Firmo, voto, scelgo

La consequenzialità logica è semplice e lineare: firmo, voto, scelgo. È lo slogan del comitato referendario per i collegi uninominali, presieduto da Andrea Morrone e composto da Idv, Sel, Pli, Unione popolare, Democratici di Arturo Parisi (coordinatore politico del comitato), Rete dei referendari di Mario Segni. Entro settembre “firmo” per chiedere l’indizione del referendum; nella prossima primavera “voto” per abrogare il famigerato “Porcellum”; nel 2013, salvo imprevisti, “scelgo” il mio rappresentante in Parlamento. Un diritto del quale il cittadino è stato espropriato nel 2005, quando fu approvata la legge Calderoli, definita “una porcata” dall’allora ministro per le riforme – e, su quella scorta, “Porcellum” dal politologo Giovanni Sartori – a causa di alcune contestatissime caratteristiche, prima fra tutte quella delle liste bloccate.
Il termine ultimo per raggiungere le 500.000 adesioni necessarie (soglia elevata precauzionalmente dai promotori a 600.000) è fissato al 30 settembre, ma per questioni organizzative e burocratiche è bene chiudere la raccolta entro il 25. È possibile sottoscrivere i quesiti referendari presso i banchetti allestiti in tutta Italia o nei comuni, anche in quelli che non hanno dato alcuna pubblicità all’iniziativa. Basta chiedere e da qualche armadietto spunteranno fuori i moduli da firmare.
Fiutata la possibilità di dare la spallata decisiva al governo, negli ultimi giorni anche il Pd si è dato da fare, ospitando alle feste dell’Unità i banchetti per la raccolta delle firme, dopo l’iniziale titubanza spiegata con l’esistenza della proposta democratica già depositata in Parlamento, che ricalca il sistema elettorale tedesco (proporzionale con sbarramento).
Non sarebbe male se, per una volta, a sinistra la smettessero di sbranarsi e si compattassero per raggiungere un obiettivo di vitale importanza per la qualità del nostro sistema politico. In 150 anni di storia unitaria, soltanto le leggi elettorali fasciste hanno superato quella attuale per sprezzo della democrazia: la legge “Acerbo” del 1923, che assegnava i due terzi dei seggi alla lista (o coalizione) che avesse superato il 25% dei voti; la legge del 1928 che introdusse il plebiscito e la lista unica; il regio decreto del 1939 che abolì la Camera dei deputati e istituì la Camera dei fasci e delle corporazioni, priva di alcuna legittimità elettorale e composta “ex officio” dai vertici delle corporazioni e dai segretari federali del partito nazionale fascista.
Il “Porcellum” salva la forma, ma nella sostanza rappresenta un vulnus al diritto del cittadino di scegliersi i rappresentanti, concentrando nelle mani di quattro-cinque leader di partito il potere di “nominare” i componenti dell’intero Parlamento. Probabilmente, proprio per questa caratteristica – tutt’altro che disprezzata dalle segreterie dei partiti – è mancata sempre, al di là dei proclami, un’azione convinta per modificare la legge. Il referendum rappresenta l’ultima spiaggia e la possibilità di inchiodare alle proprie responsabilità l’intera classe politica. L’abolizione dell’attuale legge ripristinerebbe il “Mattarellum” (così denominato dal relatore della legge, Sergio Mattarella), un sistema elettorale misto che assegna il 75% dei seggi di Camera e Senato mediante l’elezione in collegi uninominali e il restante 25% con il metodo proporzionale. Non proprio il massimo della semplicità se si pensa al complicatissimo meccanismo dello “scorporo”. L’obiettivo ultimo dei referendari è però quello di costringere il Parlamento a porre mano ad una nuova legge elettorale che, come ha sottolineato Cittadinanzattiva, ridia autorevolezza ad un Parlamento ormai espropriato del proprio ruolo e tuteli l’effettività del diritto di voto dei cittadini. Se poi i 945 “nominati” (più i senatori a vita) non dovessero essere in grado di confezionare una nuova legge elettorale, sempre meglio il “Mattarellum” del “Porcellum”.

