Pensieri in libertà sotto il solleone

Dal mio poco privilegiato osservatorio, l’estate 2012 stenta parecchio. E chissà se mai decollerà. Però è stato catturato il bosone di Higgs, la “particella di Dio”, una scoperta che ha fatto perdere a Stephen Hawking (non a Pinco Pallino) una scommessa da 100 dollari e che ci ha fatto sognare per due-tre minuti, il tempo necessario prima che la vita dei comuni mortali riprendesse il sopravvento per sentenziare che, di fronte alle molteplici complicazioni quotidiane, non c’è bosone che tenga.

Il sentimento prevalente è la rassegnazione. Rassegnati al governo Monti. Certo, otto mesi fa è stata un’esultanza collettiva, come se l’Italia fosse finalmente riuscita a liberarsi del tappo (senza ironia) che ne impediva il rilancio. Non se ne poteva più di barzellette, escort, regali a “loro” insaputa, ville di qua e lingotti di là. Al momento, non ci sono alternative alla bicicletta. Pedalare, almeno fino al 2013.

Altro sentimento a buon mercato è la sfiducia. Comprensibile. Con ammiragli incapaci di accorgersi del rischio-collisione (e, dopo, hai voglia a gridare “salga a bordo, cazzo!”), non è affatto sorprendente che un comico (aridaje) rischi davvero di fare saltare il banco. Insomma, o Monti e i suoi sodali o il caos. I “poteri forti” non hanno avuto dubbi nella scelta, mentre al popolo – come sempre – non resta che grattarsi. Pazienza se hanno fatto il deserto, edulcorando l’operazione con la trendissima spending review. La fregatura c’è, tanto da suggerire di mettere mano alla fondina ogni volta che viene utilizzato un termine inglese per indicare un provvedimento governativo.
La locuzione “u cani muzzica ’nto sciancatu” non è tipicamente oxfordiana, ma rende l’idea. Vedere cosa capiterà all’istruzione per credere: colpi di machete contro università e scuola, a beneficio (casualità) degli istituti privati, nel solco già tracciato quando ancora il governo dei banchieri e dei professori di università private era di là da venire. La disoccupazione record, l’assalto ai diritti dei lavoratori e l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, le pensioni che non ci saranno (alla faccia dei diritti acquisiti, validi soltanto per la casta), la razionalizzazione-soppressione di ospedali e tribunali. Anche qui, spending review. Non resta che consolarsi con la telenovela Rai. Da anni si auspica l’estromissione della politica dagli uffici di viale Mazzini, salvo poi dovere puntualmente constatare come neanche una pianta possa essere trasferita di stanza, senza il preventivo ricorso a incistate logiche spartitorie.

Sul fronte delle riforme, si naviga a vista. Nonostante sia tutto un “il Paese ne ha urgente bisogno” e – in caso di fallimento – “i cittadini non capirebbero”. Rimborsi elettorali, assemblea costituente, restyling dell’architettura istituzionale dello Stato. Un chiacchiericcio inconcludente, che raggiunge l’apice con il dibattito sulla legge elettorale, invocata a ogni piè sospinto e bloccata, più che dai veti incrociati, dal sostanziale favore delle forze politiche per l’attuale sistema. Tanto da fare venire il dubbio che, alla fine, la montagna partorirà il solito topolino. O un “porcellinum”.

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Un commissario è per sempre

La dichiarazione del commissario regionale del Pd, Alfredo D’Attorre, sulle ragioni del rinvio del congresso regionale che avrebbe dovuto eleggere, dopo due anni di commissariamento, il segretario dei democrats calabresi, è un capolavoro di politichese, paragonabile ai fumosi e verbosi documenti dei partiti della Prima Repubblica: “avremo anche il tempo di recuperare vaste aree di opinione che si sono allontanate a seguito della lotta fratricida verificatasi nel 2009 e che oggi tornano a guardarci con interesse”. Auguri.

Se non ho inteso male, il congresso non si terrà per evitare una conta. Per non correre il rischio, cioè, di dimostrarsi sul serio un partito “democratico” che valuta le diverse proposte politiche e poi sceglie a maggioranza una linea politica. Per non apparire troppo litigiosi, le decisioni vanno prese all’unanimità, o quasi. Al limite, si è disposti ad accettare un’opposizione interna quasi “concordata”, utile soltanto per fugare scenari “bulgari”. Di più non si è disposti a concedere. Con le elezioni politiche dietro l’angolo, esibire l’immagine di un partito diviso sarebbe esiziale. Per le pulizie di primavera c’è sempre tempo. Ora è preferibile nascondere la polvere sotto il tappeto e accantonare la ramazza.

