Il ritorno di re Giorgio

Sul suicidio politico del partito democratico, unico vero grande sconfitto nella partita incominciata con il dopo-voto di febbraio e conclusa con la riconferma di Giorgio Napolitano al Quirinale, c’è poco da aggiungere a quanto già detto in questi giorni. Il bon ton suggerisce anzi di non infierire con gli sconfitti, che ora dovranno decidere cosa fare di quel che (forse) fu un partito e che oggi – evidentemente – non lo è più. Sarebbe già il segnale di un cambio di marcia riuscire a staccarsi dall’immagine della patacca, proposta puntualmente ad ogni debacle, che produce un partito nuovo in mano alle stesse facce. Cosmesi politica pura.
Intanto, all’orizzonte si profila il governo del presidente, formula che sottintende un ruolo da protagonista assoluto per la prima carica dello Stato. Giorgio II non sarà un semplice notaio della Costituzione, ma rappresenterà il vertice politico al quale i partiti che daranno vita al già annunciato governo di larghe intese dovranno dare conto per quanto concernerà composizione, programma e timing.
L’esecutivo sarà politico perché l’assunzione di responsabilità, cui Napolitano ha richiamato gli schieramenti, passa necessariamente da una sua dimensione “politica”, nonostante la probabile riconferma di qualche tecnico del governo Monti.
Il programma, aggiustato e integrato, attingerà a piene mani dal recente lavoro dei dieci “saggi”, mentre la durata non dovrebbe superare i 12-18 mesi: d’altronde, se un governo di “salvezza nazionale” non riesce a salvare il Paese nel giro di pochi mesi, ha fallito la propria mission. Meno di due anni di tempo per cercare anche di disinnescare Grillo, mediante l’approvazione dei provvedimenti più attesi e invocati dai sostenitori del M5S (e non solo): costi della politica, riforma elettorale, riforme istituzionali.
Esaurito il mandato, l’esecutivo si farà da parte, mentre Napolitano scioglierà le Camere, indirà nuove elezioni e – subito dopo – si dimetterà.
Cosa cambia rispetto a due mesi fa? Cambiano i poteri del presidente della Repubblica, che ora sono pieni, non depotenziati dal semestre bianco. Per cui, o i partiti dimostreranno di essere capaci di fare cambiare rotta al Paese, o andranno presto tutti a casa.
Si poteva fare diversamente? Ovvio che sì. E sarebbe stato anzi auspicabile un messaggio di discontinuità e di rinnovamento. Ma, per uscire dal cul de sac in cui si era precipitati dopo i primi quattro scrutini, migliore soluzione forse non c’era. E questo spiega molto dell’imbuto in cui si sta strozzando il sistema politico italiano.

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E anche Romano è andato

Che Prodi non ce l’avrebbe fatta al quarto scrutinio era scontato. Non ci si aspettava però – almeno non in queste proporzioni – che il risultato avrebbe consegnato un partito completamente allo sbando. L’obiettivo di compattare il partito, dare una dimostrazione di forza e presentarsi al quinto scrutinio come “un sol uomo” per cercare di forzare la mano a qualche grillino “possibilista” è miseramente fallito. Mi chiedo, anzi mi richiedo, se questi prima di presentarsi in Aula discutano e decidano sul da farsi. Perché poi ognuno va in ordine sparso; per cui, bisognerebbe almeno avere il pudore di non indicare la “posizione ufficiale” del partito, visto che non si è in grado di garantire l’esistenza di una posizione ufficiale.
Credo che per Bersani sia arrivato il capolinea; e forse anche per il Partito democratico, a meno che la dirigenza del partito non prenda atto del fallimento, vada a godersi la pensione da qualche parte (purché lontano dal Parlamento) e lasci il partito ad una nuova generazione.
Ma non credo che accadrà. Questi non vanno via neanche con le cannonate. Piuttosto cercheranno nuovamente l’accordo con il Pdl. Ora che è sufficiente la maggioranza assoluta potrebbe rispuntare Marini o D’Alema, da molti indicato come il carnefice del Pd e il regista occulto di queste elezioni presidenziali.
Però che tristezza, noi che avevamo creduto in una sinistra moderna, in un partito democratico interprete delle istanze di cambiamento provenienti dalla società e capace di guardare al futuro con fiducia. Anche se l’abbiamo fatto a corrente alternata e con molte, troppe riserve, fa male lo stesso.

