Diventa sempre più arduo ricacciare indietro il pensiero sgradevole che tra le motivazioni che spinsero Silvio Berlusconi a “scendere in campo” vi fosse lo smantellamento della televisione pubblica. Nel caso contrario, qualcuno dei dirigenti Rai succedutisi in questi anni di pseudo-concorrenza dovrebbe spiegare quale sia stata e sia la linea editoriale di Viale Mazzini. Dall’esterno, sembra la cronaca di un suicido annunciato, la declassazione e lo svilimento di un patrimonio, economico e culturale, che altrove avrebbe fatto alzare le barricate.
In Italia, invece, soltanto qualche polemica, peraltro vagamente strumentale, visto che il rapporto tra informazione e politica, pur con accenti diversi, è sempre stato problematico, al di là dell’inquilino di Palazzo Chigi. Le vette raggiunte durante l’epopea berlusconiana sono però inarrivabili. A partire dal tristemente celebre editto bulgaro che anticipò l’epurazione di Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi, accusati di fare “un uso criminogeno della televisione di Stato”. Per proseguire con la direzione di Augusto Minzolini al tg1 e i casi eclatanti di Piero Damosso, Paolo Di Giannantonio, Tiziana Ferrario, Maria Luisa Busi. Mi è capitato, due o tre volte, di assistere a trenta secondi di Qui Radio Londra (andare oltre è umanamente impossibile), programma di Giuliano Ferrara – tra i più influenti consiglieri di Berlusconi – collocato proprio nell’orario che fu di una della trasmissioni di maggiore successo di Rai Uno, Il fatto, condotto da Biagi. Se quello di Biagi è stato un uso criminogeno, per questo di Ferrara urge un neologismo. Perché è complicato fare rientrare nella categoria del giornalismo l’apologia e la propaganda più smaccate, un pulpito dal quale si pronunciano omelie e si scagliano anatemi. Se poi si vuole ragionare in termini di ascolti, il paragone è imbarazzante. E desolante. Quando gli va bene, Ferrara racimola la metà degli spettatori che furono di Biagi. Per comprendere il gradimento di cui gode l’Elefantino, è sufficiente considerare che quasi un milione di spettatori, finito il tg1, abbandona la rete per 5 minuti (la durata del suo programma) e ci ritorna subito dopo, per vedere I soliti ignoti.
Che il gradimento e i soldi degli sponsor non stiano alla base delle scelte dei vertici Rai è evidente. Altrimenti, sulla base dei pessimi ascolti del suo telegiornale, Minzolini avrebbe fatto la valigia già da un pezzo. E per la squadra di Santoro, capace di garantire i maggiori ascolti ed incassi per Rai Due, sarebbe stato srotolato un tappeto rosso. La sostituzione di Annozero con Star Academy, già chiuso per fallimento, dice tutto sulle logiche di allestimento dei palinsesti. È facilmente prevedibile, invece, il successo di Comizi d’amore, il nuovo programma della Santoro band, in onda dal 3 novembre su una ventina di emittenti locali (tra cui Videocalabria) e sul canale 504 Sky che, al grido di “10 euro di tivvù”, ha già raccolto sottoscrizioni per 600.000 euro.
Sul cadavere della Rai svolazzano gli avvoltoi. Quello di La7, che si sta portando via tutto: l’ex direttore di Rai Tre Paolo Ruffini, Corrado Formigli, Roberto Saviano, Serena Dandini, gli spettatori. E, ovviamente, quello di Mediaset, al quale, come in una nota pubblicità, “piace vincere facile”, contro una concorrenza che, di fatto, concorrenza non è.
