Di carcere non si interessa nessuno, a parte i radicali e la chiesa. Due realtà lontanissime che si ritrovano dalla stessa parte nella denuncia del carcere come discarica sociale, mattatoio dei diritti e della dignità umana. La parola d’ordine di Nessuno Tocchi Caino, associazione radicale che ha come mission l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena, è “spes contra spem”: speranza contro ogni ragionevole speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. E pure biblica è la suggestione evocata dal nome: «Il Signore pose su Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato».
Ieri mattina si è svolta presso la concattedrale di Palmi la terza tappa della “Peregrinatio Crucis”, una cerimonia liturgica analoga a quelle celebrate nei due giorni precedenti dai detenuti dell’alta e della media sicurezza del penitenziario di via Trodio. La Croce della Misericordia, benedetta da Papa Francesco il 14 settembre del 2019, è stata dipinta da una volontaria e dai detenuti del carcere di Paliano (FR). Le immagini rappresentano la liberazione di Pietro e di Paolo dalla prigione, le donne che vivono nelle carceri con i loro bambini, i volontari che incontrano i detenuti. Ai piedi del Cristo, il popolo orante: detenuti, polizia penitenziaria e volontari; in alto, San Basilide (patrono della polizia penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (patrono dei carcerati e dei condannati a morte). Una seconda croce, invece, è stata realizzata dai detenuti del carcere di Palmi.
Ho partecipato alla liturgia e mi ha onorato il gesto di don Silvio Mesiti, che ha voluto che fossi io a leggere la preghiera finale. Bisogna sempre sforzarsi di trovare il bello anche laddove tutto sembra brutto: è stato questo, tre anni fa, il senso del mio incontro con don Silvio e quello con la grande umanità (inspiegabile per chi non ha “visto”) di gente confinata nel limbo spazio-temporale di un luogo di pena e di sofferenza.
Appena rientrato a casa ho ricevuto la visita del postino, il quale mi ha consegnato la tessera di Nessuno Tocchi Caino per l’anno 2023, accompagnata da una lettera: «Nei 365 giorni di un anno, almeno la metà li viviamo nelle carceri. “Guai a distrarsi un attimo dalla attenzione sul carcere”, ripeteva spesso Marco Pannella. Perché è diventato un luogo non solo di privazione della libertà, ma spesso anche della salute e della vita. Una istituzione anacronistica, uno spazio e un tempo fuori dal mondo e fuori dal tempo, dove si infliggono pene corporali e quei trattamenti inumani e degradanti che nella storia dell’umanità abbiamo abolito. Schiavitù, tortura, pena di morte, manicomi, lazzaretti, li abbiamo superati a uno a uno e li abbiamo concentrati in un luogo solo: il carcere».
La singolare coincidenza accaduta ieri mi ha fatto pensare proprio a questa insolita alleanza tra due mondi distanti, ma uniti nel contrapporre alla barbarie il diritto, alla disumanità la compassione, alla vendetta la misericordia, alla morte la vita.
Giornata mondiale dei poveri
“Non serve per vivere chi non vive per servire”: utilizzando le parole di don Tonino Bello, Papa Francesco ha ribadito il valore del messaggio evangelico “tendi la tua mano al povero”, tema centrale dell’odierna Giornata mondiale dei poveri. Ma cos’è la povertà? Ovvio, esiste una spaventosa povertà materiale, sulla quale noi fortunati abitanti della parte sviluppata del pianeta tendiamo a chiudere gli occhi, fino a quando non ci presenta il conto degli sbarchi dei disperati che scappano da guerre, eccidi, carestie. Occhi che sgraniamo quando i sei mesi di Joseph finiti in fondo al mare gridano vendetta, per poi dimenticare. Perché “il dolore degli altri è un dolore a metà”: ce l’ha insegnato Fabrizio De Andrè, con gli emarginati e i diseredati ai quali ha dato voce e dignità letteraria, riconoscendo loro il diritto di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. E poi esiste una povertà dello spirito, che ci porta ad inseguire bisogni sempre più crescenti, sempre più effimeri, sempre più egoisti. Scrooge, l’avido protagonista di “Canto di Natale”, è poverissimo.
