Chi sgobba, chi ride e chi piange

Per chi non avesse consultato l’albo pretorio sul sito web, il consiglio comunale di ieri poteva benissimo rientrare nella categoria delle riunioni carbonare. E pensare che la trasparenza era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, quando si favoleggiava addirittura di un ufficio stampa e di pubblicazioni periodiche sull’attività amministrativa del Comune. L’affissione per le strade del paese della convocazione del consiglio comunale doveva proprio rappresentare il segnale di un nuovo corso. È stato così fino a quando (casualità?) le acque non si sono agitate e si è cominciato ad economizzare sulla carta, prima affiggendo soltanto un manifesto dentro il Palazzo municipale, quindi eliminando anche quello.
Il primo punto all’ordine del giorno prevedeva la surrogazione di Eufemia Surace, presidente del consiglio dimessasi due mesi fa nell’indifferenza più completa, come se fosse normale che tre componenti, uno dopo l’altro, abbandonino il consiglio comunale. Un dovere di chiarezza che per la verità non hanno avvertito i consiglieri dimissionari per primi, almeno pubblicamente, nemmeno nei confronti dei propri elettori.
Torna così tra i banchi comunali “mastro” Mimmo Fedele, figura storica di amministratore che, dopo mezzo secolo, tra un anno dirà addio alla politica attiva dalla poltrona di presidente del consiglio. L’apertura di una discussione infinita, con botta e risposta tra il sindaco e i consiglieri di minoranza Creazzo e Papalia, ha dato vita ad un siparietto a tratti comico. Creazzo ha vestito i panni di alzatore, secondo l’eccellente tradizione pallavolistica italiana che da Fefè De Giorgi e Paolo Tofoli conduce a Valerio Vermiglio. E il sindaco non si è fatta sfuggire l’occasione per chiudere il punto. Ma si può citare come esempio di mala amministrazione la vicenda del campo di calcetto realizzato dalla passata maggioranza, quella dei propri colleghi di lista? Una struttura non collaudata, inaugurata in pompa magna per ragioni elettorali, abbandonata a se stessa e mai utilizzata. Eppure è accaduto.
Altra bizzarria, la votazione di un “ordine del giorno sulla crisi che investe il settore dell’agricoltura”, sui contenuti del quale nessuno ha proferito parola. Cosa sia stato deliberato, in concreto, resterà un mistero. Approvati infine lo schema di convenzione per la gestione associata di una stazione unica appaltante provinciale, gli oneri di urbanizzazione e lo scioglimento della convenzione di segreteria con il comune di Melicucco.
C’è stato anche il tempo per un’escursione sul terreno spinoso della centrale per la biomassa, quella dei settanta posti di lavoro propagandati in campagna elettorale, tanto per intendersi. A Papalia viene da ridere ogni volta che se ne parla, ma i giovani eufemiesi si sganasciano di meno. Il nuovo annuncio indica ottobre come possibile data di inizio dei lavori. Un risultato costato fatica reale, secondo quanto dichiarato dal sindaco: 240 kg di carta portati personalmente dallo scantinato di un palazzo della regione all’assessorato competente. Per fare il sindaco ci vuole davvero un fisico bestiale.