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Bye bye, Marini

Il sogno è durato dodici ore appena. Poi si è tramutato in incubo. Troppo brutto per non pensare che non fosse tutto preventivato. Insomma: ne avranno parlato alla riunione di ieri sera quelli del Partito democratico. Quindi, perché spaccare il partito? Perché fare di Franco Marini l’agnello sacrificale di questo primo giro di votazioni? Non voglio pensare che Bersani sia un fesso, né che sia così masochista da disintegrare un partito che, a questo punto, non ha neanche ragione di esistere. E quindi? L’ennesima dimostrazione che i destini e le ambizioni personali vengono prima di tutto. Prima, anche, degli interessi dell’Italia e finanche del proprio partito.
Fatto sta che con un sol colpo, Bersani è riuscito nell’impresa record di rafforzare Grillo, Renzi e Berlusconi (che ci ha fatto un figurone, lasciando sbranare tra di loro i democrats e passando – lui – per responsabile uomo di Stato). Al modico costo della distruzione del propria “ditta”. Roba da guinness dei primati.
Sia chiaro che il problema non è Marini, anche se il “patto della crostata” e la responsabilità del “lupo marsicano” nell’abbattimento del primo governo Prodi fanno parte di un curriculum non invidiabile.
Il problema è la puzza di oligarchia che spande da un’operazione sfacciatamente di vertice; il problema è la strafottenza di un ceto dirigente che se ne sbatte degli umori della base e delle proteste fuori dal Parlamento. Al solito, è insopportabile la presa per il culo.
Tutto da rifare, per dirla alla Bartali. Cosa ci sia da salvare, a questo punto, è poco chiaro. Sarebbe già un risultato accettabile riuscire a non farsi insultare.

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La mia terna per il Quirinale