Come sovente accade, si è deciso di non decidere. Rinvio sine die. Che equivale, minimo, a un arrivederci a dopo le politiche del 2013. D’altronde, il nodo è proprio la scelta dei candidati, sia che venga modificata la “porcata” di Calderoli, sia che sciaguratamente si vada alle urne con l’attuale sistema elettorale. Per cui, onde scongiurare notti di lunghi coltelli in salsa calabra, fiducia a D’Attorre, al quale toccherà gestire, di concerto con Roma, le selezioni.

Dei cinque candidati alla segreteria regionale (Nicodemo Oliverio, Mario Maiolo, Demetrio Battaglia, Doris Lo Moro e Mario Muzzì), i primi tre hanno accolto con disappunto i motivi del rinvio. Comprensibile. Perché, in definitiva, i congressi che si tengono a fare, se non per decidere tra il ventaglio delle scelte sul tavolo? Ha ragione Maiolo: ritirare le candidature, “in nome dell’unità del partito”, sarebbe umiliante per chi si è speso a sostegno di esse. L’unità del partito sbandierata come valore assoluto rimanda, pavlovianamente, a performances indimenticabili anche a distanza di anni. Esempi luminosi delle mortificazioni patite da chi, pure, ci aveva creduto. Dall’avallo alla vergogna del “concorsone” per portaborse e parenti, al quale gli allora Ds prestarono faccia, voti e nominativi da sistemare nelle strutture della Regione, allo splendido esempio di trasparenza apprezzato ai congressi dei circoli del 2009 che produssero lo “strano” risultato di una partecipazione non confermata alle successive elezioni. Com’è noto, in molti comuni il Pd non ottenne neanche la metà di quei consensi e si sprecarono i titoli sul numero di elettori inferiore a quello degli iscritti al partito. E ancora, le primarie regionali del 2010, quelle dell’accordo di Caposuvero che diede il via libera alla ricandidatura di Loiero – in cambio della deroga per i consiglieri regionali che, da statuto, non erano ricandidabili, avendo superato due mandati – e all’inserimento in lista dell’allora segretario regionale, Carlo Guccione. Quello stesso Guccione, già beneficiario del “concorsone”, che ora s’indigna per “questo ennesimo tentativo di colonizzazione” e ringhia: “la nostra regione non può essere utilizzata per consumare tentativi di baratto finalizzati alle prossime candidature del 2013 alla Camera e al Senato”.

La questione del recupero di una credibilità che è ai minimi storici è troppo delicata e complessa per pensare di poterla lasciare in mano alla classe politica responsabile dell’attuale disastro. L’amara verità è che il Pd, in Calabria, è un ectoplasma, ripiegato su se stesso e fiaccato dalle faide interne. Non riuscire a dare segni di vita nel momento di maggiore difficoltà dello scopellitismo costituisce, politicamente, un dramma. Sperare in qualche buccia di banana giudiziaria non è politica. Soprattutto se si finisce con l’incappare nel consueto vizio della doppia morale, quella che provoca dichiarazioni a raffica sugli avvisi di garanzia agli avversari politici e silenzi assordanti sulla storiaccia del concorso vinto da Valeria Falcomatà all’azienda ospedaliera “Bianchi – Melacrino – Morelli”. Politica, invece, è riuscire a proporsi come alternativa valida e credibile. Un miraggio, allo stato attuale.

Ha ragione da vendere Fernanda Gigliotti, da sempre voce critica nel Pd calabrese, che si chiede se non sia il caso di abbandonare “il Pd che non c’è”, una “casa” che, “malgrado il nome, di fatto dimostra di non volerci e di non appartenerci, e forse non ci è mai appartenuta, né mai ci apparterrà”.
A dieci anni di distanza, ritornano alla mente – impietosamente e impetuosamente – le parole pronunciate da Nanni Moretti a piazza Navona (“con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”) e ci si domanda se fossero profezia o maledizione.