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Il senso del pudore

Possono girarci e rigirarci attorno quanto gli pare. Spaccare il pelo in quattro dopo averlo trovato nell’uovo. Accampare tutti i sentimenti di riconoscenza e di devozione di questo mondo. Insistere con la tiritera delle toghe rosse e dell’ineluttabilità delle barricate contro il golpe giudiziario. Rispolverare la blasfemia costituzionale dell’asservimento della magistratura al governo, in spregio alla classica tripartizione dei poteri.
La sostanza del voto alla Camera del 5 aprile però non cambia. Trecentoquattordici deputati hanno ritenuto legittima la richiesta di sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria (Procura della Repubblica e giudice per le indagini preliminari di Milano) per spostare il processo “Ruby” dal Tribunale di Milano al Tribunale dei ministri, sulla base di una motivazione che sta rendendo l’Italia ridicola agli occhi del mondo intero. Quando Berlusconi telefonò in questura per chiedere il rilascio della minorenne marocchina, stava esercitando le sue funzioni istituzionali di premier, in quel momento preoccupatissimo per la possibile crisi diplomatica che poteva scoppiare con uno stato estero. Già, perché il presidente del consiglio, vecchio credulone, aveva dato credito alla fanfaluca di un’avvenente giovinetta che si era dichiarata nipote del leader egiziano Mubarak. E poiché Berlusconi agiva nell’esercizio delle sue funzioni di premier, suo giudice naturale è il tribunale dei ministri.
Altro che facce di bronzo. Qua non è rimasta nemmeno la faccia. E nessuno che consideri un orizzonte più distante delle scadenze giudiziarie del premier. O che dica la verità sull’unica vera, reale e spudorata ragione: impedire lo svolgimento del processo, visto che il Tribunale dei ministri per procedere ha bisogno dell’autorizzazione della Camera dei deputati. Sì, ciao: come non detto.
Non rappresenta un bel segnale per la democrazia la possibilità che sia la maggioranza parlamentare a stabilire la verità dei fatti. Secondo quella stessa logica populista che vede nell’eventuale condanna di Berlusconi il sovvertimento del voto popolare. Come se il consenso elettorale possa garantire a chicchessia l’impunità. Quel che diranno gli storici del futuro sull’era berlusconiana non è possibile saperlo, anche se non sembra complicato intuirlo. Per il presente, non è forse inutile conoscere i nomi dei deputati calabresi che hanno avallato questa castroneria: Francesco Nucara, Santo Versace, Giovanni Dima, Giancarlo Pittelli, Jole Santelli, Lella Golfo, Giuseppe Galati, Michele Traversa, Ida D’Ippolito, Antonino Foti (tutti del Pdl), Elio Belcastro (“Iniziativa responsabile”) e Aurelio Misiti (ex Idv, ex Mpa). Così, tanto per avere un’idea nel caso che un giorno si possa nuovamente scegliere tra diversi candidati e non limitarsi a ratificare una lista di nominati.

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Un terzo polo senza i partiti del terzo polo

Forse non hanno alcuna somiglianza con i “quattro straccioni di Valmy” evocati da Francesco Cossiga per dare una pennellata di romanticismo ad uno dei molteplici tentativi di ricostruire attorno alle forze di centro l’asse portante del sistema politico italiano. Fatta la tara delle ambizioni e delle rivendicazioni personali (senza dubbio presenti), l’idea di fondo non dista molto dalla concezione che indica nella soluzione “centrista” l’esito costante dello scontro politico in Italia. Il “connubio” di Cavour e Rattazzi, il trasformismo depretisiano, Giolitti, lo stesso fascismo (con Mussolini nel ruolo di mediatore tra ras locali, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, reduci, corporativisti), prima ancora della “balena bianca”, dimostrano come – al di là degli interpreti – lo schema di gioco sia sempre lo stesso da centocinquanta anni.
Certo, a livello nazionale l’esperimento della provincia reggina sta passando quasi inosservato. E non potrebbe essere altrimenti. A meno che i vertici dell’Udc non riescano ad essere convincenti nel dichiarare cosa, se non le poltrone, impedisce di fare a Reggio ciò che Casini va predicando da due anni in giro per tutta Italia.
Il Polo civico raccoltosi attorno a Pasquale Tripodi, Pietro Fuda e Giuseppe Bova, per come si è costituito, presenta delle differenze sostanziali rispetto al progetto originale del Terzo polo, poiché per certi versi (presenza di una componente proveniente dal Pd, quella di Bova) va addirittura oltre i confini stabiliti a livello nazionale. Se i detrattori vi vedono soltanto il tentativo di restare aggrappati alle poltrone messo in atto da una classe politica “vecchia”, i promotori ne sottolineano la rivendicazione di autonomia decisionale rispetto all’imposizione dall’alto, sottolineata dallo slogan “la nostra autonomia senza se e senza ma”.
È un dato di fatto che Tripodi e Bova sono fuorusciti da due partiti tradizionali. E che le scelte riguardanti i candidati a sindaco e presidente della provincia delle altre coalizioni sono causa di frizioni non meno forti con il livello romano. La vicenda del siluramento della candidatura di Luigi Fedele da questo punto di vista è sintomatica. È giunto forse il momento di una riflessione comune sui meccanismi di selezione della classe politica. I partiti non sono più palestra di niente. Men che meno sono utili per la formazione della classe dirigente del paese. Il loro declassamento al ruolo di comitati elettorali al servizio del leader di riferimento, se ci riporta all’Ottocento e alla lotta politica nella fase precedente lo sviluppo dei partiti di massa, ha anche come effetto il proliferare di cartelli coincidenti con le aspirazioni personali di candidati che, a Roma come nella periferia, consumano gli stessi stanchi riti.