A colpi di maggioranza
Anche questa volta, come altre cinquanta volte dal 2008, la maggioranza l’ha sfangata. Ma sfangare non è sinonimo di governare, né significa essere capaci di farlo. Questo ormai lo intuiscono anche i quadri e le piante di Montecitorio. Lo si è visto, martedì, nella votazione dell’articolo 1 del rendiconto del bilancio statale, la novantunesima volta in cui il governo è andato sotto. E, più in generale, è evidente dalle lotte fratricide nel Pdl e tra i membri stessi del governo: una nemesi beffarda per chi ha giustamente rinfacciato ai governi Prodi una rissosità al limite del ridicolo. A meno che non si intenda porre la fiducia ad ogni seduta. L’unico orizzonte comune per la maggioranza è il terrore di ritrovarsi nel bel mezzo di uno scontro tribale, un regolamento di conti sulle ceneri del dopo Berlusconi (e del dopo Bossi). Il potere è l’unico collante. Venuto meno quello, sarà una guerra di tutti contro tutti. In questa fase, ogni parlamentare gioca le proprie carte perché consapevole che la conclusione del ciclo berlusconiano comporterà la fine di molte carriere politiche. E sa anche che questo è il momento di monetizzare. Pare che Denis Verdini sia diventato il filtro delle richieste dei malpancisti e delle generose quanto interessate offerte di chi non aspetta neanche di essere contattato per dichiararsi a disposizione.
Però non possono bastare 316 voti, se è stato dilapidato il capitale della più vasta maggioranza della storia del Parlamento italiano. Il baco che sta divorando il governo è al suo interno. Sardelli, Versace, Gava, Destro, ma anche Scajola e Nucara – che hanno votato sì tra mille distinguo e l’ennesima richiesta di un cambio di marcia – sono le facce di uno sgretolamento inarrestabile. Né possono bastare le poltrone da saldi di fine stagione: due nuovi viceministri, Catia Polidori allo sviluppo economico e Aurelio Misiti alle Infrastrutture, e due sottosegretari, Pino Galati all’Istruzione e Guido Viceconte (già all’Istruzione) all’Interno.
Nella prima dichiarazione dopo il voto, Angelino Alfano ha rivendicato l’esistenza di una maggioranza sia numerica che politica. Un atto quasi dovuto da parte del segretario del maggiore partito di governo, comprensibile ma poco convincente. Le richieste al premier di farsi da parte sono talmente tante e pressanti (da ultimi, anche Roberto Formigoni e Gianni Alemanno) che neanche il più ottimista dei berlusconiani può pensare di riuscire ad arrivare a fine legislatura. Semmai, la questione è un’altra, quella della preparazione delle liste. Perché andare al voto in primavera significherebbe farlo con l’attuale legge elettorale, salvo uno scatto di responsabilità e generosità che al momento non si intravedono. In barba al milione e passa di firme raccolte dal comitato referendario per l’abolizione del Porcellum. Anche il prossimo sarà un Parlamento di nominati. Molti parlamentari utilizzeranno gli ultimi giorni di Pompei per scansare macerie, dare prove di fedeltà, non fare gli schizzinosi se servirà una buona dose di cinismo per assicurarsi la ricandidatura.
Il ministro della difesa
“Che gli devo dire? Questo è il problema”.
Infatti: il problema non è tanto che il ministro della Difesa italiana, in conferenza stampa, si incarti sull’inglese, rimediando una figura colossale. Il problema è che La Russa non sa cosa deve dire sul blitz delle forze speciali inglesi, concordato tra i ministri della Difesa di Gran Bretagna e Italia – cioé da se medesimo – che ha portato alla liberazione della nave italiana Montecristo, attaccata dai pirati al largo delle coste somale…
Ma si può?! E soprattutto, quando finirà tutto questo scempio?
