Il terremoto del 1908 nel racconto del sacerdote Luigi Bagnato

Il terremoto del 28 dicembre 1908, abbattendosi su abitazioni già colpite dagli eventi sismici del 1894, 1905 e 1907, fu per Sant’Eufemia una tragedia immane. Il numero delle vittime non fu mai accertato con esattezza: per la giunta comunale guidata dal sindaco Pietro Pentimalli furono circa 700, mentre secondo altre fonti potrebbero essere state molte di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dall’evento catastrofico, riporta i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino ai 537 riportati da Vincenzo Tripodi nella sua Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%. Le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100, un centinaio quelle parzialmente distrutte. Si salvarono alcune baracche costruite dopo il terremoto del 1894 e qualche costruzione nei pressi della fontana Nucarabella, compreso il macello comunale, che era stato fabbricato nel 1905. Altre case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894, nell’area denominata “Piazzetta”. Nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate nella zona alta, attorno alla piazza dedicata a Vittorio Emanuele III, mentre le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie.
Nella storia di Sant’Eufemia il terremoto del 1908 rappresenta uno snodo cruciale. Il “prima” racconta di un paese raccolto nei due rioni Paese Vecchio e Petto; il “dopo” è caratterizzato invece dall’espansione edilizia nella vasta area della Pezza Grande, dove vengono trasferiti oltre 2000 cittadini. Il paese com’è oggi, sotto il profilo urbanistico è conseguenza diretta di quella catastrofe.
Tra le testimonianze drammatiche del tragico evento, un rilievo particolare va attribuito al racconto del sacerdote Luigi Bagnato, che si trovava nel seminario di Mileto e che immediatamente accorse in paese: «Narrerò i lutti, che grandissimi apportò quella spaventosissima notte, nella quale il grande terremoto riempì tutto di rovine. Io, ora arciprete, ero allora assente, dimorando a Melito quale padre spirituale dei seminaristi, giovani speranze della chiesa. Anche lì abbiamo sentito la terra fortemente scossa, in verità con nessuna perdita di persone, ma solo di edifici. Fuggii atterrito camminando per diverse ore, ahimè! per non vedere più la casa, il fratello, i nipoti, la sorella. Li avevano sepolti le rovine delle case. Ho trovato il padre, vecchio infelice, che piangeva i cari perduti. […] Il 27 dicembre 1908, Domenica, fu una giornata di foschia, cadde una pioggia assidua ed abbondante fino a vespro, cui successe una notte simile. Il cielo offuscato e l’aria pesante. Due ore circa prima dell’alba, e precisamente alle cinque e ventiquattro minuti, la terra prima tremò lievemente, e poi d’improvviso per un minuto intero con un moto veemente sovvertì con ingente fragore le mura ed i tetti delle case. Le grida e i clamori arrivarono alle stelle, mentre nella notte scura, agitata dal vento e dalla pioggia, ciascuno, con voce disperata e piangente, chiamava i suoi. O vera notte di calamità e di sventura, notte lacrimevole, che più presto di un detto così numerose anime, avulse dal corpo, riunì davanti al trono di Dio! Non appena fu giorno, quale miserevole spettacolo! Non più vie, non più case, alte rovine sotterravano ogni cosa, rovine dalle quali uscivano fuori trave rotte, tristi residui di case, con le suppellettili rotte delle stanze. Sant’Eufemia non esiste più, mutata com’è ora in un cimitero. Attraversando le rovine terrificanti per lo squallore, qua e là asperse di sangue, si aggiravano i miseri superstiti che si affrettavano a portare aiuto ai feriti, salvare coloro che si vedevano e le cui voci si sentivano, dissotterrare i sepolti dall’alta congerie per strapparli, se possibile, dalla morte e richiamarli in vita. Crudele spettacolo! Si sviluppò anche un incendio che, col favore del vento e alimentato dalla legna, dal vino, dall’olio, divorò e distrusse due rioni ad oriente dalla piazza, con le macerie e i corpi sepolti, dei quali alcuni ancora vivi. Per due giorni e due notti le alte fiamme, ma il fumo e il fuoco tra le rovine serpeggiò per più di un mese con il terribile puzzo di bruciato. Ciascuno conta i suoi morti: troppe poche famiglie incolumi, e alcune distrutte del tutto. Quanti morti? Le prime voci li portano a mille, a duemila. Circa seicento cadaveri strappati dalle rovine abbiamo trasportato senza alcuna onoranza. Un’ampia fossa fu scavata nel cimitero. Pochi ebbero privata sepoltura. Le chiese crollarono con i loro campanili. Già con ingenti spese, dopo il terremoto del 16 novembre 1894, le avevano restaurate decorosamente: due specialmente, la Chiesa Madre e quella del SS. Rosario; ma questa cadde quasi dalle fondamenta e quella fu tutta sconquassata. Rimase distrutta anche la chiesa delle anime del Purgatorio. Le statue dei Santi, esistenti in tutte le chiese, rimasero mirabilmente incolumi, scampate a qualsiasi danno. […] Per più giorni, anzi per più di un mese, siamo vissuti sotto le tettoie costruite negli orti e sulla pubblica via con legna e tavole estratte da sotto le macerie. Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione».
[Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città, “Libro dei defunti. 1877-1908”, in Archivio parrocchiale Maria SS. delle Grazie]