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Lo spettacolo della politica e la politica spettacolo

Mancava solo questa: il ricorso alla “prova tv” per sanzionare il comportamento di un ministro (La Russa) che in Parlamento, come fosse un Pasquale Bruno qualsiasi (rude difensore degli anni ’80-’90 soprannominato “O animale”) in preda a trance agonistica, manda a quel paese il presidente della Camera e si produce in uno show sguaiato mentre parla il capogruppo del Pd, Dario Franceschini. Dopo che in precedenza, in un eccesso di superomismo, aveva sfidato a petto in fuori i dardi (le monetine) tirati dai manifestanti accorsi davanti al portone di Montecitorio per protestare contro il tentativo di affossare il processo Mills con l’approvazione della legge sulla prescrizione breve. Una scena che ci riporta ad un illustre precedente, Bettino Craxi sotto assedio all’uscita dell’hotel Raphaël, la metafora del declino politico del leader del Partito socialista. Ora come allora, quando i manifestanti contestarono la bocciatura dell’autorizzazione a procedere contro il segretario del Garofano, è sempre il tema della giustizia ad alimentare le più feroci contrapposizioni. Forse perché il cittadino comune ha difficoltà a subire passivamente lo scenario orwelliano di una giustizia uguale per tutti, ma per alcuni “più uguale”. Un’accelerazione improvvisa e sospetta che contraddice le promesse del Guardasigilli Alfano sul varo di un progetto di riforma costituzionale della giustizia liberato dallo spettro di leggi ad personam. Che invece torna prepotentemente alla ribalta in questo rissoso tornante.
Il clima da corrida fa intravedere tempi duri, da campagna elettorale. I decibel sono quelli. Ma ogni giorno ha la sua pena, o il suo show, che fa lo stesso. Perché l’esibizione di Berlusconi a Lampedusa è stato un numero di cabaret degno del migliore avanspettacolo. Lo schema è quello classico, già sperimentato per il post-terremoto a L’Aquila e per la vicenda dei rifiuti a Napoli: situazione di immobilismo assoluto, arrivo del premier, “ghe pensi mi” e soluzione immediata. È l’uomo del fare, capace di compiere miracoli in 48 ore. Nell’ordine: lo sgombero di 6.000 tunisini; la realizzazione di un campo da golf, una scuola, un ospedale e un casinò, un piano fogne e uno elettricità; la promozione di un “piano colore” per l’isola (troppo grigio, che tristezza); l’acquisto dei pescherecci in Tunisia per impedire le partenze; una moratoria fiscale, bancaria e previdenziale; la riduzione del prezzo del gasolio per i pescatori dell’isola e l’istituzione di una “zona franca”. Non basta? Avanti con la candidatura di Lampedusa per l’assegnazione del premio Nobel per la pace. Serve una garanzia? L’acquisto di una villa è come la ceralacca, sfiora l’autorevolezza della firma sul contratto con gli italiani da Bruno Vespa.
Se un paio di giorni dopo l’exploit a favore di telecamere i problemi si ripresentano nella loro drammatica gravità, pazienza. L’effetto mediatico, in ogni caso, c’è stato. Come nella testimonianza (falsa) della terremotata (falsa) a “Forum”. Così, mentre la maggioranza tenta di imbavagliare i talk show in vista dell’imminente campagna elettorale per le amministrative, l’Agcom richiama il tg1, il tg4 e Studio aperto per la sproporzione della presenza del governo nei servizi giornalistici e il Parlamento europeo inserisce l’Italia tra i paesi a rischio (con Ungheria, Estonia e Romania) per quanto riguarda la libertà di informazione.