“Faccio come dico io e se volete posso dare al mio capo di gabinetto il compito di descrivere nei dettagli come si è svolta l’operazione”. Ecco, bravo, dagli la parola…
Una genialata: il “safety tutor” tra Bagnara e Scilla
Siamo dei privilegiati e non lo sappiamo, circondati da gente impegnata da mattina a sera a sfornare provvedimenti utili per la nostra salute. Una vera fortuna. Eppure, ci sono persone, di quelle proprio cattive, che malignano e alimentano polemiche pretestuose e infondate, avanzando perfino il sospetto (sacrilegio!) che dietro quelle buone azioni, pensate e attuate a nostro esclusivo beneficio, ci siano inconfessabili ragioni, dettate dall’atavico bisogno di liquidità, dalla prosaica esigenza di fare cassa in tempi di magra assoluta. “Io mi sacrifico per voi e questo è il vostro ringraziamento” urlava Capitan Uncino alla sua ciurma. Sì, il mondo si divide in “gente per bene e gente per male”, secondo il manicheismo del ministro Brunetta, che tanto deve alla filosofia di Tuco (Eli Wallach, nel film di Sergio Leone Il buono, il brutto e il cattivo) quando considerava che “gli speroni si dividono in due categorie: qualcuno passa dalla porta e qualcuno dalla finestra”.
Pochi, di quelli che contano, passano però dal tratto autostradale Bagnara-Scilla, altrimenti non si spiegherebbe la decisione di installare, nientemeno, il “safety tutor” nel macrolotto più disgraziato dell’intera Salerno-Reggio Calabria. Siccome già si procede a passo di lumaca, quando non si rimane bloccati a causa di qualche incidente o guasto che impedisce anche alle autoambulanze di farsi largo nel doppio senso intasato di vetture, si è pensato bene di ridurre ulteriormente i tempi di percorrenza. Come se, in condizioni “normali”, fosse un susseguirsi continuo di prestazioni record. Per non incorrere nelle prevedibili salatissime multe, non bisogna superare i 40 km/h di velocità media. Buona fortuna, è proprio il caso di augurarlo, a tutti i pendolari da e per Reggio Calabria.
In un paese serio, i cittadini penalizzati – e quelli che quotidianamente devono incrociare le dita e pregare San Cristoforo prima di immettersi sull’autostrada lo sono – andrebbero ricompensati per i disagi patiti. Da noi, invece, cornuti e mazziati. Come quando, sempre tra Bagnara e Scilla, era stato collocato l’autovelox in un rettilineo in discesa, un tratto in cui era praticamente impossibile andare a 40 km/h. Ovviamente, l’avevano fatto per la nostra incolumità, salvo toglierlo definitivamente dopo che qualcuno aveva pensato di risolvere la questione con le cattive, spaccandolo. Anche sulla vicenda del tutor si sono già levate voci di protesta, comprese quelle istituzionali del sottosegretario all’Ambiente Elio Belcastro (una decisione “offensiva per tutti coloro i quali, con indicibili disagi, sono obbligati a percorrere l’autostrada”) e del consigliere regionale Luigi Fedele. Tanto che la prefettura si è sentita in dovere di precisare che il “safety tutor” non è ancora in funzione, nonostante sia stato installato. Non è detto, però, che non lo sarà e, in ogni caso, il danno è già stato fatto. File lunghissime, causate da automobilisti convinti che il sistema sia in funzione, frenate improvvise e tamponamenti.
Catilina sta davvero abusando della nostra pazienza. Non sarebbe male se lanciasse un segnale di distensione, decidendo di smontare il tutor e, nel frattempo, segnalando con appositi cartelli che non è in funzione.
L’addio alle scene di Ivano Fossati
Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene, anche se dovrebbe continuare a scrivere canzoni. Speriamo. Perché un conto è non fare più tournée, comprensibile dopo quarant’anni di carriera, altra cosa dovere fare a meno delle considerazioni acute di un cantautore sempre attento e sensibile alle trasformazioni della nostra società. Non credo che la sua sia una trovata pubblicitaria per sponsorizzare il suo ultimo album, “Decadancing”. Non sarebbe nel suo stile e non ne avrebbe neppure bisogno. Non è mai stato un artista particolarmente interessato agli aspetti commerciali della professione.