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Festeggiamenti inglesi e polemiche italiane

Avevo chiesto a Mario di raccontarci “in presa diretta” l’atmosfera del “Queen’s Jubilee”, i festeggiamenti per i 60 anni di regno di Elisabetta II. Mi incuriosiscono il costume e le stravaganze “inglesi” (colpa di Sandro Paternostro, Nicola Caprarica, Beppe Severgnini, Giovanni Masotti e Stefano Tura) e confidavo in un “taglio” ironico e leggero. Invece è stato serissimo, circostanza che aiuta a capire perché la regina, secondo un recente sondaggio, sia amata da quasi 9 Inglesi su 10 e sia sopravvissuta agli scandali della Famiglia Reale, alla morte di Lady D, a Carlo e Camilla. Il “Giubileo di Diamante” si è così trasformato in una luna di miele di quattro giorni, conclusa con la tradizionale God save the Queen, intonata dall’immensa folla in attesa a Buckingham Palace.

Un amore che, per le mie convinzioni, è quasi incomprensibile. Trovo urticante la sola idea che qualcuno possa trovarsi in una posizione di autorità e di privilegio senza averne alcun merito, a meno che non si consideri tale la fortuna di essere nato in una famiglia reale.

Detto questo, è indubbio che Elisabetta II ha il merito di assolvere al meglio delle possibilità l’importante ruolo di collante nazionale. “Lilibeth” è il volto di un’istituzione alla quale tutto il popolo inglese guarda con simpatia, affetto, fiducia e devozione (a parte lo storico Eric Hobsbawm, ritiratosi sdegnosamente in Galles, televisore spento e nessun quotidiano da leggere per tutta la durata dei festeggiamenti).

L’altro dato da sottolineare è che gli Inglesi, a differenza nostra, sanno “quando” e “come” festeggiare. Condivido in pieno la chiusura dell’articolo, alla luce delle infinite polemiche sorte in Italia, in occasione delle celebrazioni per il 2 giugno. Il richiamo alla “sobrietà” (termine che aborro per il suo altissimo tasso d’ipocrisia), suggerito dai tragici avvenimenti del terremoto in Emilia, ha sollevato il consueto polverone populista e qualunquista. Perché un conto è contenere le spese e limitare la pompa (parata militare), per rispetto delle vittime e delle magre casse dello Stato; altra cosa è l’attacco strumentale a una data-simbolo della nostra storia. Sappiamo bene che c’è, in Italia, un problema di storia condivisa che dall’Unità è arrivato irrisolto ai giorni nostri e che ha caratterizzato i momenti più salienti e tragici della storia nazionale: questione meridionale e brigantaggio postunitario, fascismo, terrorismo e anni di piombo. Ma la vittoria sul nazifascismo (25 aprile 1945) e la successiva condanna popolare della monarchia complice della dittatura fascista (2 giugno 1946) rappresentano i valori fondanti della nostra stessa democrazia, proprio per questo scolpiti nella Costituzione repubblicana, sui quali non ci si può dividere, né lasciarsi andare ad inutili e sterili polemiche.

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Il rap dell’Elefantino

Al trash, ahinoi, siamo purtroppo assuefatti. Se ne vede così tanto che ormai ci abbiamo fatto il callo. Eppure, quando uno pensa di avere toccato il fondo, arriva in soccorso (si fa per dire) la realtà, che al solito sovrasta la più fervida fantasia.
Il video che riprende Giuliano Ferrara con occhiali scuri e cuffie alle orecchie, goffissimo mentre tenta di eseguire il rap dell’anno (“Tienimi da conto Monti”) merita la piazza d’onore in questa speciale classifica. Per il gradino più alto non c’è partita, è saldamente in mano ai produttori televisivi di quei programmi americani con protagoniste bambine di tre-quattro anni che si atteggiano a femmes fatales. Premio da dividere ex-aequo con i genitori delle piccole, of course.

Tenuto sulle ginocchia da Palmiro Togliatti (il padre, Maurizio Ferrara, è stato per lunghi anni stretto collaboratore del “Migliore”, direttore dell’Unità e senatore comunista), una vita fa comunista egli stesso, poi socialista di stretta osservanza craxiana, collaboratore della CIA e infine influente consigliere di Berlusconi, il curriculum di Ferrara (già “Bretelle Rosse” per il Corriere della Sera, ora “Elefantino” per il Foglio) meriterebbe di essere donato alla scienza.
I più attenti lo ricorderanno mentre scappa, giovanissimo e corpulento, nelle immagini in bianco e nero degli scontri di Valle Giulia tra la polizia e gli studenti che tentavano di rioccupare la facoltà di Architettura. Il conduttore di Radio Londra non è il solo ad avere avuto un percorso politico e professionale iniziato a sinistra e concluso alla corte del Cavaliere. Sugli ex di Lotta Continua nelle redazioni Mediaset si potrebbero scrivere tomi. Su tutti, Paolo Liguori, ai tempi della militanza “Straccio”, passato dal documentario sessantottino in cui agitava una bottiglia molotov, al video del febbraio 2011, nel quale brandisce come arma della rivoluzione un paio di boxer, l’emblema della manifestazione organizzata dal direttore del Foglio in favore del governo Berlusconi (slogan: “siamo in mutande, ma vivi”).