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5 luglio 1914, il giorno della pacificazione eufemiese

Quando si parla di “data storica” per una comunità, il rischio di scadere nella retorica è sempre in agguato. Non è il caso del 5 luglio 1914, che nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte segnò la fine delle aspre divisioni sulla ricostruzione del paese seguite al terremoto del 28 dicembre 1908. Il terribile sisma – che aveva provocato circa 700 vittime e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio – ripropose la questione, già vissuta dopo il “fracello” del 5 febbraio 1783, del trasferimento dell’abitato nell’area denominata Pezza Grande. Nel 1783 prevalsero i fautori della ricostruzione nelle aree allora edificate (Paese Vecchio e Petto). Dopo il 1908 le cose andarono diversamente, determinando l’odierno assetto urbanistico del paese con i suoi tre grandi rioni: Paese Vecchio, Petto e, appunto, Pezza Grande. Anche nella riedizione di quel drammatico scontro la polemica tra i sostenitori delle due contrapposte tesi fu violentissima. Da un lato si trovarono gli ex sindaci Francesco Capoferro, Antonino Condina-Occhiuto e il medico condotto nonché grande oratore Bruno Gioffré, che incendiava gli animi degli eufemiesi invitandoli alla resistenza. Nel campo opposto svettava la prestigiosa figura dell’anziano commendatore Michele Fimmanò, per oltre sessant’anni dominatore assoluto della scena politica eufemiese e regista delle elezioni comunali che a maggio 1910 incoronarono sindaco il notaio Pietro Pentimalli.
Il 14 ottobre 1911 la giunta guidata da Pentimalli inviò al presidente del consiglio Giovanni Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Ettore Sacchi un promemoria (“Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte”) a sostegno del trasferimento del paese nel nuovo sito, che andava a confutare le ragioni del fronte opposto, compendiate nel parere espresso due anni prima dal geografo Mario Baratta (“Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 28 dicembre 1908”). Il governo nazionale sposò la linea di Fimmanò e di Pentimalli, il quale aveva comunque accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore. Ma nonostante l’apertura del sindaco, la tensione tra gli schieramenti in campo raggiunse livelli di guardia così alti che più volte rischiò di scapparci addirittura il morto.
Il pericolo di una deriva drammatica convinse “i migliori elementi delle due parti” a sedersi attorno ad un tavolo per trovare una sintesi, che fu concordata con il deputato reggino Giuseppe De Nava, garante ministeriale di un’operazione che teneva insieme tutto: rielezione di Pentimalli nelle elezioni comunali del 1914, edificazione del paese nella nuova area e abrogazione del divieto di ricostruzione nelle aree distrutte dal terremoto.
Probabilmente mai più gli eufemiesi sono riusciti a fornire una lezione così alta di unità di intenti. Gli individualismi furono messi al bando da una generazione responsabile che trovò nel sindaco Pentimalli una guida illuminata (il quale meriterebbe un approfondito e specifico studio biografico), capace di portare fuori dalle tenebre un popolo distrutto moralmente e materialmente. Esempio fulgido di come, di fronte alle avversità, occorre fare quadrato se si vuole dare prova di maturità e di una visione nobile, non condizionata da interessi e ambizioni personali.
Ecco perché la chiusura del discorso pronunciato da Pentimalli il 5 luglio 1914, giorno della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale, rappresenta un inno alla concordia e all’amore per il superiore bene comune che sempre dovrebbero animare chi ha l’onore di rappresentare la comunità nelle istituzioni: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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Commemorazioni e orazioni nella storia di Sant’Eufemia