Scegliere tra tutta la sua vasta produzione non è facile. D’istinto direi “La costruzione di un amore”, raffinata rappresentazione di un amore portentoso, anche se per ragioni personali metto al primo posto la collaborazione con Fabrizio De André, “Anime salve”, magnifico album-testamento lasciato da Faber al suo pubblico. Pensando però al significato che una canzone può assumere in un determinato momento storico, non posso non andare con la mente alle giornate in cui “La canzone popolare” accompagnò la vittoria dell’Ulivo di Prodi, nel 1996. Una stagione di grandi speranze, nella quale i sogni traevano nutrimento dalla sensazione che una svolta potesse essere possibile. Poi le cose andarono come si sa e Berlusconi si rivelò ben altro che un’anomala parentesi. Tanto che, dopo quindici anni, pur declinante e ora sì sconfitto (dalla storia se non altro), è ancora sul ponte di comando. Peccato. È stata un’occasione persa, che in tanti non sono riusciti a comprendere.
In una celebre scena di “Palombella rossa”, Nanni Moretti/ Michele Apicella sbotta: “le parole sono importanti!”, dopo avere rifilato un ceffone alla giornalista che lo sta intervistando. Anche le canzoni. Basta pensare agli inni scelti dal partito democratico nel dopo-Prodi. Il buonista “Mi fido di te” (Jovanotti), per esempio, con Veltroni candidato a presidente del consiglio, nel 2008. Si sono fidati in pochi, anche se si è trattato del migliore risultato raggiunto dai democratici, poco più del 33%, ottenuto però cannibalizzando il voto a sinistra, dove sono passati a migliore vita Rifondazione e i Comunisti italiani. O la bersaniana “Un senso” (Vasco Rossi). Parole che sono un programma: “Voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha”. Non proprio il massimo, per uno che cerca di fare proseliti. Lo stanno ancora cercando, questo benedetto senso. Referendum sì o referendum no? Elezioni anticipate o governo di responsabilità nazionale? Alleanza con Di Pietro e Vendola o con Casini? Si brancola nel buio.
Ecco, il prossimo inno potrebbe essere “Senza luce”, cover italiana della famosissima “A Wither Shade Of Pale” dei Procol Harum, interpretata dai Dik Dik (testo di Mogol): “Han spento già la luce/ son rimasto solo io/ e mi sento il mal di mare/ il bicchiere però è mio/ cameriere lascia stare/ camminare io so/ l’aria fredda sai mi sveglierà/ oppure dormirò”. Sì, bravo, continua a dormire.
La marcia su Cosenza
Non indossavano il fez e l’orbace, anche se qualcuno ancora sfoggia tatuaggi col capoccione. Non erano neanche i ventimila preannunciati dai promotori dell’esibizione muscolare voluta dal governatore Giuseppe Scopelliti. Però erano in tanti. L’organizzazione del consenso è una materia che l’ex sindaco di Reggio maneggia con abilità. Un presidente giovane tra i giovani, un po’ come il “Chiambretti night”. Simpatico, bello e probabilmente pure profumato. Come vuole il gran capo, che però non si può più nominare, talmente è caduto in disgrazia. Non come la sinistra brutta, sporca e pessimista: “bisogna sempre avere ottimismo, mentre i leader della sinistra sono sempre pessimisti”. È tutto qua il segreto del successo. E per questo, “non possiamo consegnare il paese a gente del genere” e “chi non salta comunista è”.