Il talento canoro di Ferrara è quello che è, ma il testo è ancora peggio. Un peana iniziale per l’ex premier (“Ti prego, ti prego, ti prego Cavaliere/ ti voglio bene/ Sei stato grande/ Sei stato tanto/ Sei stato troppo”), l’invito a “tenere da conto” Monti e una serie di nomi (e rime) buttati un po’ a casaccio. “L’immaginazione al potere” del Maggio francese, marcusiana parola d’ordine transitata dal Quartiere Latino alle Università italiane, come attenuante non può reggere. Chi avrebbe mai potuto “immaginare”, infatti, che sarebbe finita così?

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La scorta

La classica tempesta in un bicchiere d’acqua. O un espediente per vendere qualche copia in più, soffiando sul fuoco dell’antipolitica, quel fuoco che sembra stia per incenerire un ceto politico improvvisamente vecchio, superato, messo in croce da un comico prima sottovalutato e ora temuto.

La vicenda, che ha fatto immediatamente il giro del web, è quella relativa alle immagini pubblicate dal settimanale berlusconiano “Chi”, diretto da Alfonso Signorini, che immortalano lo shopping all’Ikea della senatrice del Pd Anna Finocchiaro, accompagnata da tre uomini della sua scorta. Le foto ritraggono gli agenti intenti a consigliare la presidente dei senatori democratici nell’acquisto di padelle antiaderenti e mentre sospingono il carrello della spesa.

E giù con le battute degli internauti sui bodyguards utilizzati come colf e sull’improprio e discutibile impiego di denaro pubblico per scopi privati. Twitter, per certi versi, ha le dinamiche tipiche dei funerali. Avete presente il momento in cui, alla fine del rito funebre, qualcuno schiocca l’applauso (evvai!) e immediatamente tutta la chiesa esplode? Ecco, più o meno, sul social network più trendy del momento, accade la stessa cosa. L’hashtag #finocchiarovergogna è subito balzato tra i primi posti degli argomenti di discussione. Sentenza: la scorta dovrebbe svolgere altre mansioni, non fare la spesa. Le foto incriminate non sarebbero altro che l’ennesima prova dei privilegi e dell’arroganza della Casta.
Devo ammettere che, in questa circostanza, non riesco a seguire il coro di indignazione del “popolo della rete”. La reazione mi sembra eccessiva, scomposta, per quello che, a mio avviso, rimane principalmente un gesto di cortesia. Quale uomo, accompagnando una donna in un centro commerciale, non si sobbarca del lavoro “pesante” (trasporto del carrello della spesa e sistemazione dei pacchi sulla macchina)? Sarebbe anomalo il contrario. La scorta, poi, segue il soggetto da proteggere ovunque, negli spostamenti che questi compie da politico e in quelli in cui veste i panni del cittadino comune: in Parlamento, all’Ikea, dal fruttivendolo o dalla parrucchiera. Lo fa perché è quello il suo lavoro.

La domanda da porre, semmai, dovrebbe riguardare l’opportunità che a molti politici sia assegnata una scorta. Sul punto (“Avere la scorta per me non è un piacere. Mi è stata imposta e nonostante ciò provo a fare una vita normale, anche da Ikea”), la stessa senatrice ha tenuto a precisare di avere chiesto la revoca del servizio “circa tre mesi fa, ma la risposta è stata negativa”.

Tornando a Signorini, considero più discutibile la sua intervista a Ruby “rubacuori” per la trasmissione televisiva Kalispera, durante la fase più torrida dello scandalo che coinvolse l’ex premier e la “nipote di Mubarak”. Ma quella era un’altra storia. E, a ben vedere, un altro Signorini.