Diversi anni fa avevo sviluppato l’idea di comporre un’antologia eufemiese. Ritenevo – e ritengo tuttora – utile una selezione delle poesie, dei racconti, dei saggi storici e letterari scritti da autori eufemiesi. Non soltanto per il valore storico e culturale, ma soprattutto per soddisfare il bisogno di salvare tali opere dall’oblio. Volumi ed opuscoli pubblicati da personalità eufemiesi tra Ottocento e Novecento resistono infatti in un numero ormai ridotto di copie, presso qualche biblioteca pubblica: Reggio Calabria, Palmi, Polistena, Biblioteca nazionale di Firenze; pochissimi in quella di Sant’Eufemia.
Mi misi pertanto sulle tracce delle opere di mia conoscenza, che fotocopiai insieme ad altre scovate per caso, delle quali ignoravo l’esistenza. Nel tempo sono stato anche assistito dalla fortuna, presentatasi con il volto generoso di amici che, avendo avuto la necessità di svuotare vecchie abitazioni, hanno voluto farmi omaggio dei volumi delle relative librerie. Più volte mi è capitato di recuperare opere pubblicate da eufemiesi, discorsi ufficiali e commemorazioni pubbliche dalla tiratura limitatissima perché destinati ad una ridotta platea di lettori.
Non potendo sapere se mai scriverò l’antologia, nel libro “Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea” ho riportato integralmente alcune commemorazioni ufficiali (in qualche caso esistenti ormai in unica copia) proprio per ridare vita a documenti importanti della storia eufemiese, che ho inteso così consegnare alle future generazioni, affinché ne abbiano cura.
Di Carlo Muscari sapremmo poco o niente, senza la commemorazione tenuta da Michele Fimmanò nel centenario della morte del martire della Repubblica partenopea. Identica considerazione vale per lo stesso Fimmanò, se non fosse stata data alle stampe il discorso ufficiale di Pietro Pentimalli. Così come per Bruno Gioffré, Luigi Cutrì, Vittorio Visalli.
Mancando un Archivio storico comunale che consenta di mettere ordine tra i documenti stipati negli scantinati del Palazzo municipale, occorre fare di necessità virtù. Anche quando i toni possono suonare enfatici e agiografici, le orazioni contengono infatti informazioni fondamentali per ricostruire la vita pubblica e privata di figure centrali nella storia di Sant’Eufemia. Una storia che hanno contribuito a fare e, in parte, anche a scrivere.