Ed io che pensavo si fossero liquefatti. In Calabria, poi, sarebbe legittimo sospettare l’abbattimento di un meteorite simile a quello che provocò l’estinzione dei dinosauri alla fine del Cretaceo. Il partito democratico, affidato ancora ai placebo del commissario Musi, “non perviene” da tempo immemorabile. Il resto di quel che fu il Pd è sul crinale, in meditazione sul da farsi. Si vocifera di un prossimo ingresso dell’Api rutelliana nella giunta regionale e persino quel comunistone di Loiero potrebbe accasarsi a destra. In Parlamento però, ché in Calabria occorrerebbe un chilo di bicarbonato per fare digerire una pietanza del genere. Raffaele Lombardo ha infatti spalancato all’ex governatore le porte del suo Mpa, partito di confine che ricorda un po’ l’enciclica Mater et magistra di Papa Giovanni XXIII: “Mater et magistra piace alla sinistra; madre e maestra piace alla destra; e se la guardi dentro piace anche al centro”. Una collocazione ancora tutta da decidere, ma quello è l’ultimo dei problemi. Come dire: “in base al vento, verrà sistemata la vela”.
Torniamo alla manifestazione di Cosenza. Una prova di forza, senza alcun dubbio. Ma rivolta non contro questa sinistra impalpabile ed evanescente. Non ce ne sarebbe bisogno perché, da quel versante, Scopelliti ha ben poco da temere. Il destinatario della cartolina culturista va rintracciato altrove. Gli indizi portano a Roma, dove, indipendentemente dalla caduta o meno del governo, è ormai universalmente accettata la fine del ciclo berlusconiano. L’uscita di scena del cavaliere provocherà conseguenze a cascata, smottamenti già anticipati da alcune significative prese di distanza. Chi può, cerca di non restare intrappolato sulla tolda insieme all’orchestra che continua a suonare come se nulla fosse, mentre il Titanic affonda. Non per niente Scopelliti tiene due piedi in tre scarpe. Il Pdl, del quale è tuttora coordinatore regionale, nonostante la chiarezza delle parole e dell’esempio di Angelino Alfano in tema di incompatibilità; la Lista Scopelliti, esempio plastico di lista “coca-cola” invisa a via dell’Umiltà; il laboratorio del Partito del Sud di Micciché, presidiato dal fedelissimo Alberto Sarra. Le vie di fuga non mancano. Così come i voti, checché se ne dica. La capacità di intercettare il favore dei giovani non si discute neanche, visto il successo – già sperimentato a Lamezia – dell’estensione del modello Reggio su scala regionale: nani, ballerine, convention mirabolanti e spettacoli a go-go.
Popolarità e seguito non possono essere considerati un demerito. Lo è, purtroppo, il vuoto pneumatico di una sinistra tenera e inciuciante che, invece di fare opposizione durissima, non si preoccupa di smentire le accuse di partecipazione alla gestione clientelare del potere (da ultimo, la vicenda della Fondazione Campanella). Esiste, evidentemente, un deficit di leadership, causato dal deserto che – parafrasando Tacito – è stato fatto senza peraltro portare alla pacificazione. Di più, c’è un problema di credibilità. Che è come il coraggio di don Abbondio. Se non ce l’hai, non te la puoi dare.
Comma ammazza-blog: un post a Rete unificata
Cosa prevede il comma 29 del ddl di riforma delle intercettazioni, sinteticamente definito comma ammazzablog?
Il comma 29 estende l’istituto della rettifica, previsto dalla legge sulla stampa, a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”, e quindi potenzialmente a tutta la rete, fermo restando la necessità di chiarire meglio cosa si deve intendere per “sito” in sede di attuazione.
Cosa è la rettifica?
La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere di questi media e bilanciare le posizioni in gioco, in quanto nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, questi potrebbero avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie. La rettifica, quindi, obbliga i responsabili dei giornali a pubblicare gratuitamente le correzioni dei soggetti che si ritengono lesi.
Quali sono i termini per la pubblicazione della rettifica, e quali le conseguenze in caso di non pubblicazione?