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Diario di un elettore

Ritrovatasi tra le mani una settimana di ferie coincidente proprio con le elezioni, a distanza di anni Mario ha potuto rivivere un ricordo per lui ormai lontanissimo. Queste di seguito, tra il serio e il faceto, sono le sue impressioni.

Grazie a Dio per le elezioni! La mattina di Lunedì 7 maggio ’12 sono arrivato a Sant’Eufemia da Londra per trovare un paese in subbuglio. Del torpore caratteristico della nostra ridente cittadina non ve ne era nemmeno l’ombra. C’era invece un insolito via vai di gente per le vie del paese, non solo in macchina. La vista dei sostenitori delle liste fare setaccio a tappeto e poi accompagnare, scheda in mano, ignari anziani al seggio elettorale, mi crea sempre un sottile piacere, perché evidenzia non solo la disperazione dei beceri ma anche che si è arrivati alla frutta, con buona pace della morale.

Mi si dice che mezzo paese ha mangiato gratis. Pare che la tortuosa strada verso il potere municipale dalle nostre parti passi da mega abbuffate seguite da litri di effervescente Brioschi e rutto libero. A saperlo venivo due o tre giorni prima ed un boccone magari lo rimediavo pure io, anche se sembra che mio fratello il Dottore fosse schierato e ciò avrebbe di fatto limitato il mio campo d’azione. Ma poi il voto è segreto, che ne sa lui o il resto del paese per chi voto? Io non mi fiderei di nessuno, soprattutto di parenti e familiari. Infatti, il sospetto sembrava regnare sovrano fuori tutti i seggi elettorali, dove persone riunite in piccoli gruppi tenevano sott’occhio l’uno e l’altro con fare da cecchino e sorrisi e facce tirate. C’era gente pure sui tetti, cannocchiale al collo e camera accesa. Ne deduco che qualcuno assistesse ad un live streaming del tutto, utile per gli exit poll pomeridiani e per decidere se scappare coi favori del buio o, in barba all’etica, saltare dalla nave che affonda prima degli altri: un po’ come un ratto qualunque o il capitano della Concordia.

La mia apparizione con tanto di passaporto ai locali del liceo scientifico ha creato un po’ di confusione. Un fantasma avrebbe suscitato meno spavento. Chi presiedeva il seggio non era preparato psicologicamente alla mia materializzazione dall’estero. Mio fratello il Dottore mi seguiva da vicino. La cosa ha aiutato a chiarire la mia discendenza più del mio passaporto, ed ha sicuramente facilitato ad intuire la direzione del mio voto. Si dice che sia arrivato in paese con tanto di biglietto pagato da uno dei candidati, e forse è vero! La mia tessera elettorale era vergine, perché essendo via da 15 anni, in paese non avevo mai votato. Il mio è stato il voto che non ti aspettavi, il Bulgaro indigeno di Sant’Eufemia.

Una volta da solo in cabina elettorale ho scelto semplicemente il gruppo al quale mi sento più vicino per questioni di età e per tutta una serie di altre ragioni, più o meno politiche. Ho preferito l’inesperienza di un sindaco nuovo, perché come uno che si è fatto da solo, so che ciò che conta è l’entusiasmo e la voglia di fare e migliorare, perché il resto lo si apprende sul campo con applicazione ed impegno. Chi ho votato è gente che conosco, che stimo, con la quale sono cresciuto e con cui ho giocato a calcio da bambino e da ragazzo. Ho votato persone che lottano sino all’ultimo pallone al di là del risultato e spero, per quello che rimane sempre il mio paese, di non essermi sbagliato.

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La lezione del voto

Il dato più significativo delle elezioni comunali a Sant’Eufemia è la sconfitta di una prassi politica che con la politica, a dire il vero, ha poco da spartire. Colpa della scomparsa di quei partiti che facevano formazione dentro le sezioni, certo, ma è storia risaputa da quasi due decenni e vale per tutta la Penisola. Si è ritornati ai comitati elettorali ottocenteschi, con i “grandi elettori” di questo o quel candidato che si ritrovano alla vigilia della convocazione dei comizi per la pianificazione della campagna elettorale. Spinti da motivazioni più o meno nobili, sostenitori e componenti di una lista hanno discrete probabilità di proseguire nella collaborazione in caso di affermazione, mentre la sconfitta, solitamente, determina un rompete le righe generale. Esito prevedibile quando l’unico collante di aggregazioni estemporanee è la possibilità di una vittoria che determinerà la gestione di un minimo di potere o il saldo di qualche cambiale sottoscritta prima del voto.