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Il ballo del candidato

Sembra di assistere a quel filmato Rai in bianco e nero nel quale un giovane Enzo Jannacci, interpretando Vengo anch’io. No, tu no, si produce in esilaranti piroette, mentre va avanti e indietro sul palcoscenico. Al momento, si intuiscono molti ballerini, tutti animati da buone e legittime dosi di ambizione. Il balletto però è quello. Non si balla da soli, ma quasi. Ogni aspirante sindaco raccoglie attorno a sé tre-quattro fedelissimi, apre la ruota del pavone e aspetta di vedere “l’effetto che fa”. Se la reazione non è incoraggiante, fa un passo indietro e si ripropone a distanza di tempo.
Uno degli effetti più disastrosi della politica senza partiti è l’improvvisazione. A livello locale, è ancora più evidente che tutto si è ridotto alla capacità del singolo di compattare gruppi di supporto alle proprie velleità. Leaderismo in sedicesimo. Per i programmi sulle prospettive future della comunità e per la visione d’insieme su quel che si intende fare, meglio ripassare. D’altronde, interessano a qualcuno, in elezioni che si riducono a scontro tra le solite famiglie o gruppi di potere, per cui si vota il fratello, il cugino, lo zio, il compare, il datore di lavoro, indipendentemente da ogni altra considerazione?
Nonostante lo scoppiettio di fuochi di paglia più o meno duraturi e credibili, l’attesa maggiore è per le mosse dei due big della politica eufemiese, il consigliere regionale Luigi Fedele e il sindaco Enzo Saccà, entrambi fino ad ora abbottonatissimi e ostentatamente distaccati. Un po’ troppo per non alimentare i sospetti di tatticismo. I tempi stanno stringendo, le elezioni della prossima primavera sono alle porte e chi ha fiato deve cominciare a correre. L’inciucio immaginato da alcuni settori dell’opinione pubblica appare altamente improbabile, dopo il siluro agostano scagliato contro Saccà da Scopelliti – del cui “cerchio magico” fa parte Fedele – sulla gestione allegra e impropria dei fondi Asi. Chi vivrà, vedrà.
Il bilancio dell’amministrazione Saccà, a meno di un anno dalla sua naturale scadenza, è sufficiente soltanto se non si tiene conto delle promesse fatte in campagna elettorale. Che sono state tante. Probabilmente troppe. Nulla da eccepire sull’ordinaria amministrazione, sulla gestione finanziaria dell’Ente (che non è poca cosa) e sui finanziamenti per opere pubbliche e progetti che pure hanno impinguato le casse comunali. Le aspettative però erano altre, gli interventi strutturali in grado di promuovere lo sviluppo economico e migliorare la qualità della vita dei cittadini non si sono visti. Dei centodieci posti di lavoro, settanta dalla realizzazione di un impianto per la produzione di energia con combustione di biomassa, quaranta dallo sviluppo di un grande mercato ortofrutticolo, neanche l’ombra: “su questo impegno, io scommetto la credibilità della mia storia politica”. Scommessa persa. Sono rimasti chiusi nel libro dei sogni anche il riconoscimento di origine protetta dei prodotti ortofrutticoli locali, il piano di promozione turistica e artigianale, la casa della cultura, il centro di aggregazione giovanile e quello per anziani.
Quando ogni cosa, anche la più insignificante, deve passare dalle mani del sindaco, diventa tutto molto complicato. Per questo motivo esistono le deleghe. Un nuovo modo di fare politica non può prescindere da un processo di responsabilizzazione generale. Perché costituisce anche un comodo alibi quello di nascondere l’inerzia dello staff dietro il protagonismo del capo. Gioco di squadra. Ognuno ha un compito preciso da svolgere e, in caso di inadempienza, va sostituito senza esitazione. Non è necessariamente questione di persone, quanto di una mentalità nuova, di un differente modo di rapportarsi con il cittadino, più sincero, meno propagandistico e meno arrogante. Diventa un problema di nomi se si persevera nell’autoreferenzialità e nella strafottenza, sordi e ciechi di fronte ai segnali di malcontento e alle richieste di un rinnovato approccio nella gestione della cosa pubblica.