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5 luglio 1914: il discorso di Pietro Pentimalli per la posa della prima pietra del palazzo municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte

L’odierno assetto urbanistico di Sant’Eufemia d’Aspromonte è l’esito dei terremoti che si sono nel tempo succeduti e che hanno determinato la riedificazione del paese nell’area denominata “Petto del Principe” dopo il 1783 e, in conseguenza del sisma del 1908, nei terreni di “Pezza Grande”. Se dopo “u fracellu” la soluzione individuata non aveva trovato obiezioni, anche a causa della strettissima continuità territoriale tra le due aree, molto controverso fu invece lo “spostamento” di circa un terzo della popolazione eufemiese dopo il 1908. Le polemiche tra i favorevoli e i contrari si trascinarono per anni, con raccolte di firme e memorie inviate al governo nazionale a sostegno dell’una e dell’altra tesi. L’allora sindaco, il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950), e il vecchio ma ancora autorevolissimo Michele Fimmanò (6 marzo 1830 – 11 febbraio 1913) riuscirono infine ad imporsi, grazie anche al contributo fondamentale del deputato reggino Giuseppe De Nava, che si fece promotore in Parlamento di un provvedimento che mediava tra le due posizioni in quanto decretava l’edificazione nella nuova area, ma abrogava il divieto di ricostruire nel vecchio abitato. Sant’Eufemia cambiava fisionomia e, con la poderosa edificazione della Pezzagrande, un terzo popoloso rione si aggiungeva al Paese Vecchio e al Petto.
Le ferite di quello scontro non erano ancora completamente rimarginate quando, il 5 luglio 1914, vi fu la posa della prima pietra del nuovo palazzo comunale. Lo sapeva bene il sindaco Pietro Pentimalli, che più volte nel discorso inaugurale utilizzò i termini “concordia” e “rinascita”. Due sostantivi, ripetuti negli interventi del vescovo Giuseppe Morabito e dell’onorevole De Nava, che ritornano in ogni “adesione” alla cerimonia inviata per lettera o per telegramma dalle più eminenti personalità eufemiesi e del circondario, oggi scolpite nelle 29 pagine di un opuscolo quasi introvabile: Per la posa della prima pietra del Palazzo Comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, 5 luglio 1914 (Palmi, Tipografia C. Zappone, 1914).

La pubblicazione era stata decisa affinché il ricordo di quell’evento fosse trasmesso alle future generazioni:
«Perché della patriottica festa celebrata ai cinque di questo mese di luglio, non svanisse assai presto il ricordo, questa Giunta, nel giorno successivo, deliberò che, e la bella iscrizione posta nelle fondamenta del nostro civico palazzo, e dettata dallo storico illustre e nostro concittadino, Prof. Vittorio Visalli, e il discorso da me pronunziato, e le molte adesioni di persone autorevoli e di concittadini, si pubblicassero per la stampa. Ho adempiuto a tale voto. E se un augurio mi è lecito ancora formulare per la nostra città, dico che, avviata Sant’Eufemia alla sua rinascenza, questa si compia per la virtù e pel concorde proposito dei suoi generosi e forti figli».

Lo storico eufemiese Vittorio Visalli compose l’epigrafe che, arrotolata dentro un tubo d’acciaio, fu calata nelle fondamenta del palazzo municipale e il cui testo fu riportato sul retro della cartolina celebrativa stampata a ricordo della cerimonia inaugurale:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire».

Nel suo discorso Pentimalli riservò un ricordo commosso alle vittime del terremoto e rievocò la tragedia di quei giorni:
«Noi, o illustri signori, siamo i superstiti che, balzati esterrefatti nel sonno, nel ruinante fragore degli attimi sterminatori, le nostre case e i nostri cari perdemmo, mentre la tragica alba, indugiantesi di tra le brume del fatale dicembre, coglievaci ignudi sulle vie, sulle piazze, col terrore sui volti, colla disperazione fatta follia nelle anime. Consentite, o signori, che prima di ogni altra cosa, con commosso e devoto pensiero ai nostri poveri scomparsi sotto la greve mora della crollata casa nativa, io invii un mesto e reverente saluto, e alla loro memoria consacri una lacrima e un fiore».

