Titoli di coda

Se non è schizofrenia questa, non si capisce bene cosa mai possa essere. Un disperato tentativo di alzare la voce, ora che nessuno più l’ascolta (esclusi, ovviamente, amazzoni e beneficiati non privi del senso della riconoscenza)?

Eravamo da tempo abituati ai giornalisti che “travisano” il pensiero di Berlusconi: “ho detto esattamente il contrario”, difatti, il refrain più ripetuto dal leader pidiellino negli ultimi diciotto anni. Con conseguente profluvio di smentite, precisazioni, attacchi alla stampa infeudata al Cremlino. Ora però siamo al “fregolismo” spinto: la smentita pomeridiana di ciò che si era dichiarato la mattina, con la velocità dei cambi di costume del celebre trasformista romano. Solo nel teatro dell’assurdo accade che un leader di partito tolga la fiducia al governo, condannandone in toto l’operato, per poi offrire al capo di quello stesso governo la leadership del proprio schieramento politico.

Il pensiero corre, inevitabilmente, ai sostenitori dell’ex re Mida del centrodestra, costretti a rincorrere il capo e assecondarne l’umore ballerino. Ma anche alla frustrazione di “formattatori” e sostenitori delle primarie nel Pdl, passati dalle lusinghe all’irrilevanza. Se nessuna meraviglia può nascere dal riscontrare il rapidissimo allineamento dei cortigiani ai desiderata arcoriani, qualche perplessità sorge nel constatare la mancanza di spina dorsale in chi pure autonomia va cercando.

Forse che i tempi non siano già maturi per emanciparsi da un abbraccio che rischia di trascinare tutti a fondo? O è solo tatticismo, guadagnare tempo e “vedere le carte” di chi, al centro, ha ancora parecchi nodi da sciogliere? L’unico dato certo è che, ora come sempre a partire dal 1994, tutto ruota attorno a Berlusconi, che appunto per questo vorrebbe indire l’ennesimo referendum sulla propria persona. Perché, checché se ne dica, dalla sua discesa in campo non c’è stata consultazione elettorale che non sia stato un plebiscito pro o contro il cavaliere. È in questo avvitamento l’anomalia di un sistema politico incapace di fare dell’Italia un paese normale.

Berlusconi sa che se passa la mano è l’8 settembre. Un fuggi-fuggi generale che già s’intuisce dal fermento dei moderati “montiani” e degli ex aennini. D’altro canto, il cerchio attorno al bunker si stringe di giorno in giorno. La reazione europea di fronte alle ultime uscite è al limite dell’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano, ma è anche il sipario che si chiude su di una vicenda politica ormai al tramonto.

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I voti alle primarie

Premessa: non ho votato alle primarie. L’ho fatto in passato e l’esperienza non è stata esaltante. Ho avuto però un attimo di esitazione ieri mattina. Confesso che se fossi riuscito a trovare il seggio ci sarei andato. C’era anche l’indirizzo sul sito “primarie bene comune”, ma stranamente, sul posto, neanche un’indicazione, un manifesto, niente di niente. Però stamattina abbiamo saputo di 200 voti a Bruno Tabacci (su 202 votanti). Un exploit rilevante per il candidato di Agazio Loiero in Calabria, a pochissimi voti dal risultato di Reggio Calabria, prima tra le città della provincia (215 voti, ma su 2.688 votanti). E questo mi basta per pensare che ho fatto bene a risparmiare quei due euro. Nichi Vendola ha preso un voto in meno, io ho evitato di rodermi nuovamente il fegato.

In Calabria le primarie hanno una credibilità prossima allo zero. Truppe cammellate e signori delle tessere gestiscono tutto. Per questo, può verificarsi (si è già verificato) che in certi paesi i voti alle elezioni politiche siano inferiori di quelli raccolti dal partito (o dai partiti) alle primarie. Per la stessa ragione, un voto “carbonaro” come quello di Sant’Eufemia, nel quale non c’è stata mobilitazione da parte di alcuno, nel quale nessun partito svolge attività politica da tempo immemorabile, può dare un esito così sorprendente. Chi doveva fare bella figura con Loiero l’ha fatta e Loiero, anche grazie a questo genere di consenso, avrà argomenti da esporre al tavolo delle candidature, perché su un 6% scarso a livello di coalizione nessuno è disposto a sputarci sopra.