Giornata mondiale del malato
Dal 1992, quando fu istituita da Papa Giovanni Paolo II, l’11 febbraio ricorre la Giornata mondiale del malato. Il tema di questa XXVIII edizione è tutto nelle parole del Vangelo di Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Papa Francesco ha invocato occhi che vedano l’umanità ferita perché capaci di guardare in profondità, occhi che “non corrono indifferenti, ma si fermano e accolgono tutto l’uomo, ogni uomo nella sua condizione di salute, senza scartare nessuno, invitando ciascuno ad entrare nella sua vita per fare esperienza di tenerezza”. Spesso sappiamo tutto di quello che succede nel mondo, ma non ci accorgiamo della sofferenza del nostro vicino di casa. E di sofferenza ce n’è tanta: basta entrare nelle case, soffermarsi, non passare oltre; lottare contro uno dei mali più gravi di questi nostri tempi: l’indifferenza.
La Giornata del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra ogni anno, articolandola in tre momenti. Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliari agli ammalati e la consegna di una statuetta della Madonna di Lourdes. Il pomeriggio è stato invece dedicato alla preghiera, sotto la guida del parroco don Marco Larosa. Presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” (alla quale l’Associazione ha donato un rosario), don Marco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’unzione degli infermi, alla presenza della statua della Madonna di Lourdes, portata all’interno della RSA dai volontari dell’Agape. Infine, la celebrazione della Santa Messa nella chiesa di Sant’Eufemia, conclusa con la “Preghiera per la XXVIII Giornata Mondiale del Malato”, nel corso della quale il presidente dell’Agape Iole Luppino ha ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi: «Signore, noi volontari Ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia e di condivisione. Ti chiediamo che dal tuo Paradiso essi possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani il desiderio di scoprire la bellezza del donarsi».
Il Papa dei poveri
A pochi giorni dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro, la sensazione è da tramonto di un’epoca. Ciò non implica un giudizio negativo sul pontificato di Benedetto XVI. Anzi. Quando i fatti sedimenteranno e consentiranno agli storici una valutazione obiettiva, la statura morale, intellettuale e “politica” di Joseph Ratzinger avrà un giusto riconoscimento.
Ho ripensato spesso, in queste ultime settimane, alle parole rivolte da un minaccioso Napoleone Bonaparte al cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII – “Io distruggerò la vostra Chiesa” – e alla risposta del plenipotenziario pontificio: “Maestà, sono venti secoli che noi stessi cerchiamo di farlo, ma non ci siamo mai riusciti”.
C’è dell’inspiegabile – per chi crede, riconducibile ai piani insondabili di Dio – nella capacità della Chiesa di toccare il fondo per poi rialzarsi.
Dopo gli scandali del recente passato e la rinuncia di Benedetto XVI, urgeva un cambio di marcia. Ancora è troppo presto per azzardare se il volo ci sarà, ma la rincorsa è già visibile.
I primi passi di Francesco appaiono confortanti per tutti quei fedeli che vivono con ansia e smarrimento l’attuale situazione. L’attesa era grande ed è stato sufficiente poco (o molto: dipende dai punti di vista) per fare scoccare la scintilla: la rinuncia al crocifisso d’oro e alla mozzetta rossa; la richiesta di saldare il conto alla reception della Casa del Clero; il viaggio sulla navetta vaticana – preferita alla Mercedes nera targata SCV1 – e la scoperta che da cardinale Bergoglio era solito spostarsi in metropolitana, in autobus o addirittura in bicicletta. Nei suoi gesti, sobrietà, umiltà e calore: quanto basta per suscitare un istintivo moto di simpatia, che i continui strappi al protocollo (già diventati un tratto distintivo del suo pontificato) favoriscono ulteriormente: la ricerca del contatto fisico con i fedeli, i discorsi a braccio, le battute ironiche e le confidenze personali, come la rivelazione dell’invito rivoltogli del cardinale brasiliano Claudio Hummes nel corso dello scrutinio (“non dimenticarti dei poveri”), che ha determinato la scelta del nome: “l’uomo della povertà (“come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”), l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”; o il ricorso alle parole di un’anziana signora incontrata in Argentina per spiegare il vero significato della parola misericordia, tema centrale del suo primo Angelus. E poi quell’invocazione (“pregate per me”), ripetuta sin dal giorno dell’elezione, insieme alla raccomandazione di “parlarsi gli uni con gli altri”. Ascoltare e parlare. Una soluzione nuova e antica. Come la Chiesa che ha in mente Francesco.