È il giochino del momento, tanto che perfino Ruzzle ha perso il suo fascino. Beppe Grillo ha addirittura indetto le “quirinarie” per scegliere il candidato che il Movimento Cinque Stelle sosterrà a partire da giovedì 18, giorno in cui inizieranno le votazioni nel Parlamento riunito in seduta comune. E pazienza se il capogruppo alla Camera Roberta Lombardi ignora il requisito anagrafico previsto dall’articolo 84 della Costituzione (compimento del cinquantesimo anno di età): “formalismi” che nell’era della e-democracy non hanno più ragione d’esistere.
Gli elettori chiamati a deporre la scheda dentro la grande cesta di vimini sono 1007: 630 deputati, 315 senatori, 58 delegati regionali (tre per regione, ad esclusione della Valle d’Aosta, cui ne spetta uno soltanto), quattro senatori a vita (Emilio Colombo, Giulio Andreotti, Mario Monti e il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi). Nei primi tre scrutini è richiesta la maggioranza qualificata dei 2/3 degli elettori, pari a 671 voti; dal quarto scrutinio in poi è sufficiente la maggioranza assoluta (504 voti). Gli scenari prevedibili vanno dalla rapida elezione di un presidente di “garanzia”, un nominativo espressione della più ampia maggioranza possibile (Pd-Pdl-centristi e, possibilmente, qualche grillino), al presidente “di parte”, eletto con i voti del centrosinistra e il contributo di una frangia del M5S (sulla falsariga di quanto accaduto con Grasso al Senato).
Degli undici presidenti della Repubblica che si sono succeduti dal 1948 ad oggi, ho visto all’opera gli ultimi cinque: Giovanni Leone è infatti uno sbiadito ricordo in bianco e nero.
Sandro Pertini, il presidente partigiano, simpatico, iracondo, diretto: il primo capo dello Stato che dismette i panni di “notaio” della Costituzione e fa sentire alta la sua voce contro le inefficienze della politica (emblematica la vicenda del terremoto in Irpinia).
Francesco Cossiga, democristiano sui generis con qualche scheletro nell’armadio, che dopo cinque anni da burocrate diventa Externator e comincia a picconare quel sistema al quale era stato organico.
Oscar Luigi Scalfaro, eletto in uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana (la strage di Capaci) e protagonista di un settennato molto controverso, caratterizzato dall’aspro scontro con Silvio Berlusconi.
Carlo Azeglio Ciampi (con Pertini il più amato: è stato l’unico ad avere visitato tutte le province italiane), il presidente che ha ridato linfa al sentimento di unità nazionale e di italianità.
Giorgio Napolitano, accusato ora di eccessiva “distrazione” (promulgazione leggi ad personam), ora di esorbitante protagonismo (operazione che ha portato Mario Monti a Palazzo Chigi).
Per i prossimi sette anni, la mia preferenza va a una candidatura femminile. Credo che i tempi siano maturi per affidare a una donna la carica più alta del nostro ordinamento. Tra i nomi che circolano, Emma Bonino è il nominativo sul quale potrebbero convergere voti trasversali agli schieramenti politici. Radicale, paladina dei diritti delle donne e protagonista delle più importanti battaglie di civiltà della storia repubblicana, ha carisma ed esperienza, sia nazionale che internazionale: commissario europeo, ministro del governo italiano, vicepresidente del Senato. In seconda battuta, Laura Boldrini, fresca presidente della Camera, da oltre due decenni impegnata negli scenari più desolanti e tragici del pianeta, dal 1998 portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. Se invece dovesse sfumare la possibilità delle “larghe intese”, il partito democratico dovrebbe procedere a maggioranza. Dal quarto scrutinio tutto è possibile: anche una convergenza con il M5S su Romano Prodi, con il quale il Pd è parecchio in debito: due volte il professore bolognese ha condotto il centrosinistra alla vittoria, due volte è stato fatto fuori dai suoi. Il curriculum non si discute, mentre sul piano personale si tratterebbe di un risarcimento. Con buona pace di Berlusconi e delle sue minacce di espatrio: se il Cavaliere vuole andare, che vada pure.

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Sconfitta e metodo democratico nelle parole di don Luigi Sturzo

In esilio ormai da dieci anni, nel febbraio del 1936 don Luigi Sturzo scriveva sulle colonne del giornale spagnolo “El Matì” un articolo con il quale si rivolgeva agli amici cattolici spagnoli, alleati del Fronte Nazionale, dieci giorni dopo le elezioni che avevano visto la vittoria del Fronte Popolare. Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra civile terminata nel 1939 con l’instaurazione della dittatura di Francisco Franco. Quella di Sturzo è una lezione di umiltà e un avvertimento sui pericoli che può determinare la contrapposizione feroce tra le forze politiche. L’esempio italiano, caratterizzato dall’incomunicabilità tra socialisti, cattolici e liberali, da questo punto di vista era emblematico e l’affermazione del fascismo, nel 1922, stava lì a dimostrarlo.

Altra utilità, che viene dalla sconfitta, è studiarne oggettivamente le cause […]. Non è a credere che gli avversari abbiano sempre torto, e che noi abbiamo sempre ragione. La sconfitta ci deve dare un senso di umiltà (che spesso non abbiamo) in confronto ai nostri avversari.

È applicabile al caso la massima ascetica che nessuno si deve credere migliore di qualsiasi persona. La ricerca delle ragioni morali della sconfitta (più che quelle politiche o tattiche) ci conduce a rivalutare tutti i problemi della vita pubblica.

Ma su tutti questo problema, che è fondamentale: nella vita pubblica non siamo soli, non siamo sempre dominatori […]. Ciò significa che si deve avere sempre presente il proposito di non portare la lotta politica a fondo per la distruzione dell’avversario, di non rendere impossibile l’intesa con i partiti che si combattono, di non tagliare mai i ponti sul terreno elettorale e parlamentare.