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Come un’onda che sale

L’immagine di Berlusconi che batte i pugni sul tavolo e mastica amaro, accusando tutti, non solo l’opposizione, di avere commesso “una vergogna”, condannando alla galera un deputato pur di colpire il presidente del consiglio, spiega più di ogni analisi politica il cul de sac in cui si è infilata l’alleanza di governo. La coperta diventa ogni giorno più corta e tenere insieme una coalizione che di fatto non esiste è impresa sempre più eroica. I pochi che ancora non l’avessero capito, prima ancora che sulla doppia votazione per l’autorizzazione all’arresto di Alfonso Papa e Alberto Tedesco, riflettano sulla vicenda del decreto rifiuti, di fatto bocciato dalla stessa maggioranza dopo che, per la prima volta nella storia parlamentare, si è assistito ad un incredibile auto-ostruzionismo, messo in atto dalle forze di governo per guadagnare tempo e tentare un accordo in extremis con il Carroccio.
Proprio i movimenti della Lega stanno mettendo a dura prova la capacità di analisi dei notisti politici. Cosa sta succedendo in via Bellerio? È davvero in corso uno scontro tra Bossi e Maroni o si tratta soltanto di un abile gioco delle parti per costringere all’angolo il premier? Il leader padano non si è fatto vedere, ufficialmente per motivi di salute, il ministro dell’Interno ha preferito sedere tra i banchi della Lega piuttosto che tra gli scranni riservati ai membri dell’esecutivo. Che Papa sia stato condannato e Tedesco salvato è un dettaglio. Nonostante le accuse sulla doppia morale scagliate contro il Pd da Roberto Castelli e, di rimando, le insinuazioni sul doppio gioco della Lega avanzate da Anna Finocchiaro. Il merito dei due casi giudiziari praticamente non è stato neanche preso in considerazione. Si è giocata la solita partita del dopo-Berlusconi, nel centrodestra ma anche nel campo dell’opposizione, come lasciano intuire le più azzardate formule di governo ipotizzate: istituzionali, tecnici, balneari.
Siamo al redde rationem, in un clima reso ancor più fosco dal timore di un ritorno ai tempi di Tangentopoli. Ora come allora si è in presenza di una crisi economica drammatica. La manovra lacrime e sangue colpisce il cittadino e risparmia la casta, eludendo la pressante domanda di aggredire i privilegi con una strafottenza degna della raffigurazione del potere fatta da De André in La domenica delle salme: “il ministro dei temporali/ in un tripudio di tromboni/ auspicava democrazia/ con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”.
Il ceto politico è nell’occhio del ciclone, sballottato e terrorizzato da una bufera giudiziaria che preannuncia ulteriori sorprese. I casi del ministro Saverio Romano e dell’ex collaboratore di Tremonti, Marco Milanese, a differenza di quanto accaduto per le vicende Bertolaso, Cosentino, Scajola e Di Girolamo, potrebbero portare al tracollo del governo. Ancora una volta, la magistratura è accusata di occupare gli spazi della politica, mentre aumenta il terrore che l’ondata giustizialista possa far venire giù tutto. Ma è giustizialismo pretendere che la legge sia uguale per tutti?