Tralasciamo quindi il contesto regionale e spostiamoci su quello nazionale, basandoci sui dati ufficiosi. Hanno votato circa 3 milioni e 100 mila cittadini. Non tantissimi, ma neanche pochi, in tempi di generale disaffezione per la politica:

Bersani 8 – Ha fatto bene il suo compitino, che era quello di serrare le fila e respingere l’assalto dei rottamatori. La nomenclatura del partito si è schierata compatta in suo sostegno. Bisognerà vedere cosa, se la spunterà al ballottaggio, ciò comporterà in termini di mortificazione della richiesta di novità che sale prepotentemente dalla base e dai movimenti (44,9% in Italia; 54% in Calabria; 51,78% in provincia di Reggio Calabria).

Renzi 9 – È il vincitore morale delle primarie, capace di una mobilitazione che sfrutta al meglio le opportunità fornite dai social network. Personalmente, non mi sta molto simpatico, tranne che per l’affermazione “con noi, l’alleanza con Casini non si fa”. Sfonda in settori della società difficilmente raggiungibili dal Pd: la sua forza, ma anche il suo limite. L’interrogativo è: “cosa faranno i suoi elettori in caso di vittoria di Bersani?” (35,5% in Italia; 22,7% in Calabria; 24,19% in provincia di Reggio Calabria).

Vendola 6,5 – Bene al Sud, per fare bingo avrebbe dovuto superare il 20% e magari (il suo sogno segreto) arrivare al ballottaggio. Probabilmente è stato punito dal format del confronto televisivo: i tempi contingentati (domanda e risposta quasi secca) mal si addicono al suo stile oratorio. Era il candidato più a sinistra, ora dovrà cercare di capitalizzare il suo peso per dare, in sede di stesura del programma elettorale, risposte di sinistra alla crisi economica (15,6% in Italia; 16,5% in Calabria; 19,65% in provincia di Reggio Calabria).

Puppato 5 – Praticamente, era la “quota rosa” di queste primarie. Partiva svantaggiatissima: lei stessa ha ammesso di avere fatto solo 20 giorni di campagna elettorale e di non essere riuscita a toccare 6 regioni. Una candidatura quasi di testimonianza, che ha avuto un riscontro tutto sommato non fallimentare, se si pensa che poteva contare esclusivamente sull’endorsement dell’artista Marco Paolini (2,6% in Italia; 0,7% in Calabria; 0,85% in provincia di Reggio Calabria).

Tabacci 4 – Il più “vecchio” tra i candidati, aspirava a raccogliere preferenze tra la galassia ex e post democristiana del partito democratico e dei movimenti che a quella tradizione fanno riferimento. In Calabria, “Autonomia e diritti” dell’ex governatore Agazio Loiero. È stato un flop, appena appena mitigato dal discreto risultato ottenuto tra la Sila e l’Aspromonte (1,4% in Italia; 5,4% in Calabria; 3,74% in provincia di Reggio Calabria).

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Grillo e il Titanic Italia

Alla fine la riforma elettorale non si farà. Nella migliore delle ipotesi, la montagna partorirà il solito topolino. Le posizioni da conciliare sono sostanzialmente due. Quella di Berlusconi convertitosi al proporzionale puro, che prevede l’abolizione del premio di maggioranza del “Porcellum” e il mantenimento delle liste bloccate; quella di Bersani, che invece il premio di maggioranza vorrebbe salvarlo.
Storicamente, le mediazioni migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) sono quelle democristiane. Un copyright eterno, tramandato dalla Dc a tutte le cellule di Balena bianca ancora presenti nel corpo della politica italiana. Pare che l’Udc stia per farsi avanti con l’uovo di Colombo, un premio di maggioranza da assegnare alla coalizione che superi il 40%. Un modo per perpetuare l’attuale situazione di sostanziale frammentazione, l’ideale per un Monti bis o chi per lui. In ogni caso, di preferenze non parla più nessuno.