L’errore enorme di ridurre il paese a due blocchi fermi e chiusi per l’eliminazione del competitore dovrebbe essere bandito con ogni cura […]. Non bisogna mai portare le lotte sul piano di una guerra civile.

[Don Luigi Sturzo]

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Il marchese del Grillo 2.0

Era scontato che la diretta streaming si sarebbe rivelata una trappola. Ma Bersani “doveva” caderci, per non subire l’accusa di non avere tentato tutte le strade. Ed è pure naturale che un movimento che si professa antisistema non abbia alcun interesse a fare da stampella a Bersani, Berlusconi o chiunque altri. Se poi i “vecchi” partiti vogliono fare un ulteriore regalo a Grillo, non hanno che una strada: coalizzarsi in un governo di “responsabilità” che si trasformerà in una formidabile carta tra le mani del M5S nella prossima campagna elettorale.

Ci sta pure che qualcuno si indigni e accusi i grillini di essere privi di senso di responsabilità (penso alla posizione di Fiorella Mannoia, per esempio), ma ciò – paradossalmente – potrebbe rivelarsi utile da un punto di vista di chiarificazione: ognuno ora sa cosa ha votato, cosa non ha votato o cosa ha prodotto la decisione di astenersi e si regolerà di conseguenza.

A questo punto tocca al Pd prendere l’iniziativa e chiedere di andare alle urne al più presto. Il M5S vuole il “tanto peggio, tanto meglio?”. E “tanto peggio, tanto meglio” sia. È tempo di sfidare l’avversario: tergiversare o sperare nella resipiscenza di Grillo è soltanto una perdita di tempo.

Solo gli illusi potevano credere che Grillo e Casaleggio potessero avere uno scatto di generosità o che il M5S avrebbe stabilito la propria linea nell’incontro con Bersani, la cui proposta probabilmente non è stata neanche ascoltata.

Le decisioni che contano il M5S le prende altrove e senza dibattito interno, visto che l’unica volta che Grillo e Casaleggio hanno allentato la catena (elezione del presidente del Senato) stava per scoppiare il finimondo.

Quella di oggi è stata soltanto una parata a favore di webcam, che gli adoranti grillini certamente apprezzeranno, ma che non cambia la sostanza di un movimento populista, saccente e antidemocratico.

“Le parti sociali siamo noi” ha dichiarato la portavoce alla Camera, Lombardi. A me ha ricordato Alberto Sordi ne Il marchese del Grillo: “Io so io e voi non siete un cazzo”.

Qua siamo al marchese del Grillo 2.0: “Le parti sociali siamo noi e voi non siete un cazzo”.

Nulla di nuovo sotto il sole.

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E si torna sempre al “che fare”

A me sembra che il Pd si stia impantanando in un’eccessiva elaborazione del lutto. Non che non ci sia stata la sconfitta, o comunque una non vittoria: “siamo i primi, ma non abbiamo vinto”, l’analisi a caldo, onesta, del segretario Bersani. E però gli altri sono già in campagna elettorale, proiettati sul futuro: al risultato del 24 e 25 febbraio neanche ci pensano più. Berlusconi minaccia di chiamare a raccolta la piazza una volta al mese e da qui in avanti il motivo lo troverà sempre, visto che l’arma del legittimo impedimento è al momento parecchio spuntata e i suoi processi invece andranno avanti.

Grillo tifa spacciatamente per il “tanto peggio, tanto meglio” (cinico, ma ineccepibile dal suo punto di vista) per continuare a monetizzare lo scontento di larga parte dell’elettorato. Inutile attendersi che i richiami al senso di responsabilità producano effetti positivi, sponda M5S. Che fare (ah, vecchio Lenin), quindi? Fare i conti con la realtà sarebbe già un utile primo passo. E la realtà ci dice: a) che nessuno ha i numeri per fare un governo; b) che il centrosinistra, pur non avendo la maggioranza nel Paese, ha la maggioranza alla camera. L’iniziativa politica non può che spettare a Bersani.