L’assenza di politica è il primo male della politica. Detta così, è un’affermazione che sta tra Lapalisse e Catalano, ma tant’è. Non è nostalgia per le Frattocchie o per le palestre politiche dei partiti della Prima Repubblica, ma la disaffezione crescente ha una ragione non irrilevante proprio nella strumentalità dell’approccio elettorale. Se il solco tra politica e società civile si accentua progressivamente, è logico e per nulla sorprendente il rigetto nei confronti del politico di professione e di coloro che si presentano come alieni ad un elettorato già di suo irritato. Il retro della medaglia raffigura invece una politica ridotta a favore, clientela, capacità di aggregare nuclei familiari dall’ampio serbatoio elettorale indipendentemente dal merito della proposta programmatica. È questo il circolo vizioso che andrebbe spezzato. Impresa più che ardua, in realtà caratterizzate da un drammatico bisogno di occupazione, che può su ogni altro tipo di considerazione, anche sull’umiliazione subita da chi non ha altra possibilità della speranza che, “chissà, magari stavolta manterrà”.

Le elezioni amministrative eufemiesi forniscono un ulteriore elemento di analisi sul quale, chiunque si occupi di politica, dovrebbe seriamente riflettere. È stata la reazione nei confronti di un modus operandi indisponente. L’atteggiamento di chi si considera il padrone assoluto della volontà popolare e non il curatore di un bene che va gestito con umiltà e restituito al legittimo proprietario. Le votazioni danno e tolgono. L’esercizio del diritto di voto è l’espressione più alta della democrazia, non una stanca liturgia: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, recita non a caso il primo articolo della nostra Costituzione.

Ha vinto Mimmo Creazzo, ma i due grandi sconfitti sono i protagonisti dell’ultimo ventennio politico cittadino, l’assessore regionale pidiellino Luigi Fedele e il sindaco uscente Enzo Saccà. Il primo sconfitto nelle urne, dopo avere riproposto la candidatura a sindaco del fratello Giovanni, già battuto una prima volta nel 2007 proprio da Saccà. Il secondo addirittura incapace di mettere insieme una propria lista, nonostante un flebile tentativo sfumato nel giro di due settimane. Vicende simili, sottostanti entrambe all’idea presuntuosa del “dopo di me il diluvio”. È invece evidente che non esiste uno “scettro” (abbiamo dovuto ascoltare anche questo, rabbrividendo) da tramandare a mo’ di stecca militare. Né è possibile calpestare i principi elementari del confronto democratico e della dialettica politica, nell’antistorico tentativo di riproporre inaccettabili logiche da investitura medievale. Una lezione sulla quale tutti dovrebbero meditare.

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Le comiche finali

Confesso che mi mancava. Se ci pensate, c’è una tristezza in giro che non se ne può più. Gente che non arriva a fine mese, padri di famiglia disperati, disoccupati che vedono soltanto buio pesto nel loro futuro.
E poi questa classe dirigente grigia, triste, vecchia. Un governo di professori, una roba di una noia mortale. Niente a che vedere con lo spettacolo al quale ci aveva abituato Berlusconi in questi ultimi anni. Ma sì, c’è crisi, i consumi si contraggono, ci stanno tartassando di tasse. Ma con lui era diverso. Leggi ad personam, personaggi come Calderoli (quoque tu, “a tua insaputa”), Santanché, Rotondi e compagnia danzante accomodati sulle poltrone governative, fenomeni tirati su direttamente dal limbo, olgettine, meteorine, escort e festini. Tarantini, Fede, Minetti, Mora, Lavitola. Chi non vorrebbe avere amici così? Gente che sa come tirarti su. In ogni senso. Insomma, il divertimento era assicurato. E se un fisiologico calo delle performance faceva inclinare a languore, interveniva lui in prima persona. Bastava una bandana, un “cucù” ad Angela Merkel, una barzelletta sessista ben assestata, un “credevo che fosse la nipote di Mubarak” e tutto tornava nell’ordine naturale delle cose.
Ora no. Non si ride più. Giornate intere senza uno sprazzo, un sorriso, un diversivo. Fino a ieri, il momento del grande ritorno. Uno capace di scomparire per mesi, di essere politicamente agonizzante, che riemerge dall’ombra in cui era stato confinato e guadagna la scena travolgendo tutto e tutti, non facendo parlare di niente altro che di sé, è un fenomeno da applaudire. Altro che la più grande novità politica dal 1994, annunciata da Alfano. La più grande novità rimane sempre lui. L’unico capace di risollevare il morale degli italiani, con parole che soltanto un genio può pensare e pronunciare con una naturalezza del genere. Come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo: “facevano delle gare di burlesque”. Dita Von Teese nostrane. Come avevamo fatto a non immaginarlo?
Diventa comprensibile un solo, grande rimpianto: avevamo in casa il più grande talento comico del mondo e gli abbiamo tarpato le ali facendolo diventare presidente del consiglio.