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La bella stagione

Sarà che i primi ad avvertirne l’arrivo sono i ragazzi delle scuole, sarà che l’età non è più quella delle no-stop in riva al mare, sarà che certe estati non torneranno più. Ma questa sembra non iniziare mai. Meno male che ci sono i programmi televisivi da saldo a ricordarci che, in fondo, l’estate è l’intervallo tra il palinsesto primaverile e quello autunnale. Repliche, film in bianco e nero e poco altro.
Per certi versi non è un male. Personalmente preferisco il programma Da da da, che all’ora di cena su Rai 1 propone il meglio della storia della televisione pubblica, facendo rivedere spezzoni tratti dagli archivi, alle tante insulsaggini che ci propinano durante il cosiddetto periodo di garanzia,  quello che interessa di più agli investitori pubblicitari. Sempre meglio di certi telegiornali. Con tutto quello che accade in Italia e nel mondo non c’è spazio che per le nuove coppie reali, le abitudini più strampalate, psicologi per cani, notizie di costume. La Libia, tanto per fare un esempio, è scomparsa. Probabilmente ne riparleranno a Gheddafi catturato o ammazzato. Nel frattempo, si spara, si uccide, si vìola il mandato dell’Onu, che non prevedeva la caccia all’uomo. Come se nulla fosse.  
Certo, ci sono anche le tantissime serate di premiazione per questo o quell’evento a ricordarci che sono ancora in circolazione conduttori decaduti e tirati fuori dal sarcofago per l’occasione, che panem et circences è una formula che funziona sempre, che un premio, come il sigaro e la croce di cavaliere di giolittiana memoria, non si nega a nessuno, soprattutto se consente di allestire un baraccone pubblicitario per qualche amena località turistica o qualche ras locale. Ne abbiamo avuto un assaggio con la serata di Miss Italia nel Mondo. Uno spettacolo costato alle casse regionali 900 mila euro, secondo il consigliere del Pd Francesco Sulla. Un anticipo del trasferimento su scala regionale del “modello Reggio”, star e starlette sul corso e rubinetti dell’acqua secchi in periferia. Prossimo appuntamento, l’allestimento del villaggio di Rtl sul lungomare di Reggio, a spese della Regione, dopo i precedenti gravati sulle sofferenti casse comunali.  
Lo spettacolo della politica non va mai in ferie. È un filone dal successo assicurato. Le ultime gag sono state confezionate nelle recenti sedute parlamentari. Il numero evergreen della proposta di abolizione delle province conclusosi, al solito, con un nulla di fatto e con i promotori a fare la figura di Gianni dei Brutos, quello che prendeva sempre gli schiaffi. E il tentativo maldestro di inserire nella manovra economica una norma pro Fininvest, ennesimo e spudorato provvedimento ad personam, ritirato in fretta una volta sgamato l’inghippo e rimasto orfano dopo l’affannosa e generale presa di distanza. A sentire i protagonisti, non ne sapeva niente nessuno, né Berlusconi, né Tremonti, né la Lega. Va a finire che è davvero tutta farina di Gianni Letta, come ha maliziosamente insinuato il ministro dell’Economia. L’elezione di Alfano alla guida del Pdl e la dichiarazione sul “partito degli onesti” appartiene invece ad un’altra categoria. Più sopra ci sono solo Totò e Peppino. 
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Il grande bla bla