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Due poltrone che scottano

Servirebbe la sfera di cristallo per capire come andranno a finire le partite sulle candidature per le prossime elezioni amministrative in provincia di Reggio Calabria. Non potendone trovare una a buon mercato, proviamo a mettere in fila un paio di circostanze, nella speranza di riuscire così ad afferrare il bandolo della matassa in una situazione a dir poco surreale. Un’impresa da guinness dei primati.
Diamo un’occhiata in casa del centrodestra. I duellanti sono (erano?) due. Il sindaco facenti funzioni di Reggio, Giuseppe Raffa, e il capogruppo del Pdl al consiglio regionale, Luigi Fedele. Il primo sponsorizzato dal coordinatore provinciale Nino Foti, il secondo lanciato direttamente dal governatore, Peppe Scopelliti. La bilancia sembra pendere a lungo dalla parte di Fedele, che può contare sull’appoggio dei consiglieri regionali colleghi di partito, espresso con documento fatto pervenire ai vertici di via dell’Umiltà, oltre che sul sostegno di gran parte della rappresentanza pidiellina calabrese in Parlamento. La candidatura rappresenterebbe anche un risarcimento per lo sgarbo del 2008, quando alle elezioni politiche, dopo un estenuante tira e molla con Foti, Fedele fu retrocesso nel listino della Camera in tredicesima posizione, primo dei non eletti. L’allegra passeggiata notturna di un mese fa sotto la pioggia nel corso di Sant’Eufemia d’Aspromonte, presenti Scopelliti, Sarra e Fedele (che seguiva il corteo sulla macchina) sembrava preludere all’investitura. Ma non è così. Raffa e Foti, che gioca da sempre una personalissima partita contro Fedele, non demordono. Per giorni la tratta Roma-Reggio diventa infuocata. Alla fine (ma siamo sicuri?) la spuntano loro, non si sa con quali argomenti, visto che Berlusconi aveva dichiarato “non posso scontentare il mio governatore”. Uno schiaffo che deve avere fatto male, se nessuno del Pdl calabrese si è fatto vedere alla conferenza stampa nella quale Raffa annuncia la sua candidatura per palazzo Foti, né ha sentito il bisogno (a parte Gianni Nucera) di rilasciare dichiarazioni.
Spostiamoci al centro. L’Udc conferma l’accordo regionale con il Pdl, ma il suo politico di punta nel reggino, Pasquale Tripodi, è di tutt’altro avviso. Da un po’ di tempo scalpita per il mancato riconoscimento della sua affermazione alle passate elezioni regionali. Messo all’angolo da Scopelliti, che promuove in giunta Stillitani, e dal suo stesso partito, che lo esautora da capogruppo, intraprende un braccio di ferro quotidiano con il coordinatore regionale, l’europarlamentare Gino Trematerra. Obiettivo dichiarato è la costituzione, almeno nella provincia di Reggio, del Polo per la nazione con l’autorevolissima candidatura di Pietro Fuda per la provincia. Sarebbe un passaggio coerente con la strategia nazionale del partito. Sarebbe. Perché in realtà sul percorso ci sono le mine piazzate da Trematerra e dalla rappresentanza regionale dell’Udc, fedele allo schema dell’alleanza con Scopelliti. Probabile, quindi, che Tripodi sarà espulso dal partito per volere fare quello che Casini predica da più di un anno.
E a sinistra? Massimo Canale, candidato a sindaco di Reggio, è da tempo in campagna elettorale, anche se non si capisce con quali truppe. In Italia dei valori si sta consumando la lotta al calor bianco tra il segretario provinciale Domenico Ceravolo, che punta su Canale al comune e l’uscente Giuseppe Morabito alla provincia, e Giuseppe Giordano il quale, spalleggiato dal coordinatore cittadino Aldo De Caridi, ha già stretto un accordo con SeL e i Verdi e fatto sfiduciare Ceravolo (confermato però a Roma) dalla maggioranza del direttivo di Idv.
Il Pd non è ancora pervenuto. Buio pesto sul comune. Per la provincia dovrebbe essere ricandidato Morabito, anche se ancora nessuno si è espresso. Forse qualcuno lo farà al risveglio dal coma farmacologico in cui vegeta il partito, che per bocca del commissario provinciale Mommo De Maria dovrebbe farsi promotore di un’interpartitica dedicata alle candidature. Interpartitica? Forse sarebbe prima il caso di fare chiarezza in casa propria.
A bordo ring, l’Mpa – orfano di Belcastro e Mesiti, ora tra i “responsabili” che stanno tenendo in vita il governo – che a livello nazionale si sta spendendo per il terzo polo e che a Reggio flirta a sinistra e al centro, e i Repubblicani di Nucara a caccia di una candidatura alla provincia da strappare ai litigiosi alleati pidiellini.
Alla faccia della semplificazione del quadro politico.

