5 luglio 1914: il discorso di Pietro Pentimalli per la posa della prima pietra del palazzo municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte

L’odierno assetto urbanistico di Sant’Eufemia d’Aspromonte è l’esito dei terremoti che si sono nel tempo succeduti e che hanno determinato la riedificazione del paese nell’area denominata “Petto del Principe” dopo il 1783 e, in conseguenza del sisma del 1908, nei terreni di “Pezza Grande”. Se dopo “u fracellu” la soluzione individuata non aveva trovato obiezioni, anche a causa della strettissima continuità territoriale tra le due aree, molto controverso fu invece lo “spostamento” di circa un terzo della popolazione eufemiese dopo il 1908. Le polemiche tra i favorevoli e i contrari si trascinarono per anni, con raccolte di firme e memorie inviate al governo nazionale a sostegno dell’una e dell’altra tesi. L’allora sindaco, il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950), e il vecchio ma ancora autorevolissimo Michele Fimmanò (6 marzo 1830 – 11 febbraio 1913) riuscirono infine ad imporsi, grazie anche al contributo fondamentale del deputato reggino Giuseppe De Nava, che si fece promotore in Parlamento di un provvedimento che mediava tra le due posizioni in quanto decretava l’edificazione nella nuova area, ma abrogava il divieto di ricostruire nel vecchio abitato. Sant’Eufemia cambiava fisionomia e, con la poderosa edificazione della Pezzagrande, un terzo popoloso rione si aggiungeva al Paese Vecchio e al Petto.
Le ferite di quello scontro non erano ancora completamente rimarginate quando, il 5 luglio 1914, vi fu la posa della prima pietra del nuovo palazzo comunale. Lo sapeva bene il sindaco Pietro Pentimalli, che più volte nel discorso inaugurale utilizzò i termini “concordia” e “rinascita”. Due sostantivi, ripetuti negli interventi del vescovo Giuseppe Morabito e dell’onorevole De Nava, che ritornano in ogni “adesione” alla cerimonia inviata per lettera o per telegramma dalle più eminenti personalità eufemiesi e del circondario, oggi scolpite nelle 29 pagine di un opuscolo quasi introvabile: Per la posa della prima pietra del Palazzo Comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, 5 luglio 1914 (Palmi, Tipografia C. Zappone, 1914).

La pubblicazione era stata decisa affinché il ricordo di quell’evento fosse trasmesso alle future generazioni:
«Perché della patriottica festa celebrata ai cinque di questo mese di luglio, non svanisse assai presto il ricordo, questa Giunta, nel giorno successivo, deliberò che, e la bella iscrizione posta nelle fondamenta del nostro civico palazzo, e dettata dallo storico illustre e nostro concittadino, Prof. Vittorio Visalli, e il discorso da me pronunziato, e le molte adesioni di persone autorevoli e di concittadini, si pubblicassero per la stampa. Ho adempiuto a tale voto. E se un augurio mi è lecito ancora formulare per la nostra città, dico che, avviata Sant’Eufemia alla sua rinascenza, questa si compia per la virtù e pel concorde proposito dei suoi generosi e forti figli».

Lo storico eufemiese Vittorio Visalli compose l’epigrafe che, arrotolata dentro un tubo d’acciaio, fu calata nelle fondamenta del palazzo municipale e il cui testo fu riportato sul retro della cartolina celebrativa stampata a ricordo della cerimonia inaugurale:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire».

Nel suo discorso Pentimalli riservò un ricordo commosso alle vittime del terremoto e rievocò la tragedia di quei giorni:
«Noi, o illustri signori, siamo i superstiti che, balzati esterrefatti nel sonno, nel ruinante fragore degli attimi sterminatori, le nostre case e i nostri cari perdemmo, mentre la tragica alba, indugiantesi di tra le brume del fatale dicembre, coglievaci ignudi sulle vie, sulle piazze, col terrore sui volti, colla disperazione fatta follia nelle anime. Consentite, o signori, che prima di ogni altra cosa, con commosso e devoto pensiero ai nostri poveri scomparsi sotto la greve mora della crollata casa nativa, io invii un mesto e reverente saluto, e alla loro memoria consacri una lacrima e un fiore».