C’è fermento o è solo ammuina? Guardando Tizio che parla con Caio, quello all’angolo della strada che dialoga fitto con gli altri, i due compari sulla macchina in giro per il paese, le riunioni carbonare che di carbonaro hanno tutto tranne che la segretezza dei luoghi e dei partecipanti, potrebbe sembrare che siano iniziate le grandi manovre in vista delle prossime elezioni comunali. Cosa ci riserverà il futuro non è possibile prevederlo. Troppo presto, troppa confusione, troppa approssimazione. La situazione è molto fluida. Almeno, così appare. Ma può darsi che sia in proiezione il consueto spettacolo dei cineasti della politica nostrana.
L’amministrazione Saccà è ai titoli di coda ed è tempo di guardare al futuro. Qualcuno ci sta già riflettendo. Anzi non ha altro pensiero, soprattutto perché per un giro è dovuto rimanere fermo ai box, a malincuore, per un forzato pit stop. Ne ha però approfittato per riallacciare qualche contatto bipartisan. E magari ripresentarsi come il nuovo. Non sarebbe la prima volta, e non solo a queste latitudini. In genere, il nuovo che avanza ha i capelli grigi, tinti o ne possiede pochissimi.
A memoria, chi ha ambizioni esce allo scoperto dopo l’estate. L’attuale è invece la fase dei guastatori, quelli che hanno un unico scopo, bruciare le possibili candidature in modo che, alla fine, qualcuno sia “costretto” al grande sacrificio: “mi sono dovuto candidare perché me l’hanno chiesto quasi in ginocchio”. C’è chi ama corteggiare, chi preferisce essere corteggiato e chi corteggia nascondendo il volto da cacciatore dietro la maschera della preda.
Si è sfiorata una lunghissima campagna elettorale, colpa dell’eccitazione suscitata dal rinnovo del consiglio provinciale che ha risvegliato istinti da tempo in naftalina, e si sta correndo il serio rischio di ritrovarsi con più pretendenti alla poltrona di primo cittadino che elettori. Un film già visto nel 2007, con la fantomatica terza lista abortita sul nascere perché, su otto promotori, sette aspiravano al vertice dell’amministrazione comunale. Todos caballeros. Qualcuno si è perso per strada, ma molti sono ancora in pista. Bisognerebbe rendersi conto che per guadagnarsi l’investitura è indispensabile avere un esercito dietro. L’orgoglio e le ambizioni personali non possono bastare, anzi andrebbero tenuti a freno. Anche perché l’autocandidatura non è per niente chic. Un moderno Copernico direbbe che occorre partire da un gruppo e da un programma, per poi procedere alla scelta del candidato più idoneo a rappresentare entrambi. Nell’ipotesi più striminzita, servono almeno i candidati al consiglio comunale. Tutt’altro che facili da trovare, soprattutto da quando i partiti sono passati a migliore vita e la selezione del personale politico-amministrativo predilige altri strumenti, trasversali ad ogni schieramento e imperniati sul rapporto personale, familiare o clientelare.
In questa situazione, quando i soliti noti avranno preso l’iniziativa, agli altri non rimarrà che accodarsi o defilarsi. E sul ponte di comando tornerà la calma: Tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora…


 
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Il furbo, il sordo, il diffidente