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Tripoli bel suol d’amore

“Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Non condivido, ma è stato detto. Siamo in guerra? Ufficialmente, no. Sarebbe incostituzionale (articolo 11). Anche se il divieto già in passato è stato aggirato utilizzando la definizione “missione umanitaria” per azioni che sono state “anche” umanitarie, ma non solo. L’ombrello della risoluzione 1973 dell’Onu dovrebbe consentire il superamento di ogni perplessità: autorizzazione di una no-fly zone sulla Libia e adozione di tutte quelle misure ritenute “necessarie per proteggere i civili dagli attacchi”. Chiaro? Mica tanto. Si intuisce un approccio alla cieca, approssimativo e vagamente ipocrita.
L’operazione “Alba dell’Odissea”, dopo una settimana, non ha ancora uno scopo ben definito. Per diversi giorni, neanche un comando riconoscibile. Il passo indietro degli Stati Uniti (Obama: “saremo un partner tra i tanti”) ha accentuato il senso di smarrimento dell’Unione europea. Ma l’Europa può esistere soltanto attraverso burocrati che misurano la lunghezza dei cetrioli o stabiliscono che percentuale di cacao deve avere il cioccolato? A distanza di settant’anni sono ancora inascoltate le parole di Altiero Spinelli sulla necessità di realizzare una politica estera comune mettendo fine alle “politiche nazionali esclusiviste”. La contrapposizione è la solita: Berlino contro Parigi. Con i tedeschi freddi nei confronti di un intervento del quale non riescono ad intuire i vantaggi politici, né quelli economici. Ma questo è soltanto uno dei motivi di frizione. C’è anche lo scontro tra Francia e Italia, con il protagonismo di Sarkozy e l’esprit de grandeur d’Oltralpe. Il passaggio delle basi italiane sotto il comando francese, in assenza di un coordinamento della Nato, avrebbe rappresentato un frustrante ridimensionamento del ruolo dell’Italia, oltre che un’intollerabile forzatura nei confronti dell’intera comunità internazionale. Difatti, alla fine Sarkozy ha dovuto accettare l’affidamento della regia delle operazioni alla Nato, anche se rimane ancora poco chiaro lo schema operativo.
Il difetto di leadership si accompagna con la confusione della strategia. Quali sono gli obiettivi della missione? La protezione dei civili, o anche un sostegno logistico all’avanzata dei ribelli verso Ovest? È stata esclusa la “caccia” a Gheddafi: l’opposizione libica rifiuterebbe un’ipotesi che non contemplasse un suo impegno diretto per la destituzione del rais. E comunque, se si dovesse muovere guerra a tutte le dittature o a tutti gli Stati che non rispettano i diritti dell’uomo, la scelta su chi invadere per primo sarebbe vastissima. A cominciare dalla Cina. Che per adesso resta alla finestra con Russia e India, paesi con i quali condivide il disappunto per i bombardamenti. Se obiettivo dell’azione militare non è l’eliminazione del regime, può esserlo il suo contenimento? Magari favorendo una divisione della Libia tra una parte orientale (Cirenaica) da affidare ai ribelli e una occidentale (Tripolitania) da lasciare in mano a Gheddafi? Sulla scorta dell’esperienza vissuta ai tempi della guerra del Golfo, quando si permise a Saddam Hussein di risollevarsi dalla sconfitta militare, una soluzione del genere convince poco la “coalizione dei volenterosi”.
C’è poi la scomodissima posizione italiana, con i tentennamenti dovuti all’imbarazzo di chi, fino a qualche giorno fa, ha baciato la mano del dittatore e con il conflitto latente tra le forze di governo (la contrarietà della Lega e il “troppo entusiasmo” del ministro La Russa). L’impressione è che ci sia stato un iniziale errore di valutazione, una fiducia eccessiva nel declino di Gheddafi, che aveva fatto sperare in un finale di partita indolore, simile a quello di Mubarak e Ben Ali. Proprio nel momento in cui il crollo del regime sembrava prossimo, è mancata però un’efficace azione diplomatica internazionale che impedisse l’isolamento dell’opposizione libica e la sottraesse alla ritorsione governativa. Soltanto dopo il fallimento della spallata interna, la comunità internazionale ha preso una posizione più netta. Ma la democrazia è esportabile? C’è stato un tempo in cui si pensava di poterlo fare “sulla punta delle baionette”. Poi ci si è resi conto che si trattava di un’utopia.

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L’Unità d’Italia tra mito e controstorie