Ma nonostante i lutti e la devastazione occorreva guardare avanti e, nello stesso tempo, fare il necessario per conservare la memoria del passato:
«La vita è uno spettacolo di trasformazioni perenni, è un impasto di dimenticanze e di speranze nuove, e sul ceppo del passato rampolla e rinverde la ricordanza profetica: bisogna, dunque, ricordare, infuturandosi, tener vive le tradizioni e coordinarle all’avvenire, e col rimpianto dovrà sorgere la fede che fortifichi le anime nello ascendentale cammino. E la nostra fede, venuta su di tra gli sconforti e le ansie dei tragici momenti, e rafforzatasi per sempre più tenaci propositi, ci ha inspirato che Sant’Eufemia d’Aspromonte vivesse ancora nel tempo, nella tradizione, nella storia; che, percossa ma non doma, attingesse dalla ombrosa calma e raccolta della maestà dei suoi boschi lo austero e pensoso raccoglimento per meditare il suo avvenire, e chiedesse all’impeto dei suoi torrenti, che sanno scavarsi la via, la indomita virtù del volere per risorgere qui, non lungi dal vecchio abitato, pupilla adombrata dal triste ricordo di un tragico destino, occhio vigile e aperto a più arridenti fortune».

Sulle polemiche attorno alla decisione di ricostruire il paese nell’area della Pezzagrande (“vane ire, faziosi propositi, dilaniatrici ambizioni”), Pentimalli considerava che “è bene che scenda l’oblio”:
«La prima pietra su cui sorgerà la nostra sede comunale è per me e per voi tutti la pietra miliare che segna il fatto cammino e addita il novo a quelli che dietro seguiranno. Questa prima pietra ha per noi un contenuto ampio e comprensivo che trascende e sorpassa la solennità di una pubblica cerimonia. Essa è la consacrazione tangibile di una fede accomunata, di un nuovo e concorde proposito di tendere a più alta e proficua meta, di un’auspicata e sospirata pacificazione di animi, che, ci riempie di legittimo orgoglio e di serena gioia».

L’omaggio alla “veneranda figura” di Michele Fimmanò (deceduto l’anno precedente) e il ringraziamento rivolto a Giuseppe De Nava, “questa fulgida gloria del Parlamento italiano, il degno nostro rappresentante, che nato in questa regione, di essa conosce tutti i bisogni e ne intuisce tutto l’avvenire”, precedevano infine la chiusura del memorabile discorso, un inno d’amore rivolto alla propria terra:
«Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

*Link utili su questo blog:
La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908.
Sant’Eufemia e Milano, un legame storico.
Michele Fimmanò.

**Bibliografia:
– Giuseppe Pentimalli, La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, in Sandro Leanza (a cura di), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte 14-16 dicembre 1990), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1997.
– Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, edizioni La città del sole, Reggio Calabria 2008.
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013.

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La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908