E poi? E poi, come diceva un mio vecchio professore, “a mio modesto e subordinato parere” bisogna tirare fuori gli attributi.

Mi pare che Bersani sia su questa strada e me ne compiaccio, anche perché ultimamente l’ho parecchio criticato, tanto da avere disertato le urne nell’illusorio tentativo di lanciare il mio pezzettino di segnale di insofferenza nei confronti della gestione del partito in Calabria: commissariamento infinito, candidature calate dall’alto, solito sconcio di primarie dalla dubbia credibilità.
“Scurdammoce ’o passato”: è stato un errore non chiedere di andare al voto dopo la caduta di Berlusconi; è stato un altro errore farsi impiccare a quel “senso di responsabilità” dal quale il leader pidiellino, furbo e previgente, si è smarcato, tanto da far credere che il disastro sia stato provocato da altri e non da chi ha vinto le elezioni nel 2008, governato per tre anni e mezzo, sostenuto Monti per un altro anno; è stato un errore gustarsi dal divano la campagna elettorale degli altri, incapaci di prendere posizioni nette sia perché sicuri della vittoria, sia perché troppo attenti al mantenimento dell’equilibrio tra Monti (che invece ci è andato giù pesante) e Vendola.

Si guardi al futuro, senza cedimenti né paure. Occorre recuperare il feeling con la società, ma questo è un processo che richiederà tempo e una nuova classe politica. Per il Pd potrebbe essere positivo il dato di fatto che Grillo non rappresenta tutta la protesta: l’alto astensionismo, da questo punto di vista, è eloquente.
Il senso della proposta degli otto punti “irrinunciabili per qualsiasi governo” è condivisibile: presentarsi al Parlamento con un paio di cose da fare (e speriamo che sia finalmente la volta buona per la riforma elettorale) e su quelle chiedere la convergenza delle altre forze politiche. C’è poi la chiarezza del no ad un’alleanza Pd-Pdl che sarebbe un suicidio politico e il più grande favore a Grillo. In definitiva, un governo di minoranza o comunque qualcosa che gli somigli (l’ultima moda è il governo “di scopo”). A tempo: poi, di nuovo al voto. Se non dovessero esserci le condizioni per una soluzione del genere, però, meglio andare subito alle elezioni. Ma a quel punto il Pd dovrebbe avere la forza di cambiare tutto, a partire dalla premiership (non ero fan di Renzi, ma allo stato attuale non vedo altro all’orizzonte), per evitare di essere travolto dallo tsunami.

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Le elezioni politiche a Sant’Eufemia

Il primo dato significativo e probabilmente quello più rilevante è l’astensionismo. Tra i comuni della provincia di Reggio Calabria, l’affluenza per l’elezione del Senato registrata a Sant’Eufemia ha segnato il record negativo, con il 37,13% di votanti sul totale degli aventi diritto: in cifre, sono stati 1.010 su 2.720 gli elettori che si sono presentati alle urne. Il dato relativo alla Camera piazza invece Sant’Eufemia al secondo posto, dietro la maglia nera Platì (37,38%), con il 37,59% di votanti e 1.156 elettori su 3.075 aventi diritto.

Qualsiasi tipo di considerazione sull’esito della votazione deve quindi fare i conti con questo primo dato, indice di una fortissima disaffezione e di mancanza di fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni. La raccolta delle tessere elettorali è stato il sintomo di una malattia ben più grave, perché accanto a coloro che hanno voluto così protestare contro le politiche scellerate che a livello nazionale e regionale stanno fortemente penalizzando il territorio eufemiese (vicenda dello svincolo e discarica su tutte) si è ritrovata la stragrande maggioranza della popolazione, spontaneamente e senza che vi sia stata alcuna forma di coordinamento.

Cosicché, domenica e lunedì, quasi sette elettori su dieci sono rimasti a casa. Nonostante le 887 tessere elettorali raccolte dal movimento Cittadinanza Attiva fossero state riconsegnate al Comune per essere restituite ai cittadini e nonostante l’appello al voto giunto in molte case tramite una lettera inviata dall’assessore regionale Luigi Fedele a due giorni dal voto.