L’Italia del 1861 non era certamente una democrazia compiuta, ma era pur sempre uno Stato che consentiva al Sud, tanto per entrare a piedi uniti nelle polemiche di questi giorni, di uscire da una realtà per certi versi ancora feudale. Il revisionismo storiografico degli ultimi tempi e, soprattutto, la strumentalizzazione politica che con molta malizia viene da più parti fatta, sembrano condurre invece alla conclusione che quasi ci si debba vergognare del Risorgimento e che forse sarebbe stato meglio non unificare il Paese. Per essere chiari, io non credo che il revisionismo in sé costituisca un male. I fatti storici sono sempre rivisitabili ed è naturale che più carte inedite escono dagli archivi, più la storia va riscritta alla luce delle nuove fonti. Ma su alcune questioni di fondo non ci dovrebbero essere dubbi. Giampaolo Pansa, per esempio. I suoi lavori sugli eccessi della Resistenza vanno bene se si vuole dire che anche tra chi fece la Resistenza vi furono dei criminali, non vanno bene se si vogliono mettere tutti sullo stesso piano, perché è innegabile che da una parte si lottava per la libertà, dall’altra per la dittatura nazifascista. Su questo non si può transigere: il giudizio storico è definitivo, né può essere messo in discussione. Con le luci e le ombre che sono inevitabili in processi tanto straordinari quanto complessi.
Purtroppo, spesso a prevalere è la bassa strumentalizzazione politica. Ho letto pure io Terroni, di Pino Aprile. Non c’è dubbio che il libro aiuti a comprendere le ingiustizie e i crimini commessi contro il Mezzogiorno. Ma ha ragione Vittorio Cappelli, quando precisa che “dire che una fantomatica storia ufficiale abbia trascurato o nascosto la drammaticità e il peso del brigantaggio e della questione meridionale è una sonora sciocchezza”. Senza dire che il metodo di Aprile, dal punto di vista scientifico, non è correttissimo. Le testimonianze “si parlava di 1.000 morti” non sono verità storiche. Se dai registri parrocchiali di Pontelandolfo risultano 150 vittime, mentre per la tradizione orale si arriva anche a 9.000 e si utilizza il dato più alto, si vuole sostenere una tesi polemica (e forse politica), non certo fare storia.
Giordano Bruno Guerri, autore di un libro, Il sangue del Sud, che si inserisce anch’esso nel filone “revisionista” premette che “occorre continuare a considerare il Risorgimento un atto fondamentale, necessario e benigno, della storia d’Italia, pur con tutti gli errori e le colpe che accompagnano gli eventi epocali”. Condivido in pieno.
Non è intellettualmente onesto insinuare, dietro il legittimo tentativo di ricostruire anche le pagine più oscure della nostra storia, un giudizio di valore sull’unificazione che, diciamolo chiaramente, serve soltanto per fare il gioco della Lega. Si poteva fare di meglio? Certamente. Ecco perché non giovano le mitizzazioni e la retorica risorgimentale, ma neanche alcune improbabili “controstorie”. Per quanto mi riguarda, risolvo la questione “all’inglese”: giusto o sbagliato, questo è il mio Paese.