La norma prevede che la rettifica vada pubblicata entro due giorni dalla richiesta (non dalla ricezione), e la richiesta può essere inviata con qualsiasi mezzo, anche una semplice mail. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, ma ad essa non possono essere aggiunti commenti. Nel caso di mancata pubblicazione nei termini scatta una sanzione fino a 12.500 euro. Il gestore del sito non può giustificare la mancata pubblicazione sostenendo di essere stato in vacanza o lontano dal blog per più di due giorni, non sono infatti previste esimenti per la mancata pubblicazione, al massimo si potrà impugnare la multa dinanzi ad un giudice dovendo però dimostrare la sussistenza di una situazione sopravvenuta non imputabile al gestore del sito.
Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?
La rettifica prevista per i siti informatici è quella della legge sulla stampa, per la quale sono soggetti a rettifica tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni ritenute dai soggetti citati nella notizia “lesivi della loro dignità o contrari a verità”. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia, è quindi un criterio puramente soggettivo, ed è del tutto indifferente alla veridicità o meno della notizia pubblicata.
Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?
E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.
Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica?
La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi sarà il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.
Sono soggetti a rettifica anche i commenti?
Un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento (e contenuti similari) non dovrebbe essere soggetto a rettifica.
Questo blog partecipa all’iniziativa di web lotta promossa da www.valigiablu.it, che invita tutti i blogger contrari all’ammazzablog a scrivere lo stesso post (questo) a rete unificata.
Farsi del male, un vizio assurdo e inguaribile
La notizia non è ufficiale, ma fonti vicine al comitato referendario danno oltrepassata la soglia delle 500.000 firme per l’abolizione del Porcellum. Un grandissimo risultato, raggiunto nonostante una visibilità televisiva impercettibile, compensata tuttavia dal tam tam della rete, che anche in questa occasione – come nella consultazione referendaria di giugno – ha svolto il prezioso ruolo di difensore dei sacrosanti principi democratici ad essere informati e a partecipare alla res publica. Si tratta di un primo passo, che va gestito senza la presunzione di pensare che il più sia stato fatto.
L’avviso ai naviganti è chiaro. Tocca al Parlamento, ora, decidere se ignorare la richiesta di cambiamento e continuare a fare strame della volontà popolare, o se sia più opportuno fare tesoro del messaggio lanciato dalla società civile. Le reazioni a caldo sembrano incoraggianti, se perfino Alfano, che non doveva trovarsi sulla Luna quando è stata approvata la “porcata”, si è detto disponibile a modificarla: “Siamo per capovolgere il sistema elettorale per cui oggi i parlamentari sono calati dall’alto”. Un sussulto che fa restare basiti. Certo, potrebbe anche essere una tattica dilatoria. Fino a quando la Cassazione non si pronuncerà sull’ammissibilità del quesito (gennaio 2012), non accadrà nulla. E se, come sembra, la legislatura si interromperà prima della scadenza naturale, tutto potrebbe tornare in alto mare perché si andrebbe alle urne con l’attuale sistema elettorale.
Al di là di qualsiasi considerazione, siamo però di fronte alla luminosa attuazione del principio scolpito nel primo articolo della Costituzione: la sovranità appartiene al popolo. Ed è bene che lo sappia chi confonde il potere con l’arbitrio. Ci sarà sempre un giudice a Berlino, fino a quando le istituzioni democratiche funzioneranno.
In questa Italia schizofrenica, il pericolo è semmai un altro. Quello che piccoli interessi di bottega possano vanificare un risultato ottenuto, per lo più, indipendentemente dalle sigle di partito. I sostenitori dell’“altro” referendum (il “Passigli”), dopo l’iniziale passo indietro, hanno di nuovo fatto sentire la propria voce non soltanto per invitare gli elettori a sostenere il proprio quesito, ma anche per seminare dubbi sulla possibilità che i quesiti del comitato “firmo, voto, scelgo” superino il vaglio della Cassazione e sugli effetti della loro approvazione.