Se a questo si aggiunge un ulteriore 10% di schede nulle (52, pari al 5,14%) e bianche (45, pari al 4,45%), siamo intorno a due elettori e mezzo su dieci. Troppo pochi per cercare di analizzare l’esito dello spoglio.
Ad ogni modo, il partito più votato è stato il Pdl (339 voti e 37,13% al Senato; 412 voti e 39,61% alla Camera): un risultato positivo per l’onorevole Fedele, nel bel mezzo dell’attuale bufera politica.

Non è tsunami, ma qualche onda del Movimento Cinque Stelle è arrivata anche a Sant’Eufemia, dove il partito di Grillo è secondo partito alla Camera con 185 voti (17,78%) grazie al voto degli under 25 (al Senato è invece terzo con 130 voti, pari al 14,23%).
Non ha nemmeno confermato i 202 voti delle primarie il Pd (15,44% al Senato, con 141 voti; 152 alla Camera, pari al 14,61%), mentre non ha sfigurato Grande Sud al Senato (effetto probabile della candidatura di Giovanni Bilardi): 114 voti (12,48%), a fronte dei 46 (4,42%) raccolti alla Camera. Soltanto 79 voti al Senato per la lista Monti (8,65%), confermati alla Camera sommando i voti di Scelta civica (64, pari al 6,15%) e Unione di centro (25, pari al 2,40%). Pochi anche i consensi dati all’estrema sinistra, con Ingroia leggermente davanti a Vendola: 21 i voti per Rivoluzione civile al Senato (2,30%) e 38 alla Camera (3,65%), mentre Sel si è fermata a 19 voti al Senato (2,08%) e 23 alla Camera (2,21%).
Il resto sono percentuali da prefisso telefonico, utili soltanto per fissare la vittoria del centrodestra a livello di coalizione: 46,73% alla Camera e 51,80% al Senato; per il centrosinistra, 17,30% al Senato 18,40% alla Camera; per il centro di Monti, 9,13% alla Camera e 8,65% al Senato.

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Per questo giro, passo

Se Berlusconi ha violato il silenzio elettorale lasciandosi andare alle sue consuete farneticanti esternazioni contro la magistratura, a margine di una conferenza stampa tenuta a Milanello, dove solitamente si parla di calcio (nello specifico, il derby meneghino), ritengo che anche a me possa essere consentito di dire qualcosa sul voto di domenica e lunedì. Credo di poterlo fare soprattutto perché il mio non è un tentativo di fare proselitismo, ma soltanto l’occasione tardiva di esprimere il mio pensiero.

In realtà la mia opinione l’ho già manifestata altre volte, però vorrei essere più preciso. Non voterò, ma vado in bestia se mi si dice che questa è antipolitica. Antipolitica è non riuscire, in cinque anni, a cambiare una legge elettorale vergognosa che toglie al cittadino la possibilità di votare il candidato che l’elettore reputa più idoneo a rappresentarne interessi e passioni. E ancor di più mi fanno perdere le staffe quelli che arrampicandosi sugli specchi se ne escono una motivazione vecchia di venti anni: dare il colpo di grazia a Berlusconi.
Si può cambiare disco o dobbiamo ancora farci dettare l’agenda da un personaggio screditato in tutto il mondo, che non gode di alcuna credibilità neppure tra i suoi stessi sostenitori e che è stato quasi costretto a ricandidarsi per non fare scomparire un’area politica allo sbando da due anni?

Vorrei sommessamente ricordare che i cittadini, la loro parte, l’hanno fatta per ben due volte mandando a Palazzo Chigi Romano Prodi: non è colpa loro se una volta al governo il centrosinistra non ha fatto una legge sul conflitto d’interessi che sarebbe stata una conquista di civiltà per il Paese e ha preferito invece dedicarsi all’autolesionismo più sfrenato e inspiegabile. O peggio all’inciucio: se penso al “patto della crostata” di casa Letta non ne mangio per il resto dei miei giorni.

