La sera dei miracoli

Al civico numero 7 di vicolo del Buco, a Trastevere, una targa ricorda una delle più belle canzoni di Lucio Dalla, “La sera dei miracoli” (1980), dedicata dal cantautore bolognese a Roma, dove visse tra il 1980 e il 1986: «Una canzone – spiegò anni dopo – che ho scritto in un momento di fuoco di Roma, bellissimo in un’estate come questa, di parecchio tempo fa. Io tornai a casa, abitavo a Trastevere, mi misi al pianoforte. Avevo visto Roma incendiata da feste, da canti, da gente ubriaca bene. Da veramente un momento di grande gioia collettiva».
Gli anni di piombo stanno per finire, si comincia a respirare un desiderio di normalità, di leggerezza, di “effimero”, di vita, dopo un cupo decennio di morte. Interprete di questo sentimento di rinascita fu a Roma l’architetto Renato Nicolini, assessore alla cultura dal 1976 al 1985 nelle giunte di sinistra guidate dai sindaci Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere, il quale ideò l’Estate Romana, un esperimento visionario che rivoluzionava il rapporto cultura/masse e abbatteva gli steccati tra élite e popolo con manifestazioni di piazza (spettacoli teatrali, musicali, proiezioni cinematografiche, reading) fruibili da tutti gli strati sociali.
La canzone di Lucio Dalla fa riferimento proprio al “miracolo” realizzato da Nicolini, il quale avrebbe lasciato testimonianza di quel periodo di straordinaria creatività in un prezioso volume edito da Città del Sole: Estate romana. 1976-85: un effimero lungo nove anni (2011).
“La sera dei miracoli” esprime la gioia collettiva dell’Estate Romana, ma ad un livello più alto e universale è un inno alla ripartenza nel quale chiunque può specchiarsi, sia individualmente che collettivamente. Accade ogni volta che dal profondo di ciascuno di noi sale un impellente desiderio di ricominciare a vivere e di lasciarsi alle spalle dolore, ansie e preoccupazioni.
La sera, iniziata con qualcuno intento a fare a pezzi con la bocca una canzone, con il trascorrere delle ore trasforma la città nella visione onirica, felliniana, di una nave sulle onde. Ovunque c’è gente che corre, il protagonista cerca di individuare in tutta quella confusione la propria stella: «Perché mi perderei/ se dovessi capire che stanotte non ci sei», confessa in due versi da brividi.
Il miracolo si compie nel finale, quando la notte sta per finire. Qualcuno, ora, ha sanato la frattura iniziale scrivendo una canzone, mentre “lontano una luce diventa sempre più grande” e la nave può finalmente fare ritorno per portare tutti a dormire. Con nel cuore la promessa di un nuovo inizio.

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Gli angeli di Lucio Dalla

Di Lucio Dalla ho sempre apprezzato l’ironia e la simpatia. È impossibile non amare uno che racconta, con la sua buffa espressione, di quando a Vasco Rossi, che l’aveva svegliato nel cuore della notte per chiedergli: “Ma secondo te, Lucio, io sono intelligente?”, rispose: “intelligentissimo!”. L’autoironia, impressa nel suo stile, nel suo presentarsi al mondo con le sembianze di un clown, o di un fumetto, come egli stesso amava definirsi. Il suo essere controcorrente, il parrucchino ostentato, di un colore volutamente assurdo e innaturale, per non fare venire alcun dubbio. La fitta peluria mai nascosta, l’abbigliamento fuori da ogni moda del passato, del presente e (probabilmente) del futuro.
Quelli che l’hanno conosciuto o ci hanno lavorato assieme ne hanno sottolineato la sensibilità e la generosità, sia umana che artistica, le doti di talent scout (Ron, gli Stadio, Luca Carboni, Samuele Bersani, Marta sui Tubi), la voglia di sperimentare, che non sempre ha avuto esiti fortunati, ma che è stata un tratto distintivo della sua lunghissima carriera. L’amore per il Sud e per il mare.
Non conosco la sua discografia completa, mi fermo ai pezzi più noti, quelli che in questi due giorni hanno inondato le televisioni e le radio. “Caruso”, la canzone dell’artista bolognese più cantata nel mondo, mi riporta a un’estate di circa venticinque anni fa, a un anniversario di matrimonio, un gelato, un pianobar e le lacrime d’emozione della donna che sentì che a lei, quella sera, era stata dedicata. Ho apprezzato istintivamente “4/3/1943”, anche per via della vicenda della censura in quell’Italia bacchettona che fingeva di scandalizzarsi perché “Gesù Bambino” era figlio di una ragazza madre e frequentava i “ladri e le puttane” del porto. A metà degli anni Novanta, fece da sigla – azzeccatissima – a un programma televisivo che ancora conservo nelle videocassette: “Combat Film”, serie di documentari realizzata con i video dei cineoperatori della seconda guerra mondiale, andata in onda su Rai Tre, a cura di Leonardo Valente e Roberto Olla.
La mie preferite sono “Piazza Grande”, biografia di un clochard, un “ultimo” autenticamente libero (“voglio morire in Piazza Grande/ tra i gatti che non han padrone come me”) e “Anna e Marco”, storia d’amore in cui è facile identificarsi (“ma dimmi tu dove sarà, dov’è la strada per le stelle”). Voglio però ricordare Dalla con “Se io fossi un angelo”, perché pure io penso che “se fossi un angelo non starei mai nelle processioni” e perché sono sempre stato dell’avviso che gli angeli “non li vedi nei cieli, ma tra gli uomini/ sono i più poveri e i più soli”. Angeli non eterei, bensì terreni, poco spirituali e molto umani. Non convenzionali, come Dalla: con la sigaretta in bocca e irriverenti, pronti a pisciare sulla testa dei guerrafondai. A tenere persino botta a Dio, rinfacciandogli sbagli e omissioni, pur continuando ad amarlo (“a modo mio”, però). Angeli somiglianti a quei preti che frequentano molto le strade del mondo e poco le sagrestie (da don Milani a don Gallo, a padre Alex Zanotelli, a tanti altri): la migliore tradizione di una Chiesa capace di vivere “nella” società e di sporcarsi le mani per contribuire a renderla migliore.

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