Ciò significa anche che la proposta depositata in Parlamento dal Pd passa direttamente nel cassonetto della differenziata (carta): 70% dei seggi assegnati sulla base di collegi uninominali a doppio turno e 28% con metodo proporzionale su base regionale o pluriprovinciale, più un 2% (corrispondente a 12 seggi) riservato al cosiddetto “diritto di tribuna”. In quello dell’umido, le speranze di chi aveva creduto che i politici avrebbero finalmente avuto un sussulto di dignità e avrebbero restituito al popolo il diritto a scegliersi propri rappresentanti. Invece, non sono stati capaci di licenziare uno straccio di riforma elettorale, nonostante non si sia quasi parlato d’altro per l’intera legislatura.

La paura presa dopo le elezioni in Sicilia aumenterà l’istinto di autoconservazione di una classe politica inadeguata e inetta, che impegnerà le proprie energie per scovare l’espediente capace di sbarrare la strada a Beppe Grillo. Con percentuali di astensione record (Sicilia docet), il Movimento Cinque Stelle ha buone probabilità di fare saltare il banco.

Diffido dei populisti. Non voterei mai un politico che attraversa lo stretto di Messina a nuoto perché mi ricorda quello che lotta con le tigri o l’altro che traccia, alla guida del trattore, il solco che poi la spada dovrà difendere. Oltretutto, un comico a Palazzo Chigi l’abbiamo già avuto e, alla fine, raccontava sempre le stesse barzellette. Ma lor signori farebbero bene a porsi qualche domanda e a considerare che la demonizzazione rischia di essere il migliore alleato di Grillo. Perché chi demonizza non ha alcuna credibilità. Perché potrebbe sì trattarsi di un salto nel buio, ma in tanti pensano che la priorità sia saltare fuori dalla melma della Seconda Repubblica e poi quel che sarà, sarà. Il Titanic affonda, l’orchestra continua a suonare lo stesso spartito e sul ponte è il consueto spettacolo di ladri, privilegiati, nani e ballerine. Grillo ce lo meritiamo.

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L’alba di un nuovo giorno

“Vogliamo che Reggio Calabria possa trovare la serenità e possa riprendere il suo cammino. Saremo molto vicini alla città di Reggio Calabria: come governo abbiamo deciso di mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari e possibili per fare risorgere questa città, per dare a questa città delle risorse importanti, compatibilmente con i mezzi che abbiamo a disposizione. Questo è un atto di rispetto per Reggio Calabria”.

[Anna Maria Cancellieri – ministro dell’Interno]

Non c’è da gioire.
Lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria per “contiguità” con la ’ndrangheta è una ferita lacerante, che brucia nelle carni delle istituzioni e della società civile. Un primato non certo invidiabile (non era mai successo per un comune capoluogo di provincia), “addolcito” dalla presentazione come atto preventivo, non sanzionatorio, e dal riferimento alla brevissima esperienza di Arena, con esclusione dell’era Scopelliti. Dura da digerire, in ogni caso. Sul piano politico, appare arduo trovare punti di discontinuità in quel “modello Reggio” che ha scandito l’ultimo decennio a Palazzo San Giorgio.

Non c’è da disperarsi.
Il provvedimento governativo non è il frutto delle invenzioni giornalistiche dei “nemici di Reggio”. Il complotto non esiste. Esistono le 250 pagine di relazione della commissione d’accesso; esistono le 3.000 pagine di allegati. Lo scioglimento è stato deciso dopo una lettura attenta di questo corposo materiale, non sulla base di una presunta ostilità del governo centrale nei confronti di Reggio.
Un marchio indelebile, quindi, ma anche l’opportunità, per tutti, di ripartire con umiltà, serietà, trasparenza.

Né gioia, né disperazione.
Ma l’alba di un nuovo giorno. E diciotto mesi per fare chiarezza e stabilire, una volta per tutte, chi possa realmente essere considerato “nemico” e chi “amico”. Nei fatti, non con gli slogan.