In un momento come quello attuale, dividersi costituisce una grave prova di immaturità e di autolesionismo. Responsabilità vuole, invece, che una volta individuata una priorità, ci si comporti di conseguenza, senza volersi per forza appuntare sul petto la medaglia di primo della classe. È essenziale abolire questa legge vergognosa. Che lo faccia Arturo Parisi o Stefano Passigli, non fa grande differenza. Anche perché, in Italia, il referendum è uno strumento abrogativo, per cui dopo, in ogni caso, si renderà necessario l’intervento del Parlamento. Insomma, non importa il colore del gatto: l’importante è che catturi i topi.
La guerra di Piero
Da più di un anno cerco di capire chi sia Piero Sansonetti, quale lo scopo di alcune sue spiazzanti prese di posizione e cosa rappresenti Calabria Ora nello scenario politico-culturale calabrese. Questa mia personale ricerca non sta approdando da nessuna parte. Forse per limiti miei. Forse perché il personaggio non si presta ad etichettature definitive. O forse perché a non essere catalogabili sono la politica e la società calabrese.
Già il suo arrivo, nell’estate 2010, fu una sorpresa. Che ci veniva a fare, in Calabria, l’ex direttore de L’Unità e di Liberazione? Calabria Ora attraversava il momento più critico dalla sua nascita, lo scontro tra gli editori e il direttore Paolo Pollichieni – di recente tornato in sella, più agguerrito che mai, con il settimanale Corriere della Calabria –, conclusosi con le dimissioni di quest’ultimo e dello zoccolo duro della redazione. Origine del terremoto, gli scoop sui rapporti tra mafia e politica, in particolare gli articoli di Lucio Musolino su alcune imbarazzanti frequentazioni del governatore Giuseppe Scopelliti e di altri politici reggini. E proprio Musolino fu la prima vittima del nuovo corso, nonostante le spallucce di Sansonetti, che addossò interamente alla proprietà il licenziamento del giornalista.
Tacciato dai detrattori di eccessivo esibizionismo, non fa nulla per nascondere il desiderio di stupire a tutti i costi, sostenendo posizioni spesso impopolari a sinistra, che gli sono valse l’accusa di collaborazionismo e intesa con il nemico. Discutibile il suo modo di argomentare lievemente ammiccante, quel “capite bene” che in genere, nei suoi articoli, precede l’affondo. Uno stratagemma per mettere con le spalle al muro il lettore, che si sente quasi obbligato a capire e condividere, anche se è di tutt’altro avviso. Non gli vengono perdonate le partecipazioni a “Porta a porta” – dove dovrebbe rappresentare il pensiero della sinistra – e i salotti frivoli e vacui dei talk show televisivi del pomeriggio. Mentre tutti i giornali di sinistra (e non solo) si scagliano contro il presidente del consiglio, Sansonetti si distingue per la condanna del tribunale mediatico (“Abbasso Santoro, viva le veline”) e l’indulgenza usata per le vicende Noemi e Ruby.
Il sensazionalismo come stella polare. Dalla morte di Lady Diana (“Scusaci principessa”), alla grazia per Anna Maria Franzoni; dalla legittimazione dell’estremismo nero di Forza Nuova, allo sdoganamento dello slogan fascista “boia chi molla”, proposto come grido di battaglia per un nuovo meridionalismo. Ancora, il tema spinosissimo della giustizia. La sottoscrizione della lettera (tra i firmatari, Fabrizio Rondolino, Claudio Velardi, Ottaviano Del Turco, Enza Bruno Bossio) che, a gennaio, scongiurava la sinistra di non farsi trascinare dal giustizialismo montante, perché “la corruzione va perseguita, ma non, come fu nel ’92-’94, decapitando una classe politica”. La lotta ingaggiata con la procura di Reggio e un garantismo sempre ostentato che improvvisamente viene meno. Per cui i pentiti non possono essere affidabili se accusano Scopelliti, ma diventano credibili se attaccano Giuseppe Pignatone. Da ultimo, il caso della collaboratrice Giuseppina Pesce, la cui ritrattazione, poi ritirata, è stata utilizzata da Sansonetti per insinuare pressioni psicologiche e confessioni estorte dal procuratore di Reggio. Una strategia difensiva – è poi emerso – che sostanzialmente si avvaleva dell’ignaro direttore di Calabria Ora (al quale l’avvocato Madia consegnò la lettera fatta firmare alla propria assistita perché “era l’unico disposto a pubblicargliela e a sposare la nostra causa”) per intorbidire ulteriormente l’aria insalubre della procura reggina. La gestione dei pentiti e delle loro rivelazioni è un aspetto essenziale del tema della giustizia. Ma un giornalista strumentalizzato non fa per niente una bella figura. E non è neanche una buona notizia.