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Tempo scaduto

A volte sembra davvero di stare sul Titanic. La nave sta affondando e l’orchestra continua a suonare imperterrita e ad invitare al ballo, come se niente fosse, senza riuscire a rendersi conto che il tempo è scaduto.
La riforma del finanziamento pubblico dei partiti è diventata la questione centrale del dibattito politico, in questi ultimi giorni. Colpa – anzi, merito – degli scandali che hanno coinvolto l’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, e quello della Lega, Francesco Belsito. La campagna del Corriere della Sera su “politica e trasparenza” cavalca il malcontento (eufemismo) popolare, ricordando in prima pagina i giorni trascorsi dall’impegno dei presidenti delle Camere “per la riforma del finanziamento ai partiti”. E se un giornale solitamente sobrio come il quotidiano di via Solferino comincia a svestire i panni di vigile del fuoco, vuol dire che qualcosa è cambiato anche nell’umore di quel vasto strato di popolazione – moderata, non certo antagonista – che ha guardato con fiducia alla costituzione del governo Monti. La classe politica, more solito, si è chiusa a riccio. Non contenta di avere tradito (usiamo le parole, visto che ci sono) la volontà popolare, che con una maggioranza bulgara (90,3% di Sì) nel 1993 aveva abolito il finanziamento pubblico ai partiti, facendo rientrare dalla finestra, sotto forma di “rimborsi elettorali”, quel che aveva fatto uscire dalla porta, tira fuori le unghie e si arrocca in difesa.
Il pericolo mortale per la democrazia, par di capire, è l’antipolitica. Verissimo. Ma quali sono i confini esatti della demagogia? Quelli stabiliti dagli attuali famelici partiti? Ha cominciato il segretario del Pd, Pierluigi Bersani: “l’onda dell’antipolitica rischia di travolgere tutti”. A ruota, i partiti che sostengono l’attuale maggioranza, con la posizione “ufficiale” contenuta nella relazione alla proposta di legge sulla trasparenza dei bilanci dei partiti: “cancellare del tutto i finanziamenti pubblici sarebbe un errore drammatico”. Buon ultimo, è arrivato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tutti d’accordo, sulla base di una motivazione pelosetta: altrimenti, “si escludono dalla politica quelli che non hanno soldi”. A parte il fatto che i casi di arricchimento personale verificatisi con i “rimborsi elettorali” non hanno precedenti storici, va detto che la selezione della classe politica segue ormai logiche arcinote. Non è più, per niente, questione di avere una possibilità. Se non fai parte di un certo giro, se non sei tra i favoriti della ristretta oligarchia che nomina deputati e senatori, sei tagliato fuori. E qua sta il vero problema. Quello di una riforma elettorale che tutti, a parole, auspicano, ma che si è sostanzialmente arenata tra le stanze del Parlamento. La classe politica fa finta di non capire che se non restituirà al popolo il potere di scegliersi propri rappresentanti, espone al rischio di implosione l’intero sistema.
Quella che chiamano antipolitica è la manifestazione più evidente, invece, del bisogno di politica. Politica è anche l’urgenza di pulizia e di moralità. L’unico aspetto positivo della legge in discussione, per alcuni, è la previsione di controlli esterni sui bilanci. Cosa che, in realtà, dovrebbe indurre ad un’ulteriore riflessione. Possibile che senza il carabiniere o il finanziere diventi utopia il rispetto della legge? Possibile che i partiti non riescano a darsi un codice di autoregolamentazione serio e a farlo rispettare mediante gli organismi di controllo che i loro statuti pure prevedono, proprio per questo scopo? Tangentopoli non è un ricordo lontano. La situazione attuale ne è la continuazione su di un piano ancora più basso. Perché se là (“rubavo per il partito”) c’era il tentativo di giustificare i costi del sistema dei partiti, qua siamo all’arricchimento individuale, alla casta che si nutre del sangue dei contribuenti per perpetuarsi, sorda e indifferente al “grido di dolore” che sale dalla società.