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Siamo tutti Sallusti, ma anche no

Sul caso Sallusti, il direttore del “Giornale” condannato a 14 mesi di reclusione per un articolo fatto pubblicare nel 2007, quando dirigeva “Libero”, è stato detto tutto. Nel considerare il carcere una pena eccessiva, arrivo quindi buon ultimo. Concordo anche – e questo, seriamente, mi preoccupa – con Vittorio Feltri, quando dice che il giudice non ha alcuna colpa, poiché si è limitato ad applicare la legge: “se tu – il succo del suo ragionamento – gli metti in mano armi che vanno dal temperino al mitra e quello usa il mitra, bisogna prendersela con il legislatore che gli ha messo il mitra in mano, non con il magistrato che l’ha usato”.
La legge in questione, retaggio del codice Rocco, è sopravvissuta alla caduta del fascismo (immagino) perché, in fondo, al potere fa comodo anche soltanto adombrare la possibilità che si possa finire in galera per ciò che si pensa. Per cui, bisognerebbe cambiare la legge e stabilire che i reati a mezzo stampa sono perseguibili solo per via civile. Su questo, siamo (o dovremmo essere) tutti d’accordo.

Detto questo, si impone qualche precisazione. La prima, e sostanziale: confondere fatti e opinioni o fare di Sallusti un eroe risponde alla solita, insopportabile, logica strumentale cui tutto, in Italia, si riduce. Una cagnara utile per nascondere ciò che Alessandro Robecchi ha definito “un giornalismo sciatto, fatto male, truffaldino, che dà notizie false per sostenere una sua tesi”. Sì, perché il reato d’opinione, nel caso di Sallusti, non c’entra per niente: c’entra invece, il fatto che è reato “scrivere e stampare notizie false”, cioè diffamare. C’entra anche, per esempio, il dettaglio che un direttore responsabile, lo dice la parola stessa, è “responsabile” di ciò che viene pubblicato sul giornale che dirige, altrimenti qualcuno mi spieghi quale sia la sua funzione. C’entra, inoltre, con un principio etico elementare: quello di proibire che sia data ospitalità e offerta una tribuna a un giornalista radiato dall’Ordine (Renato Farina, deputato Pdl, già agente “Betulla”). E poi fare anche finta di non conoscere l’identità dell’autore dell’articolo incriminato: diversamente si incappa, come è successo al direttore del “Giornale”, anche nel reato di “omessa denuncia”. Che con la libertà d’opinione, è evidente, non ha alcuna relazione.

Non apprezzo Sallusti (eufemismo). Trovo odioso il suo modo di fare giornalismo, ammesso che sia giornalismo la faziosità e la distorsione della verità per fare l’interesse politico del proprio editore. Ritengo però che una pesantissima multa (superiore ai 5.000 euro di multa del primo grado di giudizio) e la radiazione dalla professione, per i giornalisti che facciano strame della deontologia, possa essere una pena congrua. Una soluzione che, tra l’altro, ci risparmierebbe il rischio di ritrovarci con un improponibile martire della libertà di stampa. In definitiva, è la pena che è ingiusta, perché non c’è proporzione tra reato e condanna, non la condanna in sé.
No al carcere, dunque. Certo. Ma #siamotuttiSallusti (l’hashtag che sta girando su twitter), no. Anche impegnandomi, turandomi qualsiasi cosa, non ce la potrei mai fare.

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Venditori di fumo

E siamo a tre. Terzo consigliere regionale arrestato in due anni. Prima, due politici del Pdl: Santi Zappalà (associazione mafiosa, corruzione elettorale, voto di scambio), insieme ad altri quattro candidati pro-Scopelliti, a dicembre 2010; Franco Morelli (concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d’ufficio e corruzione), a novembre 2011. Ora, Antonio Rappoccio, repubblicano eletto nella lista “Insieme per la Calabria”, accusato di associazione a delinquere, truffa, corruzione elettorale aggravata e peculato. I fatti sono ormai noti: 850 giovani truffati con la promessa di un posto di lavoro in cambio della preferenza. Un sistema oleato, utilizzato anche per supportare la candidatura di Elisa Campolo al consiglio comunale di Reggio Calabria. I disoccupati-elettori avevano anche dovuto pagare 15 euro per iscriversi a una cooperativa e 20 euro per partecipare a un concorso del quale, prima del voto, era stata svolta la prova scritta. Dell’esame orale, invece, non si ha nessuna notizia (chissà come mai).