In origine furono gli spaghetti western di Sergio Leone: Il buono, il brutto, il cattivo, nella magistrale interpretazione di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Poi fu il turno della parodia di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il bello, il brutto, il cretino) e del riadattamento poliziottesco (Il cinico, l’infame, il violento) con gli attori cult del genere, Tomas Milian e Maurizio Merli. Mancava l’ambientazione politica. Quale scenario più adatto del centrosinistra ringalluzzito dagli scivoloni del governo e perciò concentrato nella singolare attività di immolare le vittorie sull’altare delle lotte fratricide? Detto, fatto. E così è ricominciato ufficialmente il campionato nazionale dell’autolesionismo, dopo la pausa imposta dalle elezioni amministrative e dai referendum. C’è da stare uniti per portare a casa il risultato? Neanche a dirlo. Via con le divisioni e con il piano T (o Tafazzi), quello che prevede, morettianamente, di continuare a farsi del male. Non sia mai che gli elettori prendano eccessiva confidenza con i sorrisi.
Nel centrosinistra il dopo-Berlusconi è cominciato da un pezzo. Lo si capisce dalle scaramucce iniziate già quando, due settimane fa, le bottiglie dello spumante tirate fuori dal frigo erano ancora mezze piene. Si aspetta soltanto di sapere chi scriverà la parola fine e se una dignitosa exit strategy darà al premier la soddisfazione di lasciare un’eredità alla destra post-berlusconiana. Per cui ognuno si ingegna nell’opera di perimetrazione di una propria area. Di Pietro non ha altra scelta che quella semplificata rozzamente dalla fotografia che lo ritrae in conversazione nientemeno che con il presidente del consiglio, quasi fosse un Responsabile qualsiasi. Per farsi largo tra Bersani e Vendola, occorre qualcosa in più dell’antiberlusconismo viscerale di questi anni, soprattutto perché l’antiberlusconismo, dopo Berlusconi, sarà un’arma spuntata. Serve un profilo nuovo, moderato e dialogante con l’elettorato prevedibilmente in uscita dal centrodestra. Un ritorno alle origini? Forse. D’altronde, Di Pietro con la storia della sinistra c’entra poco. Ai tempi di Mani pulite, l’area giustizialista del Movimento sociale italiano faceva apertamente il tifo per il grande accusatore e non è un segreto l’offerta fatta dallo stesso Berlusconi per averlo ministro dell’Interno nel suo primo governo. Quando ancora il premier cavalcava le istanze giacobine e il tg4 di Emilio Fede teneva Paolo Brosio di picchetto davanti al Tribunale di Milano. Non è da escludere che il nuovo schema provochi qualche mal di pancia, peraltro già manifestato da alcuni commenti inferociti sulla rete e dalla dichiarazione di De Magistris: una svolta priva di senso perché “non è lì che vogliono andare i nostri sostenitori” e perché “dobbiamo essere coerenti” (“Non possiamo di punto in bianco trasformarci da ala sinistra ad ala destra del centrosinistra”).
Ma il dado ormai è tratto. Se n’è accorto subito Vendola, finito al pari di Bersani nel mirino di Di Pietro: il leader di Sel perché troppo estremista, quello del Pd perché troppo attendista. C’è della verità nelle parole del governatore pugliese: “Di Pietro vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra”. Legittimo, ovviamente. Anche se fa drizzare le antenne di Vendola, uno abituato a tenere in gran sospetto gli alleati. A ragione, se si pensa che i maggiori ostacoli gli sono stati sempre frapposti dai compagni di viaggio. Insomma, una furbata alla quale non ha abboccato neanche Bersani che, dopo avere messo il cappello sul successo dei referendum – non ascrivibile in toto al Pd, in virtù delle antiche ambiguità su acqua e nucleare e del sostegno espresso apertamente quasi al triplice fischio –, prosegue nel suo corteggiamento a Casini, incurante della propensione della base per un’alleanza Pd-Idv-Sel.
Il problema principale del centrosinistra rimane quello di riuscire a darsi delle priorità, che dovrebbero avere a che fare più con la sconfitta del premier e meno con la cura di orticelli e con la gestione di personalissime porzioncine di potere. Ai generali del centrosinistra – è evidente dall’impegno nel rianimare l’avversario agonizzante – non piace vincere facile. Altrimenti non avrebbero affossato per ben due volte Prodi, l’unico in grado di battere Berlusconi. Un peccato che al Professore, in fondo, non è mai stato perdonato.
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Due mondi lontanissimi

Ancor più che per la grave affermazione (“questa è la peggiore Italia”), il ministro Brunetta dovrebbe provare vergogna per la successiva autoassoluzione, una colossale menzogna sbugiardata dal video del convegno. Per il resto, potrebbe anche avere ragione: se uno ha voglia di lavorare, si alza alle cinque di mattina e va a scaricare cassette ai mercati generali. Verissimo, ma c’è gente che già si regola più o meno così, nonostante per il proprio futuro avesse investito in altri campi, rimettendoci tempo e soldi. Perché il conseguimento di una laurea – persino Brunetta dovrebbe saperlo – costa anni di fatica e denaro. Per poi ritrovarsi, nella migliore delle ipotesi, precari costretti a subire gli insulti di un ministro arrogante e rancoroso.

