Un paragrafo di “Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea” raccoglie la doppia intervista ai due centenari Carmela Cutrì e Nino Condina, che purtroppo non hanno fatto in tempo a vedere il volume. Sin dall’inizio della ricerca mi ero prefissato di scrivere un libro che a livello metodologico facesse interagire le fonti scritte (documenti d’archivio e biobibliografici) con quelle orali, con la viva voce di chi aveva vissuto in prima persona alcuni degli avvenimenti narrati. Anche altri paragrafi seguono questo doppio binario, ma la testimonianza di Carmela e di Nino è unica, poiché le loro vite incarnano il paradigma del passaggio di un’epoca, iniziata in case illuminate dalla fiammella della “lumera”: stoppino, mezza patata e olio in un recipiente. Abitazioni nelle quali mancava l’acqua e che erano prive dei servizi igienici. Per i bisogni si andava fuori e ci si lavava con l’acqua della fonte dentro un catino, in estate anche all’aria aperta.
Secondo l’efficace immagine di Carmela, il contadino “u viddicu su dirgiva” con le patate, che non mancavano mai. Solo in particolari ricorrenze (Carnevale, Natale, matrimoni) sulla tavola arrivavano la carne, il pesce stocco e il baccalà. Il pane, che si faceva in casa o nei forni, veniva conservato anche per un mese. A volte era così “lligamatu” che lo sforzo per masticarlo – ricorda Nino – provocava dolore alle meningi.
Molti però non avevano la possibilità di produrre o di acquistare il grano, cosicché si arrangiavano raccogliendo nei campi altrui i rimasugli della trebbiatura (“spicareddi”).
Nelle terre si zappava dal canto del gallo fino a sera. A volte anche di notte, con il chiarore della luna. Una fatica che non possiamo immaginare, ma che non impediva la cosiddetta “vesperata” a fine giornata: si accendeva un fuoco, si cucinavano le uova, poi si cantava e si ballava. Come nei matrimoni, tra i tavoli collocati sotto la pergola e nello spazio dell’aia destinato alla trebbiatura del grano, dove trovavano sistemazione i lunghi cortei che accompagnavano gli sposi all’uscita dalla chiesa. Con le immancabili “maniche di giacca” cucinate e servite con l’ausilio di stoviglie, posate e piatti presi in prestito da parenti e amici. Matrimoni e feste erano le ricorrenze nelle quali anche i più piccoli si “mutavano” e indossavano l’abito buono, più nuovo rispetto a quello liso di tutti i giorni: vestine per le bambine; per i maschietti, pantaloni con lo spacco che, aprendosi quando si acquattavano, consentiva loro di fare i bisogni. Le mutande erano indumenti per adulti e il bucato, chi viveva lontano dai lavatoi pubblici, lo faceva nel fiume o nelle “gebbie”.
E ancora, la guerra. Nino che si salva per miracolo nell’affondamento dell’incrociatore “Gorizia”; le famiglie, in paese, che sfuggono ai bombardamenti degli Alleati trovando riparo in rifugi ricavati nei costoni della montagna o all’interno della galleria ferroviaria infestata dalle pulci.
Racconti incredibili sui quali si è abbattuto il cloroformio del benessere, che però sono accaduti soltanto ieri, a pensarci bene. Se la speranza è di non dovere mai più rivivere quella miseria, ricordare da dove veniamo deve darci la consapevolezza che da allora tanta strada è stata percorsa. E che non possiamo dire “si stava meglio quando si stava peggio”, se quando si stava meglio non c’era famiglia che non avesse pianto un parente perito nel terremoto del 1908 o caduto in una delle due guerre, bimbi morti in tenera età per un “dolorino di pancia”, donne non sopravvissute al parto, famiglie che si nutrivano di “cosch’i vecchia”, “paparini” e cardi.
Se quando si stava “meglio” – per fortuna – noi non c’eravamo.
Le nozze di platino di Ninuzzo e Micuzza
Prima dell’espansione urbana degli anni Ottanta nelle contrade Giovancortese, Castellano e Arena esistevano pochi nuclei abitativi, dal carattere per lo più familiare. Un’espressione che ancora sopravvive nel linguaggio popolare rendeva l’idea della perifericità di quest’area: “calu ’o paisi” dicevano infatti i suoi abitanti quando intendevano recarsi nel centro del paese. La presenza di un albero di noce in seguito abbattuto accomunava inoltre Giovancortese e Castellano con il toponimo ’a nucara. Per “scendere” al Petto si percorreva la via Arena ancora sterrata, che a un certo punto si restringeva in un viottolo stretto e scosceso. In quegli anni era così.