Fin qua, verrebbe da dire, nulla di nuovo sotto il sole. Il tema non è questo, né il degrado morale di partiti che fanno credere di vivere sulla luna, quando tutti sanno che loro per primi vanno a bussare a certe poco raccomandabili porte, e vorrebbero nascondere dietro il paravento di inutili codici etici l’incapacità di selezionare un personale politico del quale non vergognarsi. Non è nemmeno la constatazione del marcio che ci circonda o della sonnolenza della società civile, che non reagisce e resta passiva, salvo indignarsi quando il magistrato di turno fa esplodere il bubbone. Aurelio Chizzoniti, presidente del consiglio comunale di Reggio ai tempi del “modello Reggio” di scopellitiana memoria e primo dei non eletti dietro Rappoccio, ha evidentemente un interesse personale nella vicenda. Ma le sue accuse risalgono a due anni fa e, in tutto questo tempo, la sua è stata una battaglia solitaria. Basti pensare che, tra i truffati, soltanto in dieci hanno presentato un esposto alla procura. Perché la promessa del posto di lavoro per molti non è un reato, bensì il giusto compenso in uno scambio considerato tutto sommato “naturale”. Se va male, si può sempre sperare che vada meglio la volta dopo, magari affidandosi a un politico “più serio” del chiacchierone la cui parola non vale niente. Facile intuire quanto sia libero il voto in un sistema così fragile e quanto dalla politica ci si attende, in una realtà dove tutto è politica, anche l’economia.

La questione, dicevamo, è però un’altra e riguarda il clima di veleni che ammorba l’aria nel palazzo di giustizia di Reggio. Chizzoniti non ha usato giri di parole: “Rappoccio ha fatto tutto questo perché gliel’hanno consentito”. Una pesantissima accusa di omessa contestazione dei reati, rivolta all’ex procuratore della Repubblica di Reggio, Giuseppe Pignatone, ma anche ai giudici Sferlazza e Musolino, che il politico reggino interpreta come conseguenza dello scontro con il giudice Alberto Cisterna per la scalata alla Procura di Roma. In questo contesto, anche l’utilizzo del pentito Nino Lo Giudice, che ha svelato i rapporti tra il fratello Luciano e l’ex numero due della Dna, rientrerebbe nella strategia “politica” di Pignatone, che avrebbe insabbiato la vicenda per un proprio tornaconto personale.

La denuncia di Chizzoniti non è compatibile con il profilo professionale di Pignatone. O l’una, o l’altro: tertium non datur. Ecco perché occorre fare chiarezza, al più presto, nell’interesse dei soggetti coinvolti e per la credibilità dello stesso sistema giudiziario italiano.

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Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele.
Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.

Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l’on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant’eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata “Delianuova”. Quindi se non vuoi essere “richiamato” per l’ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:

a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;

b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;

c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;

d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;

e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);

f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

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Un autunno caldo

Altro che “autunno caldo”, si prospetta un autunno da bollino nero. Gli indizi sembrano convergere tutti in quella direzione. E non ci sarà neanche bisogno di qualche afoso anticiclone nordafricano per fare salire la temperatura e rendere il clima bollente.

Le prima avvisaglie le vediamo da tempo, preoccupati, arrabbiati e allo stesso tempo sfiduciati. Nonostante i sacrifici imposti dalla cura da cavallo somministrataci dal governo Monti, fatichiamo. L’asticella della ripresa viene spostata sempre più in avanti. Al momento, ci siamo già bruciati il 2013. Un po’ come per la fine dei lavori della Salerno-Reggio Calabria, che ogni anno viene allungata di due. Anche se ora, pare, dovrebbe mancare davvero poco.