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Stringiamoci a co(o)rte

Sarebbe troppo comodo, oltre che vigliacco, sparare su Sandro Bondi, ora che la stella del ministro per i beni e le attività culturali sembra in declino. Colpa della famiglia allargata, se uno dei tanti sedicenti politici “non” di professione commette un peccato da Prima Repubblica, due incarichi affidati dal suo ministero all’ex marito e al figlio dell’attuale compagna. “Una storia dolorosa e un caso umano” (parole del ministro), ma anche un chiaro esempio di alimenti pagati con soldi pubblici. Eppure, non si può non rammentare la fertile vena poetica e il trasporto dei versi dedicati al premier dall’ex sindaco comunista di Fivizzano: “Vita assaporata/ Vita preceduta/ Vita inseguita/ Vita amata/ Vita vitale/ Vita ritrovata/ Vita splendente/ Vita disvelata/ Vita nova”. Commovente.
Di personaggi più realisti del re ne sono sempre esistiti. Bondi non è una mosca bianca e gli ultimi avvenimenti forniscono ulteriori conferme ai tanti esempi del passato, alcuni anche di casa nostra. Ineguagliabile rimane il senatore Antonio Gentile, nel 2002 presidente del comitato promotore per il conferimento a Berlusconi del premio Nobel per la pace. Più di recente, quanti stanno tentando di risolvere con ogni mezzo le due questioni più urgenti per il Cavaliere, la giustizia e l’informazione.
L’uomo del momento è senza dubbio il deputato Pdl Luigi Vitali (già sottosegretario alla Giustizia, noto per essere stato relatore, nel 2005, della legge “salva-Previti”), il quale, prima di essere sconfessato da Niccolò Ghedini e dallo stesso Berlusconi, aveva anticipato la presentazione di un progetto di legge sulla “prescrizione breve”: pena ridotta per incensurati e ultrasessantacinquenni, con effetti sulla prescrizione. Mancava solo la foto del beneficiario. Sul fronte dell’informazione, l’innalzamento della temperatura ha comportato il passaggio da Emilio Fede (se si vuole, “onesto” nella sua esplicita faziosità), ad Alfonso Signorini, autore dell’incredibile intervista a Ruby. Per non dire della tv pubblica, con il tg1 del “direttorissimo” Augusto Minzolini capace di parlare, a proposito della vicenda Mills, di “assoluzione” invece di “prescrizione”, tanto per non esser da meno rispetto a Studio aperto che aveva dato notizia dell’assoluzione di Berlusconi anziché del blocco del processo provocato dal lodo Alfano. Non può essere soltanto frutto di masochismo la realizzazione di un telegiornale (quello della rete pubblica ammiraglia) zeppo di servizi leggeri su costume, diete, moda, animali, con la conseguente perdita di autorevolezza e ascolti. Per la gioia di Enrico Mentana, il quale a ragione gongola. Della compagnia fa parte anche il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che vorrebbe a tutti i costi riuscire a regalare a Berlusconi lo scalpo di Santoro o almeno il suo ridimensionamento. Anche a rischio di sfiorare il ridicolo, se soltanto la questione non fosse drammaticamente seria. Come nell’ormai famosissima telefonata di censura preventiva fatta in diretta durante una puntata di Annozero, o con le preziose raccomandazioni contenute nel “codice Masi” per disciplinare gli applausi del pubblico. Per non parlare della proposta per l’atto di indirizzo sul pluralismo avanzata dal senatore Pdl Alessio Butti in commissione Vigilanza, che prevede l’introduzione della doppia conduzione per i programmi di approfondimento politico o l’alternanza dei programmi (esempio: il giovedì, una settimana Santoro, quella successiva Paragone). Una proposta che il presidente della Federazione nazionale stampa italiana, Francesco Natale, non ha esitato a definire “un abominio” e che si aggiunge alla bozza precedente, bocciata, che voleva introdurre due divieti “cuciti” su misura per Santoro: quello di trattare per una settimana lo stesso tema, anche su canali differenti (se Vespa, lunedì, si fosse occupato dei processi del premier, non l’avrebbero potuto fare Floris martedì, né Santoro giovedì), e quello di vietare la conduzione ai giornalisti che abbiano interrotto la professione “per assumere incarichi politici” (guarda caso, Santoro è stato europarlamentare dei Democratici di sinistra).
Intanto, stanno per scendere in campo i mezzi cingolati: Giuliano Ferrara, con una striscia quotidiana dopo il tg1, e Vittorio Sgarbi con alcune prime serate in primavera. Sarà un caso se questo coincide con l’avvicinarsi dello scontro finale con la procura di Milano?

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La scuola ai tempi di B.

Come gli “strumentisti sessionmen” di Enrico Ruggeri, anche Berlusconi ha “già sviluppato il refrain”. Lo fa ormai da diversi anni, ma ancora funziona. Prima, parte lancia in resta; poi, verifica la reazione ai suoi attacchi; infine, se le cose si mettono male, è colpa dei giornalisti che “travisano” il suo pensiero. Per una forma di captatio benevolentiae, al congresso dei cristiano-riformisti il premier ha pensato bene di sferrare un attacco sommario al “relativismo etico” della sinistra “che non difende la sacralità della vita, inneggia alle coppie di fatto e cerca di imporre la cultura della morte e dell’eutanasia”. Dimentico, ovviamente, della giustificazione “dentro le mura di casa mia faccio quello che voglio”, uno dei massimi esempi di relativismo etico. Una performance bollata da Anna Finocchiaro come il solito “stanco repertorio”, nel quale non poteva mancare l’attacco ai comunisti italiani, gli unici ad essere rimasti uguali ai sovietici delle purghe staliniane.
Si sa che il presidente del consiglio è imbattibile nella capacità di conformarsi all’interlocutore che ha di fronte. È di pochi giorni fa – discorso tenuto nell’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola ufficiali – la sortita sul sogno giovanile di diventare carabiniere. D’altronde, in materia di rapidità nel cambio degli abiti di scena, l’Italia ha una storica tradizione, dal mitico Leopoldo Fregoli ad Arturo Brachetti, “l’uomo dai mille volti”. Ma questa volta Berlusconi è andato addirittura oltre la semplice strizzata d’occhio al Vaticano, dettata dall’esigenza di dare una lustratina all’immagine appannata e ammaccata dalle rivelazioni sulle sue poco morigerate abitudini. È arrivato così l’affondo contro la scuola pubblica, accusata di inculcare “idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie”. Una sorta di spot per le scuole private (in gran parte cattoliche), ma anche un insulto gratuito nei confronti dei tanti che lavorano in condizioni rese oggettivamente più complicate dai tagli della Gelmini. Persino il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, deve avere trovato eccessivo il discorso del premier, se ha sentito il bisogno di esprimere la fiducia della Chiesa nella scuola pubblica italiana.
Il problema della scuola non è l’ipoteca ideologica che su di essa eserciterebbe una parte politica. La scuola pubblica non ha niente a che fare con le Frattocchie, tanto per essere chiari. Il dramma sono quegli insegnanti a proprio agio con la grammatica e la sintassi quanto un pastore tibetano con le immersioni subacquee. Laureati che scrivono “qual è” con l’apostrofo, “accelerare” con due elle, “ce ne sono” con un profluvio di apostrofi e accenti, e via strafalcionando. Esiste un problema di preparazione del personale docente, dovuto alle scellerate politiche governative che negli ultimi decenni hanno praticamente concesso a chiunque la possibilità di insegnare. E c’è la questione, per responsabilità non tutte imputabili alla scuola intesa come istituzione, dello scarso riconoscimento (status, autorevolezza, ruolo) attribuito agli insegnanti. Ma le affermazioni irresponsabili non sciolgono i nodi, sono utili soltanto per completare e giustificare lo smantellamento dell’intero sistema scolastico pubblico.