Un taglio alla democrazia
Ci risiamo. L’ennesima porcata, questa volta nascosta tra le pieghe della manovra economica bis, dietro il paravento delle “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” contenute nel decreto legge 13 agosto 2011 n. 138, comprensivo delle modifiche introdotte con il maxiemendamento approvato dal Senato il 7 settembre e passato alla Camera con il voto di fiducia del 14. L’articolo 16 del titolo quarto prevede infatti la “riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e la razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali”, da ottenere mediante le unioni dei comuni al di sotto dei mille abitanti e la diminuzione del numero di consiglieri e assessori comunali negli altri.
Si tenta di curare la patologia degenerativa del costo della politica ricorrendo ad una medicina con pericolose controindicazioni. La democrazia si realizza ampliando, non restringendo i luoghi del confronto e della dialettica politica; aumentando, non riducendo il numero di coloro che partecipano alla cosa pubblica. Già la legge 26 marzo 2010 n. 42 aveva dato una sforbiciata consistente (20%) alla composizione dei consigli comunali. Ma in molti municipi non ci sarà il tempo di verificarne l’effetto, poiché il nuovo provvedimento trasformerà i consigli comunali in circoli esclusivi: sei consiglieri nei comuni fino a mille abitanti; sei pure da 1.001 a 3.000 (due gli assessori); sette da 3.001 a 5.000 (tre assessori); dieci da 5.001 a 10.000 (quattro assessori). Nel caso di Sant’Eufemia, l’accetta del governo risparmierà otto privilegiati: il sindaco, cinque consiglieri di maggioranza e due di minoranza. Nove componenti in meno rispetto ad oggi. Di positivo c’è che tra i futuri vincitori nessuno resterà senza poltrona: tre assessori, il presidente del consiglio, il rappresentante alla comunità montana. I conti sembrano tornare. Ma l’idea di subordinare la democrazia al pallottoliere del ministero dell’Economia è aberrante. Si corre il rischio di scavare ulteriormente il solco che separa i cittadini dalla politica, degradando quest’ultima a ristretta questione privata. D’altronde, l’approvazione di un provvedimento del genere indica che lo scollamento tra politica e territorio è quasi irreversibile. In una situazione in cui i parlamentari non fossero dei “nominati” e dovessero dare conto ad un elettorato, non sarebbe possibile, perché le proteste degli amministratori locali imporrebbero un immediato cambio di rotta, per non compromettere la rielezione. Un altro motivo in più per sostenere e votare il referendum anti-porcellum.
Nel nostro comune, ai consiglieri comunali spetta un gettone di presenza di una ventina di euro; agli assessori un’indennità di circa 220 euro al mese. Un modo, semplice, per risparmiare senza tagliare la democrazia ci sarebbe: abolire qualsiasi emolumento per chiunque presenti annualmente la dichiarazione dei redditi, indipendentemente dall’importo. Dopodiché, si potrebbe addirittura ritornare ad un consiglio di venti membri, un numero adeguato per assicurare, nei piccoli comuni, la rappresentanza di gran parte della comunità. E indispensabile per non trasformare la formazione delle liste nell’organizzazione di una partita di calcetto, una faccenda da sbrigare con un rapido giro di telefonate.