Ma torniamo alle calde giornate che ci attendono al ritorno dalle ferie, per chi le farà. I dati di Federalberghi, per dire, non sono affatto incoraggianti. Rispetto a giugno 2011, –8,2% di clientela straniera e –7,1% di turisti italiani. Settembre sarà il mese del salasso della seconda rata Imu: secondo Confedilizia, rincari fino all’80% per chi affitta. Conseguenza prevedibile della decisione adottata da molti sindaci: aliquote al minimo per la prima casa (giustissimo), obtorto collo al massimo per la seconda. Con una pressione fiscale reale record (55%), dato spaventoso che va ad aggiungersi a quello sul maggiore aumento di tasse tra i Paesi dell’Unione europea negli ultimi dodici anni (+3,4%), Confcommercio avverte che c’è poco da stare allegri. Il mercato del lavoro è al collasso, con più di trenta aziende al giorno costrette a chiudere, lo scorso anno. A giugno, l’Istat ha segnalato il 10,8% di disoccupati (+0,3% rispetto a maggio, +2,7% su base annua), con una percentuale giovanile da incubo (34,3%). Se non si lavora, non si consuma. Hai voglia a esporre i cartelli dei saldi. Infatti, sono quasi passati inosservati, se il Codacons ha lanciato l’allarme di un calo del 20% (30% al Sud) nelle prime due settimane di sconti. D’altronde, i soldi se ne vanno in bollette per la luce e per il gas. Ogni paio di mesi, arriva la stangata, quantificata dalla Cgia di Mestre in un aumento complessivo del 48,3% negli ultimi dieci anni.

Il timore è che i sacrifici ai quali gli italiani sono quotidianamente chiamati, possano alla fine rivelarsi insufficienti. Ma c’è di più. C’è la sensazione che i sacrifici non siano proporzionati, che il grosso stia ricadendo sulle spalle della gente comune e che, alla “casta”, il governo abbia soltanto fatto il solletico. A ciò va aggiunto che, nel pieno di una crisi drammatica: a) da tre mesi la politica non riesce ad accordarsi su una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti; b) lo scarto tra rappresentanti e rappresentati è ormai al massimo storico; c) i partiti perdono ogni giorno consenso e credibilità; d) il nepotismo impera e la meritocrazia latita. Non serve una Cassandra per capire che, da qui a un paio di mesi, l’Italia si dividerà tra incendiari e pompieri.

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A volte ritornano

Pare che non si sia trattato di un colpo di sole, Berlusconi ha davvero intenzione di ricandidarsi. Tutto il mondo imprenditoriale – a suo dire – ne chiede a gran voce il ritorno. La classica situazione che richiede un “sacrificio” al quale non può sottrarsi chi ha a cuore le sorti del Paese. E pazienza se quel manettaro di Di Pietro, al solito, la butta in caciara: “si è messo a fare politica per motivi giudiziari” e continua perché, evidentemente, “deve ancora sistemare qualche processo”.

Non la prenderanno bene i riformatori pidiellini che, negli ultimi tempi, avevano guadagnato visibilità e iniziativa, sconfinando nella blasfemia (per il partito più “personale” del panorama politico nazionale) della proposta di primarie per la scelta del candidato a premier. Ovvio che, con Berlusconi, le primarie diventano un orpello inutile. Ma lo scalpitante fronte formattatore se ne farà una ragione. Come Angelino Alfano, il segretario di partito meno influente della storia politica italiana, costretto a correre immediatamente ai ripari per risintonizzarsi sulla nuova lunghezza d’onda: “tanti chiedono al presidente Berlusconi di ricandidarsi. Io sono in testa a questi. Se deciderà di farlo, sarò e saremo al suo fianco”. Parole non si sa quanto sincere. A naso, non tanto. L’investitura sovrana che l’ha collocato al vertice del partito non consentiva margini di manovra, ma la svolta, per come è avvenuta, rappresenta una evidente deminutio capitis. Il messaggio è chiaro: le carte le distribuisce l’uomo di Arcore, che “è” il partito. Gli altri sono semplici comparse, utilizzate dal consumato regista ora per questa scena, ora per quella. Rinviata sine die, pertanto, l’ipotesi di ritagliare per Berlusconi il ruolo di “padre nobile” del partito che sarà, una sorta di allenatore e dispensatore di consigli per le nuove leve politiche.