Il terremoto del 1908 costituisce l’evento più sconvolgente della storia di Sant’Eufemia e il suo snodo cruciale: c’è un “prima” e un “dopo” che va oltre la cronaca di quegli avvenimenti, perché la ricostruzione consegnò ai sopravvissuti un paese radicalmente diverso, a partire dalla sua disposizione geografica. Un tema – la ricostruzione in un nuovo sito di un paese distrutto – ancora attuale e non di facile soluzione, che si scontra con la caparbia di chi non vuole allontanarsi dai posti in cui ha sempre vissuto per una questione affettiva, ma anche di identità. Siamo tutti il prodotto della vita vissuta da altri prima di noi nelle nostre stesse strade, piazze e campagne, per cui la perdita dei “propri” luoghi disorienta e provoca una sensazione di sradicamento che sgomenta.
La Sant’Eufemia rasa al suolo all’alba del 28 dicembre 1908 – che coincideva per lo più con i rioni Paese Vecchio e Petto – era già un paese ferito, le sue abitazioni rese precarie da sismi più o meno recenti. Il terremoto del 16 novembre 1894 aveva infatti provocato sette morti, il crollo totale di 212 abitazioni e quello parziale di 326 (oltre a danni gravi in 432 case e lievi in 188); dopo quello dell’8 settembre 1905 erano state gravemente danneggiate 383 costruzioni, 41 dichiarate inagibili e demolite; 181 infine, gli edifici lesionati il 23 ottobre 1907. Anche per questo la scossa del 1908 ebbe effetti catastrofici: 530 le vittime dell’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato (ma i documenti prodotti dalla giunta comunale fanno salire la cifra a circa 700), più di 2.000 feriti e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio. L’area circostante la fontana Nucarabella riportò i danni minori, con il macello comunale che rimase quasi intatto. Le poche case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894 nell’area denominata “Piazzetta”. Le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie; nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate in alto (piazza Vittorio Emanuele II). Un dato anch’esso significativo: su circa cinquanta lampioni della pubblica illuminazione, ne restarono in piedi nove.
Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, che già ospitava quello sorto dopo il terremoto del 1894 e che contava anche alcune casette costruite dopo il 1907, ora distrutte. Furono espropriate diciotto proprietà, costruite strade, realizzati un ospedale, una chiesa, l’acquedotto e 1.300 baracche capaci di dare alloggio a circa 5.000 persone.
Un regio decreto del 15 luglio 1909 proibì la costruzione nelle aree distrutte dal terremoto, ad eccezione delle zone pianeggianti del rione Petto, ma il provvedimento governativo non fu accolto favorevolmente da tutta la popolazione e scatenò reazioni violentissime.
L’amministrazione comunale eletta il 22 maggio e guidata dal notaio Pietro Pentimalli era però favorevole al trasferimento nella nuova area, così come il vecchio ma ancora molto influente Michele Fimmanò; di avviso contrario, invece, un consistente numero di famiglie storiche: Capoferro, Gioffré, Condina-Occhiuto. Un fronte agguerritissimo, che non si diede per vinto neanche a lavori ultimati (fine 1910) e che promosse una raccolta di firme da allegare al parere del geografo Mario Baratta, specializzato in sismologia storica, il quale – nell’opuscolo Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 1908 – sostenne che, in realtà, il suolo sottostante alla Pezza Grande era “il peggiore di tutti” e quello del Paese Vecchio “relativamente migliore” in rapporto alla stabilità sismica delle costruzioni.
La giunta e il sindaco risposero indirizzando al presidente del consiglio Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Sacchi un memorandum (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte) sottoscritto da oltre duemila firmatari: in premessa venivano avanzati pesanti dubbi sull’onestà intellettuale di Baratta; nel merito della polemica si sosteneva invece che, poiché non era possibile riunire tutta la popolazione nella vecchia area, sarebbe stato più saggio farlo nell’area nuova, che era “separata” e “lontana” dal vecchio abitato: mantenerle entrambe rischiava di innescare un pericoloso dualismo. Nonostante il governo avesse dato ragione all’amministrazione comunale (maggio 1912), non cessarono le pressioni per modificare il provvedimento legislativo che aveva dichiarato inedificabile l’area del vecchio abitato, per la quale comunque il sindaco Pentimalli aveva accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore.
Le deroghe concesse, in realtà, rappresentavano la quadratura del cerchio e aprirono le porte alla soluzione definitiva della vicenda, che fu concordata in occasione delle elezioni comunali del 1914 nel salotto dell’avvocato Gabriele Fimmanò (figlio di Michele, da un anno passato a miglior vita). Grazie al sostegno del deputato reggino De Nava, Fimmanò riuscì a fare sedere attorno allo stesso tavolo “i migliori elementi delle due parti”, i quali siglarono un accordo elettorale che poneva fine alle ostilità in cambio – su questo punto garantiva De Nava – della revisione della legge che demandava al Genio civile di Reggio l’ultima parola sulla definizione delle zone edificabili: in concreto, ciò significava l’abolizione del divieto di costruire nelle aree maggiormente colpite dal terremoto, che fu di fatto decretata dal governo il 3 settembre 1916. Il volto di Sant’Eufemia cambiava definitivamente e assumeva quello attuale caratterizzato dalla suddivisione nei tre popolosi rioni di Paese Vecchio, Petto e Pezza Grande.

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