Che la politica in generale appaia sideralmente distante dai problemi della gente comune, in particolare da quelli di famiglie sempre più impoverite e di giovani che vivono il dramma della disoccupazione, della precarietà e della dequalificazione, non è un mistero. Per incapacità di dare risposte, per difficoltà a volte dovute a una situazione di crisi globale. Non si vuole per forza dare la croce addosso a chi ha responsabilità di governo. Eppure, c’è qualcosa che non torna, non può essere sempre colpa di quattro provocatori se da un po’ di tempo le bordate di fischi e le contestazioni si sprecano. Forse perché il “governo del fare” ha fatto solo promesse rimaste imprigionate nelle quattro mura delle stanze del potere, mentre fuori una realtà di macelleria sociale è sotto gli occhi di tutti.
Un lavoro dignitoso è un miraggio, a meno che non si abbia qualche santo in paradiso. Gira e rigira, il problema al quale nessuno riesce a dare una risposta convincente è sempre lo stesso. Quello dell’uguaglianza delle opportunità e del diritto a costruirsi un futuro, che vanno garantiti a tutti. Non quello di andare a scaricare cassette alle cinque di mattina. Ci possiamo andare tutti, senza perderne in dignità. Però con noi devono venirci anche i figli di quelli come Brunetta, quelli che prendono incarichi e consulenze in strutture pubbliche senza avere nessun merito particolare, i “figli di”, i “parenti di” e le “amanti di” che scalano rapidamente le carriere universitarie. L’indignazione nasce dalla certezza che i figli di quelli come Brunetta non andranno mai ai mercati generali, neanche per farci la spesa. Perché anche se bocciati tre volte all’esame di maturità, hanno pronto il posto da collaboratore del deputato europeo di turno, in attesa di qualcosa di meglio. Mentre chi ha lauree e dottorati non riesce ad assicurarsi neanche uno straccio di contratto atipico.
Sono tanti i giovani che sanno di non potere pretendere, nella situazione attuale, il posto fisso. Aspirano soltanto (è troppo?) a un’occupazione che consenta un progetto sull’avvenire, farsi una famiglia, avere un minimo di garanzie economiche e di tutela sociale. Si può e si deve accettare qualsiasi tipo di lavoro. Lo facciamo tutti. Ma non chiedeteci anche di applaudirvi perché avete ucciso i nostri sogni.
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27 milioni di sberle

Non può che essere accolta con favore la resurrezione dell’istituto referendario, talmente bistrattato negli ultimi sedici anni e fino a ieri da provocare fastidio ogni qual volta se ne annunciava la riproposizione: “tanto il quorum non verrà raggiunto neanche in questa occasione”. Dopo 24 quesiti affossati, finalmente la fatidica soglia è stata superata. Ed è stata una valanga di sì. La percentuale dei votanti (57%), confrontata con il massiccio astensionismo del secondo turno delle amministrative, è stata imponente, anche perché raggiunta al termine di una battaglia impari contro tentativi di azzoppare i referendum al limite della decenza. La scelta dell’ultima data utile, nella speranza che l’avvicinarsi dell’estate incoraggiasse la diserzione; gli espliciti inviti all’astensione di gran parte dell’esecutivo; la scarsissima informazione televisiva. Con la menzione particolare guadagnata dal tg1, grazie alla chicca dell’invito ad “organizzare una giornata al mare”. La scientifica campagna di oscuramento è stata però stracciata dall’insistente passaparola su internet, che ha sancito la vittoria della rete sul mezzo televisivo. L’azione del movimento pro-referendum, tambureggiante e coinvolgente, ha incrociato la volontà degli elettori di non delegare le decisioni riguardanti i grandi temi, per non vedere mortificata l’aspirazione ad essere artefici del proprio destino e per sentirsi protagonisti in una stagione che annuncia grandi cambiamenti.