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Italia milionaria

Con la corrosiva ironia che lo contraddistingueva, Leo Longanesi metteva a nudo l’endemico familismo italico sostenendo che sul tricolore andrebbe stampato il motto “tengo famiglia”. Eppure, un limite alla sfrontatezza non guasterebbe. Quando Fabrizio Cicchitto indica nel Pdl l’estremo baluardo della democrazia italiana contro l’ingerenza e lo strapotere della magistratura politicizzata, che “vuole sovvertire il voto popolare”, calpesta Montesquieu e oltre 250 anni di civiltà giuridica fondata sul principio della separazione dei poteri, non sul consenso elettorale inteso come diritto all’impunità. Da questo punto di vista, anche l’ultima uscita di Berlusconi sulla necessità di riformare la Corte costituzionale perché “boccia leggi giuste” rappresenta l’ennesimo affondo contro un organo dello Stato, oltre che il sintomo dell’allergia per quel sistema istituzionale di checks and balances che sta alla base delle democrazie contemporanee. Sull’incoerenza logorroica di Daniele Capezzone esiste ormai una sconfinata letteratura: il confronto tra le dichiarazioni rese dall’ex pupillo di Marco Pannella prima che diventasse portavoce del Pdl e quelle oltranziste a difesa del premier è davvero sconcertante (per usare un aggettivo molto gradito dall’ex enfant prodige radicale). Per non dire dell’acqua che deve essere passata sotto i ponti da quando Daniela Santanchè affermava che il Cavaliere “non ha rispetto per le donne” e le concepisce “solo orizzontali, mai verticali”. È passata molta acqua e pure qualche poltrona visto che, da sottosegretario con delega all’attuazione del programma di governo, la signora più glamour della politica italiana è diventata la più devota e ascoltata consigliera del premier, una specie di Giuliano Ferrara in gonnella e randello. Dopo la battaglia condotta contro Fini per la vicenda della casa di Montecarlo e la promessa di un posticino al governo per il suo partito (e, si intuisce, un paio di candidature alle prossime elezioni), persino Francesco Storace, di recente, si è prodotto in una difesa del premier imbarazzante, che lascia intendere come neanche la destra dura e pura trovi scandaloso derogare ai suoi tanto decantati valori.
Non penso che l’indignazione sia un sentimento snob e radical-chic. Non credo neanche che ci troviamo di fronte a due mondi antropologicamente diversi. La triste parabola dei parlamentari di Futuro e libertà che con la coda tra le gambe stanno facendo rientro all’ovile, dopo essersi accorti che la spallata di Fini non ha avuto l’effetto immaginato, dimostra proprio quanto l’opportunismo prevalga su ogni altra considerazione.
Ha ragione Roberto Vecchioni, fresco vincitore del festival di Sanremo: “questa notte dovrà pur finire”. Che poi è il convincimento (“ha da passa’ ’a nuttata”) di Gennaro Jovine/Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”, di fronte allo sfascio etico dell’umanità sopravvissuta agli orrori e alla miseria della seconda guerra mondiale. Aspettando che passi la nottata, teniamoci stretta e difendiamo la Costituzione repubblicana: se in tutti questi anni l’Italia ha retto e non è diventata una repubblica sudamericana o la Russia putiniana, grande merito va alla Carta scritta dai nostri Padri costituenti.

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