Ma nonostante i lutti e la devastazione occorreva guardare avanti e, nello stesso tempo, fare il necessario per conservare la memoria del passato:
«La vita è uno spettacolo di trasformazioni perenni, è un impasto di dimenticanze e di speranze nuove, e sul ceppo del passato rampolla e rinverde la ricordanza profetica: bisogna, dunque, ricordare, infuturandosi, tener vive le tradizioni e coordinarle all’avvenire, e col rimpianto dovrà sorgere la fede che fortifichi le anime nello ascendentale cammino. E la nostra fede, venuta su di tra gli sconforti e le ansie dei tragici momenti, e rafforzatasi per sempre più tenaci propositi, ci ha inspirato che Sant’Eufemia d’Aspromonte vivesse ancora nel tempo, nella tradizione, nella storia; che, percossa ma non doma, attingesse dalla ombrosa calma e raccolta della maestà dei suoi boschi lo austero e pensoso raccoglimento per meditare il suo avvenire, e chiedesse all’impeto dei suoi torrenti, che sanno scavarsi la via, la indomita virtù del volere per risorgere qui, non lungi dal vecchio abitato, pupilla adombrata dal triste ricordo di un tragico destino, occhio vigile e aperto a più arridenti fortune».

Sulle polemiche attorno alla decisione di ricostruire il paese nell’area della Pezzagrande (“vane ire, faziosi propositi, dilaniatrici ambizioni”), Pentimalli considerava che “è bene che scenda l’oblio”:
«La prima pietra su cui sorgerà la nostra sede comunale è per me e per voi tutti la pietra miliare che segna il fatto cammino e addita il novo a quelli che dietro seguiranno. Questa prima pietra ha per noi un contenuto ampio e comprensivo che trascende e sorpassa la solennità di una pubblica cerimonia. Essa è la consacrazione tangibile di una fede accomunata, di un nuovo e concorde proposito di tendere a più alta e proficua meta, di un’auspicata e sospirata pacificazione di animi, che, ci riempie di legittimo orgoglio e di serena gioia».

L’omaggio alla “veneranda figura” di Michele Fimmanò (deceduto l’anno precedente) e il ringraziamento rivolto a Giuseppe De Nava, “questa fulgida gloria del Parlamento italiano, il degno nostro rappresentante, che nato in questa regione, di essa conosce tutti i bisogni e ne intuisce tutto l’avvenire”, precedevano infine la chiusura del memorabile discorso, un inno d’amore rivolto alla propria terra:
«Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

*Link utili su questo blog:
La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908.
Sant’Eufemia e Milano, un legame storico.
Michele Fimmanò.

**Bibliografia:
– Giuseppe Pentimalli, La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, in Sandro Leanza (a cura di), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte 14-16 dicembre 1990), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1997.
– Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, edizioni La città del sole, Reggio Calabria 2008.
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013.

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Sabbia: Totò Ligato custode della memoria melicucchese

Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, Totò Ligato ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. Il periodo storico più setacciato da Ligato, che da qualche anno ci ha lasciato, va dai Quaranta ai Sessanta del Novecento, anni vissuti in un paese piccolo ma vivace come poteva essere in quel tempo Melicuccà, prima che l’emigrazione lo svuotasse della meglio gioventù.
A quelle storie paesane Ligato ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf.
Nell’immaginaria ma facilmente identificabile Bagolaro prendono vita i personaggi mitici del ricordo e le care figure dell’infanzia. Come in una pellicola proiettata nel leggendario cinema di don Saro, che per una volta non vede protagonista l’affascinante Amedeo Nazzari, davanti agli occhi del lettore scorrono fatti e volti di un secolo passato in fretta e ormai dimenticato.
La saga familiare si intreccia con gli avvenimenti della storia grande; tutto sembra muoversi con un unico, grande respiro. Tra le pagine di Sabbia fa addirittura capolino il generale Garibaldi, del quale era stato compagno d’arme Gianni, padre di Rosa “a piririca” che – come spesso capitava – aveva dato da sola alla luce Francesco, futuro padre dell’autore del libro. Ancora, le baracche del dopo terremoto e la Grande Guerra, il Ventennio ed il secondo conflitto mondiale, con il ferimento di Francesco in terra libica ed il racconto del suo rocambolesco ritorno in paese, dove sarà assunto come guardia municipale in quanto mutilato di guerra e sposerà la maestra elementare Teresa.
Bagolaro è la metafora di un sud povero ma vitale, che nutre la speranza del proprio riscatto. Quella speranza che oggi sembra latitare, nel clima di generale rassegnazione che attanaglia i piccoli centri aspromontani, condannati al destino di un inesorabile spopolamento. Ligato diventa il testimone di una civiltà scomparsa, quella del sapone fatto in casa e del bucato nel torrente, due operazioni descritte con una maniacale attenzione per i dettagli. Una società dignitosa nelle sue ristrettezze e capace di divertirsi con poco: la musica del grammofono, il cinema di don Saro, la littorina, le trasferte a piedi per disputare una partita di calcio, le esilaranti burle che qua e là puntellano il racconto.
Sarebbe bello se l’amministrazione comunale di Melicuccà, le associazioni culturali e gli amici di Totò Ligato ne onorassero il ricordo e l’opera facendosi promotori della pubblicazione di una selezione dei “ritratti” più significativi apparsi sulle colonne della “Gazzetta del Sud” e della ristampa di Sabbia, l’affresco di una stagione che sopravvive in pagine significative sotto il profilo letterario e storico.