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La premiata ditta Calearo & Scilipoti

Ogni tanto riemergono dal nulla politico delle loro esistenze e guadagnano prepotentemente la scena con qualche uscita pirotecnica. Difficile capire qual è il comico e quale la spalla. Il rapporto è paritario: per intenderci, niente a che vedere con la coppia Totò-Castellani. L’ultimo in ordine di tempo è l’inossidabile Mimmo, tirato in ballo dall’imprenditore calabrese Antonino De Masi per avere fatto ricorso al copia-incolla in una nota di denuncia del “racket delle banche” a danno di clienti tartassati dagli istituti di credito. Un vizietto non nuovo, quello del ginecologo barcellonese ex Idv, “pizzicato” già l’anno scorso a copiare – nientemeno – stralci del “Manifesto degli intellettuali fascisti” (1925) per il suo “Manifesto del Movimento di Responsabilità Nazionale”, costituito nel dicembre 2010 in soccorso dell’agonizzante governo Berlusconi per iniziativa congiunta con i deputati democrats Bruno Cesario e Massimo Calearo.
Proprio l’imprenditore vicentino è l’altro protagonista della settimana politica. Scelto da Walter Veltroni per “gettare un ponte” verso il mondo degli industriali, il “falco” di Federmeccanica non aveva impiegato molto tempo a salutare i casuali compagni di viaggio (“li avevo avvisati che non sono mai stato di sinistra”), aderendo prima all’Api di Rutelli, quindi al Mrn nella vicenda del salvataggio del Berlusconi IV, voto di fiducia ripagato dal Cavaliere con la nomina a consigliere personale del presidente del Consiglio per il commercio estero. Più volte distintosi per il putiferio scatenato da alcune sue dichiarazioni, ha raggiunto vette inarrivabili con il “provvidenziale” attribuito a Mastella (responsabile della caduta del governo Prodi) e la simpatia espressa nei confronti di Sua Emittenza (“Berlusconi è uno come me, in Parlamento dovrebbero esserci solo persone come noi”). L’ultima perla l’ha dispensata ai microfoni della “Zanzara”, confessando di essere andato alla Camera solo tre volte dall’inizio dell’anno: “schiacciare un bottone è usurante”. Non lo è, evidentemente, pagare con lo stipendio da parlamentare un mutuo di 12.000 euro al mese o possedere una Porsche immatricolata in Slovacchia, “perché si pagano meno tasse”.
Il problema è sempre quello della selezione della classe politica e dell’ineludibilità di una riforma elettorale che consenta di passare dal metodo della cooptazione alla possibilità di scegliere i parlamentari. E poi stabilire un minimo di etica. Se un lavoratore non si presenta sul posto di lavoro, non viene pagato e rischia, giustamente, il licenziamento. Il problema non è Calearo che, da questo punto di vista, non è neanche il peggio. Il mitico Antonio Gaglione (gruppo misto, ed Pd) svetta dall’alto del suo 93,24% di assenze, ma davanti al deputato vicentino (ventitreesimo) si segnalano politici di primo piano: Verdini, Ghedini, D’Alema, Fioroni, Pionati, Di Pietro, Bersani.
Spesso si stigmatizza il populismo di alcune critiche feroci. Ma i dati sono impietosi: un giovane su tre senza lavoro, disoccupazione complessiva oltre il 9%, precarizzazione di una quota sempre più alta di lavoratori, assalto ai diritti e alle garanzie conquistati con anni di lotte operaie, cifre di Bankitalia (i primi dieci italiani più ricchi possiedono quanto tre milioni di persone più povere), ladrocinio dei vari Lusi e Belsito, dopo che il finanziamento pubblico ai partiti, abolito con la più alta percentuale referendaria di tutti i tempi, è rientrato dalla finestra sotto forma di “rimborsi elettorali” (Lega “ladrona”: quando si dice la nemesi).
Non c’è bisogno di soffiare sul fuoco dell’antipolitica. La rabbia di ampi strati della società è già sotto gli occhi di tutti. Sono “loro” che ancora fanno finta di non vederla, dal chiuso di stanze dorate, con privilegi ogni giorno sempre più intollerabili.

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