza e le guerre, rigurgito di pulsioni primitive che si fa fatica a definire. Cos’è la guerra? Perché gli uomini e le nazioni si fanno la guerra?
Ci sono certamente delle ragioni che portano gli uomini a calpestare la vita e la dignità di altri uomini per un qualche interesse. Anche se qualsiasi motivazione risulta incomprensibile agli occhi di chi pone al primo posto della propria scala di valori la vita e la dignità umana.
Da giorni leggo i commenti e i post delle tifoserie contrapposte. Come se davvero la guerra possa essere accomunata ad una partita di calcio o ad una gara canora. Se l’uomo perde di vista l’aspetto umano degli avvenimenti, perde sé stesso.
C’è un popolo in fuga dal proprio Paese, che ha dovuto abbandonare la propria casa con quattro cose strette dentro un sacco. Una vita dentro un sacco. Ci sono bambini che piangono terrorizzati. C’è la piccola Mia, che nasce nel sotterraneo della metropolitana di Kiev adattato a rifugio antiaereo. C’è il fischio della sirena che invita a correre negli scantinati perché dal cielo stanno per piovere bombe. Ci sono civili e militari che muoiono, e non era nei loro progetti. Non così, almeno. C’è gente che ha perso tutto ciò che aveva. C’è il ricordo, già diventato vecchissimo, di una condizione di normalità stuprata dall’invasione.
Le democrazie hanno mille imperfezioni, spesso sono inefficienti. Ma rappresentano il meglio di cui l’uomo è stato capace per esprimere la sua natura di animale sociale. Sono il prodotto di un percorso evolutivo millenario; nel secondo dopoguerra, l’esito della fine dei conflitti e della sconfitta delle dittature in Europa: “la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, ammoniva Winston Churchill in un celebre discorso del 1947.
A differenza di molti altri conflitti in corso sul pianeta, dei quali colpevolmente non sappiamo o facciamo finta di non sapere niente, questa in Ucraina è una guerra in presa diretta. Uomini, donne, bambini e anziani non sono numeri, ne vediamo i volti sofferenti. Il dolore provocato non dobbiamo immaginarlo, ferisce i nostri occhi.
Per questo è sconcertante l’incontinenza verbale del tifoso della strada. Mette angoscia ciò che non si riesce a comprendere.