Determinanti alcuni sondaggi (Euromedia Research) che danno il Pdl moribondo “con Alfano leader e Berlusconi fuori dalla politica” (8-12%); quasi in coma “con Alfano candidato premier e Berlusconi padre nobile e presidente del partito” (17-21%); pimpante in caso di “ticket Berlusconi-Alfano, in campo con un progetto che richiami le origini di Forza Italia e una squadra di giovani dirigenti, in un partito completamente rinnovato nelle persone” (intorno al 30%). È noto che i “suoi” sondaggi sono bussola e vangelo, anche quando non convincono i metodi di rilevamento. D’altronde, quello del “ritorno alle origini” è un fiume carsico che periodicamente riaffiora, sponsorizzato dall’ala forzista e guardato con diffidenza dagli ex aennini. Per gli avversari del Cavaliere, invece, l’annuncio è manna caduta dal cielo. “Prego che non cambi idea”, si lascia sfuggire Beppe Fioroni, presagendo una facile vittoria nella prossima primavera. Un regalo che spinge Casini nelle braccia di Bersani e che provoca anche l’irrigidimento del Carroccio (Maroni: “scende in campo? E dove? A San Siro?”).

Non è complicato comprendere le ragioni del cambio di strategia. Senza il suo vero e unico leader, il Pdl è a rischio estinzione, dilaniato dalle correnti che si sono scatenate non appena l’ex premier ha fatto un passo indietro. Certo, dopo quasi venti anni di assidua frequentazione delle stanze del potere, Berlusconi non può più proporsi come l’imprenditore che promette di replicare al governo del Paese i successi ottenuti da privato cittadino, sbaragliando una volta per tutte politici di professione e teatrino della politica. Ma in questa fase prevalgono le ragioni del “primum vivere”. Anche perché il futuro è ancora emergenza economica da affrontare con l’attuale formula di governo grancoalizionista, Monti o non Monti. Per giocare ancora un ruolo, Berlusconi ha bisogno di tenere salde le redini del partito e sperare in un buon risultato elettorale, per poi sedersi al tavolo delle trattative (giustizia, Quirinale) da una posizione di forza.

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Mangiafuoco

E due. Dopo Giovanni Fedele, candidato a sindaco per la lista Colomba, si è dimesso anche Salvatore Coletta, primo dei non eletti, che era subentrato qualche settimana fa. Un consiglio comunale a testa e poi basta. Esperienza finita. In barba alla volontà e alla fiducia degli elettori che certo non avevano vincolato il voto al successo della lista. Verrebbe da dire “troppo comodo” fare il consigliere di maggioranza e abbandonare la nave quando si perdono le elezioni. Ma così va il mondo. Male. Non ci sorprende. Semmai, conferma riflessioni già espresse sulla marginalità della “politica” in alcune candidature.

Per questo, non ci persuade la giustificazione ufficiale fornita da Fedele: “mi dimetto per rispetto degli elettori che non mi hanno votato”. Saranno dello stesso avviso i 1.156 elettori che certamente avevano votato l’uomo e il politico, prima che la carica?
Ora che la scure governativa ha ridotto al minimo la rappresentanza politica degli enti locali, sarebbe utile e auspicabile la presenza di personalità competenti in seno al consiglio comunale. Fedele, già sindaco per un quinquennio e ora dirigente alla Regione Calabria, sarebbe stato una garanzia per tutti e avrebbe saputo svolgere al meglio la delicata funzione di controllo dell’attività di governo dell’attuale maggioranza. Probabilmente, questa considerazione non è stata fatta o non ha avuto alcun peso. Peccato.

Coletta non ha invece avuto niente da dire, almeno pubblicamente. Ma i 167 eufemiesi che avevano scritto, fiduciosi, il suo nome sulla scheda avrebbero diritto a qualche spiegazione. Altrimenti, davvero va a finire che è tutta colpa di Mangiafuoco, quello che muove i fili e decide per tutti.

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