Sì alla politica, no ai politici. Si potrebbe sintetizzare così il significato di un voto che riconsegna al popolo quel potere decisionale leso dall’attuale vergognosa legge elettorale. Politica energetica “verde”, gestione pubblica dell’acqua, giustizia giusta per tutti. Il merito dei quesiti aiuta a spiegare il dato dell’affluenza e la partecipazione di tanti elettori che hanno sentito il dovere civico di esprimersi sullo specifico dei referendum, ma anche – per esempio – su una questione di principio: quando il pubblico non funziona, occorre fare in modo che sprechi e inefficienze vengano superati, non procedere allo smantellamento e alla cessione ai privati. Un ragionamento che ovviamente vale per l’acqua, ma anche per quei comparti spesso finiti sotto accusa (scuola, sanità, trasporti).
L’altro messaggio stampato sulle schede imbucate nelle urne, la bocciatura del governo Berlusconi e la fine della sintonia del premier con la maggioranza degli italiani, conferma il trend delle recenti elezioni amministrative. Un tramonto che molti hanno accostato all’epilogo del craxismo per l’invito ad andare al mare, ignorato dagli elettori ora come nel 1991, quando il referendum sulla preferenza unica diede il via alla fine di un’epoca. Sarebbe però esiziale abbandonarsi a facili entusiasmi. La vera sfida, per i partiti e per la società civile, è riuscire ad incanalare in una proposta politica alternativa l’energia sprigionata il 12 e il 13 giugno. Perché l’antiberlusconismo può bastare per fare passare un referendum, ma per governare l’Italia occorre altro.
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La sentinella del bidone

Secondo la propaganda fascista, si poteva servire la patria anche montando di guardia a un bidone di benzina. Occorre aggiornare la metafora: è possibile rendersi utili pure se il bidone è un partito politico, purché se ne accetti la nomina a segretario.
Se da un lato la decisione di affidare il Pdl alle cure di Angelino Alfano va nella direzione di un ricambio generazionale e di un fisiologico svecchiamento della politica, non può che lasciare perplessi il metodo dell’investitura medievale scelto per consentire al partito del predellino di sopravvivere al dopo-Berlusconi. L’imperatore ha scelto il delfino, a ulteriore riprova, per chi ancora nutrisse qualche dubbio, del concetto berlusconiano di democrazia. Un’operazione di maquillage e poco altro. Perché non si capisce il senso di una figura che va a sovrapporsi ai tre coordinatori (Verdini, La Russa, Bondi) già esistenti, che conserveranno le rispettive poltrone. Provocando – non è difficile prevederlo – ulteriori tensioni in una situazione già caratterizzata da costante fibrillazione. Ma soprattutto perché bisognerebbe spiegare cosa mai potrà significare “assumere i pieni poteri” in un partito in cui a comandare è notoriamente un altro (Berlusconi). Non è un caso che nel Pdl la figura del segretario non sia neanche contemplata, per cui prima di procedere alla sua elezione (sic) il Consiglio nazionale dovrà approvare la modifica delle norme statutarie.
Qualcuno intuisce una sorta di exit strategy del premier, il famoso passo indietro. Ma nonostante i tentativi in zona Cesarini, il Pdl non sembra in grado di sfuggire alla logica dell’uomo solo al comando che – come si è visto anche di recente – non è in grado di risolvere alcunché. In ogni caso, dietro potrà esserci la terra ferma o il baratro. L’esito della verifica non è affatto scontato.
Per quanto il Pdl sia un partito fortemente carismatico, al suo interno è infatti possibile cogliere sensibilità e accenti diversi. C’è chi, come Formigoni, smania per giocare da protagonista la partita della successione a Berlusconi; chi, come La Russa, teme le insidie del futuro e una probabile deminutio capitis; chi, come Alessandra Mussolini, contesta il metodo dell’investitura: “non si può nominare un segretario politico in una nottata di convivialità, senza aver convocato l’ufficio di presidenza e senza un congresso”. Il segretario in pectore si è affrettato a dichiarare che “si devono aprire le finestre per fare entrare un po’ di aria fresca”. Ancor più radicale Claudio Scajola: “buttiamo via nome e simbolo e facciamo qualcosa di nuovo”. Magari ricorrendo al sistema delle primarie, quanto di più lontano possa esistere dalla mentalità aziendalista del presidente del consiglio, che infatti non ha aspettato molto per avvisare i naviganti sui rischi di un metodo non controllabile al cento per cento. Fare la fine del Pd, costretto a subire i Vendola e i Pisapia di turno, sarebbe davvero troppo.
Ecco perché questa svolta non appare convincente. C’è sempre il timore di trovarsi di fronte a uno spot pubblicitario. Il solito ammiccamento a favore di telecamera.
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