Ma erano anche tempi in cui i rapporti di vicinato avevano il carattere familiare tipico delle rrughe di un tempo. Anche chi arrivava “da fuori” finiva per sentirsi parte di una famiglia più allargata. Così è stato per la mia famiglia: i nostri vicini Micuzza e Ninuzzo Condina sono stati per noi qualcosa di più che semplici vicini di casa. La stessa cosa vale per la figlia Nina che abitava proprio nel piano sopra di noi e per gli altri figli, le cui voci si rincorrevano di balcone in balcone tutto intorno. Ma al centro c’erano loro due: Ninuzzo con quel suo fisico da omone burbero che incuteva timore e Micuzza con la sua dolcezza naturale, con quel sorriso che oggi più che mai fa emozionare.
Era una società fatta di semplicità e di affetto genuino. Mia mamma, per loro, è stata davvero un’altra figlia: non è retorica, è la realtà. Quando Micuzza arrivava dalla scala esterna che univa la loro casa al pianerottolo della nostra, aveva sempre qualcosa in mano: “cimedde” e amaretti preparati nel forno a legna, conserve sott’olio, olive “scaddate” o sotto sale, frutti del suo giardino.
Ninuzzo e Micuzza sono al centro di Giovancortese anche oggi che hanno 97 e 95 anni; ora che – sabato 28 ottobre – festeggeranno 75 anni di matrimonio. C’era la guerra nel ’42 e soltanto la sua buona stella consentì al marinaio Antonino Condina di uscire indenne da quella tragedia, anche se vide i corpi carbonizzati dei morti e udì le urla strazianti degli ustionati nel bombardamento alleato della base navale di La Maddalena, il 10 aprile 1943, quando furono attaccati gli incrociatori “Trieste” (che fu affondato) e “Gorizia” (che nonostante i gravi danni riuscì a riparare a La Spezia): 140 vittime e circa 200 feriti gravi.
Da allora il mondo è cambiato, ma questa coppia dalla straordinaria longevità continua ad essere il centro di Giovancortese, perché quest’area si identifica con la loro storia: la storia di una civiltà contadina che ha ancora tanto da insegnare: sacrificio, lavoro, generosità. Gente semplice che ha speso la propria vita per offrire ai figli una possibilità di crescita.
Ninuzzo e Micuzza sono il cardine di una famiglia che nel tempo si è sparpagliata in Italia, negli Stati Uniti e in Australia: sette figli, diciassette nipoti e trentadue pronipoti che in paese però tornano di continuo, a turno, perché qua trovano ristoro: nel sorriso di Micuzza che sconfigge la malattia e nell’energia di Ninuzzo che tutti i giorni si siede a bordo della sua mitica Golf amaranto per andare in farmacia o all’orto, da dove torna con mazzetti di fiori di zucca e buste di cetrioli, zucchine e pomodori da regalare a parenti e amici.
Il richiamo della terra è elisir di lunga vita, quella terra lavorata con la zappa da ragazzo e che ha sempre continuato a lavorare: anche quando ha cominciato a fare altro, quando dall’asino è passato al camion e agli altri mezzi di cantiere necessari per dare l’avvio all’urbanizzazione di Giovancortese.
Ninuzzo, l’ultimo cestaio del paese, che intreccia sapientemente i “panari” tra un gioco enigmistico e l’altro. E che ancora pianta alberi, perché “tra qualche anno faranno i frutti”. C’è della magia in questa concezione del tempo che si fa beffe dell’età.
E c’è della magia nel sorriso di Micuzza, anche quando sembra giungere da un mondo altrove: un mondo fatto di ricordi confusi e faticosi, che solo l’amore di figli e nipoti può in qualche modo mettere insieme per tentare di ricavarne un senso.
Quella stessa magia che si respirava quando, da bambini, assistevamo al rito dell’apertura delle valigie di qualche loro figlio di ritorno dall’estero per dividerci gli Hershey’s Kisses, i cioccolatini americani a goccia con la caratteristica “miccia” che spuntava dall’incarto argentato. La stessa magia che si spande nell’aria quando Ninuzzo abbraccia Micuzza e dice: «’A me’ figghiola».