Ora, mi sembra giunga fuori tempo massimo l’appello a serrare i ranghi. Anche perché, fino a qualche settimana fa, non era nemmeno ben chiaro lo scenario e poco decoroso il tentativo di equilibrismo del Pd stretto tra l’alleanza con Vendola e l’occhiolino strizzato a Monti.

La mia convinzione è che il leader del Pdl sia giunto al capolinea. Però ha fatto tutto da solo, i suoi avversari non ne hanno alcun merito. A questa considerazione si aggiunge quella pragmatica sull’inutilità del mio voto. Non “nel” voto in generale, me ne guarderei bene: libertà, democrazia e voto sono le più grandi conquiste dell’antifascismo. Cerco di spiegarmi meglio: alla Camera è praticamente certa la vittoria della coalizione di centrosinistra, che conquisterà quindi il premio di maggioranza e non avrà difficoltà di sorta. I problemi potrebbero sorgere al Senato, dato che la legge elettorale “stranamente” (perché mai si dovrebbero fare le cose semplici in Italia?) assegna il premio su base regionale, non nazionale. Per cui potrebbe verificarsi l’ipotesi che in quel ramo del Parlamento la coalizione vincente non riesca ad avere la maggioranza (soluzione per la quale tifano sia Monti che Berlusconi).
La partita vera, quindi, si gioca in quelle regioni che eleggono un elevato numero di senatori. Insomma, se risiedessi in Sicilia o in Lombardia (che vengono date come le regioni in bilico e decisive per l’elevato numero di senatori che esprimono) probabilmente andrei a votare, ma farlo qua non è proprio un esercizio inutile. Non condanno chi va a votare e non chiedo che altri seguano il mio esempio, che è quanto di più sofferto mi sia mai toccato fare da un punto di vista civico. Ma il ditino puntato contro l’antipolitica no, non l’accetto.

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Mangino brioches

Ho letto il servizio del CORRIERE DELLA CALABRIA su quella porcata nauseabonda commessa da alcuni consiglieri regionali, l’approvazione del taglio del trattamento di fine mandato, strombazzato come il segnale inequivocabile di un nuovo modo di fare politica che non vuole privilegi, sta vicino alla gente che soffre e bla bla bla…
Non lo so se i nostri poco onorevoli rappresentanti, impegnati tra Natale e la Befana in simili toccanti esternazioni, siano poi corsi a nascondersi. Conoscendoli un po’, non credo. Dovrebbero però farlo, dopo l’articolo di Pablo Petrasso, il quale ha smascherato l’ennesimo colpo gobbo della casta, con tanto di corsa per ottenere la liquidazione dell’80% del tfm (poverelli, non era consentito richiedere tutto il “cucuzzaro”) prima che la nuova legge entrasse in vigore.

Una schifezza.

Ma questi dove vivono? Fino a quando pensano di potere continuare così senza che nessuno cominci ad andare a prenderli casa per casa? No alla violenza, per carità, ma nessuno può pensare che, stringi stringi, alla fine non si vada a finire là se non si cambia registro. Il disperato che non ha niente da perdere c’è sempre. Credo che i politici facciano male a sottovalutare la situazione. Soprattutto fanno male a continuare a prendere per i fondelli la gente con operazioni di facciata che non fanno altro che aumentare nella società la rabbia, l’indignazione e la nausea.

Forse davvero dal chiuso delle loro stanze dorate non hanno percezione dei drammi familiari che si verificano fuori per la mancanza di lavoro e per le tasche sempre più vuote. Sembrano tutti Maria Antonietta sorda alle lamentele di chi le faceva notare che il popolo moriva di fame: “Se non hanno il pane, che mangino brioches!”.

I nomi di questi galantuomini andrebbero scolpiti all’ingresso di ogni comune, perché oggi tutti sappiano e a futura memoria, se mai un giorno la politica si risolleverà, come esempio del fondo toccato in questo inizio di millennio dall’attuale classe dirigente.

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