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Il ricordo degli alpini eufemiesi della grande guerra nel centenario della costituzione dell’ANA

Sull’epopea degli alpini in guerra sono stati versati fiumi d’inchiostro. Emblematico il titolo dato da Paolo Monelli al suo libro di memorie sulla grande guerra (Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino), con l’accostamento tra muli e soldati che fa riecheggiare il “tasi e tira” legge del dovere di ogni alpino. E poi Mario Rigoni Stern, con la sua vasta produzione di racconti ed il capolavoro Il sergente nella neve, autobiografica narrazione della tragica ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale, tema affrontato – tra gli altri – anche da Giulio Bedeschi in Centomila gavette di ghiaccio: «Gli alpini arrivano a piedi/ là dove giunge soltanto/ la fede alata», i versi che il “poeta” Pilòn dedica alla conclusione dell’odissea dei soldati italiani sul Don.
Ma la leggenda degli alpini continua ad alimentarsi nel servizio di protezione civile svolto in occasione di calamità naturali, come è accaduto nei sismi e nelle tragedie ambientali più recenti.
Essi rappresentano uno dei simboli identitari più forti della nazione italiana, come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio inviato all’Associazione Nazionale Alpini, che oggi concludeva a Milano la tre giorni di “Adunata del Centenario”: «Le Penne nere identificano una lunga e nobile tradizione di coraggio, sacrificio e dedizione incondizionata a servizio della nostra comunità, nel segno di una profonda e convinta affermazione della indivisibile identità nazionale e della solidarietà che affratella ovunque le genti di montagna».
Tra le genti di montagna con il cappello dalla penna nera, chiamate a difendere i confini della patria nella grande guerra, più di trenta furono valorosi soldati di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Anche per loro vale “La canzone alpina” del capitano Barbier, della quale qui si riportano le prime due strofe:

D’Italia siamo i forti e valorosi Alpin 
nel cuore abbiam l’ardor di sana gioventù 
Nostro è l’onor di vigilare sui confin 
e tal dover compiam con fede e con virtù. 


Dove il nemico dall’Alpi tenta di guardar 
pronto è l’accorrer nostro sempre forte in massa 
«Di qui non si passa, di qui non si passa!» 
da noi sente gridar! 

Sul totale di 88 eufemiesi caduti, quattro appartenevano a reparti alpini: di Giuseppe Amuso (classe 1897), che morì nella disfatta di Caporetto, non fu mai trovato il corpo. In ospedale, per malattia, morirono invece i due ragazzi del ’99 Sebastiano Denaro e Agostino Fava, rispettivamente a Messina e ad Aosta. Mentre Francesco Larizza (1885) “versò il suo sangue per la grandezza della Patria” sul Monte Fior (Asiago), dove “rimase ucciso da proiettile nemico”.
Cinque i feriti in combattimento: Francesco Caruso nel 1916; Gaetano Cammarere, diciannove anni non ancora compiuti quando prese parte ai combattimenti fra la Val Brenta e il Piave di dicembre 1917; Rosario Panuccio e Vincenzo Conte sul Monte Vodice, nel corso della Decima battaglia dell’Isonzo; Rocco Fedele sull’altopiano di Asiago.
Quattro caddero prigionieri del nemico: Vincenzo Conte nella Seconda battaglia delle “Melette”, Cosmo Luppino a Monte Fior, Cosmo Viviani sull’Ortigara, Vincenzo Larizza nella ritirata di Caporetto.
Tutti patirono la rigidità degli inverni di guerra sulle montagne: febbri, bronchiti, polmoniti ed altre patologie legate al freddo erano all’ordine del giorno; ma Antonino Carlo sull’altopiano di Asiago e Francesco Villari, sul Monte Pasubio, subirono anche il congelamento dei piedi.
Due penne nere eufemiesi furono infine decorate per meriti speciali. A Giuseppe Criaco (1896) fu assegnata la medaglia di bronzo al valor militare: «Sia durante la postazione di perforatrice in zona battutissima dal nemico, sia durante il recupero di abbondante materiale di perforazione rimasto sotto il violento e preciso fuoco dell’artiglieria e fucileria avversaria dava prova di sangue freddo e valida cooperazione dei dipendenti (Costone Bocche-Pederobba, aprile-novembre 1917)». Antonino Tripodi (1899) fu invece insignito della medaglia di bronzo al valore civile: «In occasione di una inondazione provocata dalla piena dell’Isonzo avventuravasi con altri animosi militari tra le acque turbinanti e profonde per recare soccorso a 7 persone in procinto di affogare, dopo faticosi sforzi riusciva a trarre in salvo 5 dei pericolanti».

*Foto tratta dal sito dell’Associazione Nazionale Alpini: www.ana.it

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Centomila gavette di ghiaccio

I libri belli, appena letta l’ultima pagina, lasciano un senso di tristezza indefinibile, solitudine e domande. Raramente ho letto pagine così drammatiche. “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi (il protagonista Italo Serri) racconta la tragedia della ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale, tema affrontato da Mario Rigoni Stern nel capolavoro “Il sergente nella neve”: 45 giorni di marcia con temperature prossime ai 50 gradi sotto lo zero, senza mangiare, senza dormire per giorni e giorni. I piedi ricoperti di stracci.
Chi ce l’ha fatta ha visto soldati cadere al proprio fianco stroncati dalla stanchezza o per congelamento. Tentare di farcela strisciando o camminando a quattro zampe sulla neve. Provare a chiudere gli occhi per pochi minuti, addormentarsi e morire assiderati. Spararsi in testa per la disperazione, per farla finita con quell’agonia. Ha mangiato mezza rapa marcia o una buccia di patata dopo giorni di digiuno sotto la tormenta. Ha camminato, camminato, camminato senz’altra prospettiva che quella di camminare per rinviare la morte di un paio d’ore o di un giorno. E ha combattuto senza riuscire a tenersi in piedi.
Centomila soldati morti in combattimento o per le ferite, per il freddo, il sonno, la fame e la stanchezza. Alcuni seppelliti, la maggior parte rimasti ai bordi delle piste e ben presto diventate mummie pietrificate. Infine i sopravvissuti oltre ogni umana possibilità di resistenza. Eppure capaci di slanci di umanità inimmaginabili: come l’alpino conducente di muli Scudrera, il personaggio che più di ogni altro mi ha emozionato, che salva dalla morte il compagno più anziano e con una numerosa prole a casa, donandogli quel pezzo di formaggio che dall’inizio della marcia teneva sotto il giaccone militare per il momento in cui neanche lui ce l’avrebbe più fatta a portare un passo dietro l’altro. E che ormai congelato egli stesso recupera chissà dove la forza per riuscire a trascinare fino alla fine la slitta portaferiti.
«Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?» è la domanda insistente rivolta da Giuanin a Rigoni Stern, nel “Sergente della neve”. «Gli alpini arrivano a piedi/ là dove giunge soltanto/ la fede alata» sono invece i versi del “poeta” Pilòn che, in “Centomila gavette di ghiaccio”, concludono l’odissea dei soldati italiani in Russia. Arrivare: verbo di speranza, nonostante la tragedia vissuta.

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Le rughe del sorriso

Carmine Abate ha impiegato tre anni per scrivere “Le rughe del sorriso”. Ed è sorprendente constatare come il suo ultimo romanzo irrompa con forza nel dibattito attuale attorno al tema dei migranti e dell’accoglienza. I grandi scrittori hanno la capacità di leggere in anticipo la direzione che prende il mondo: lo fanno per noi senza ideologismi, con la potenza evocativa del loro racconto. Capire che i numeri sono persone, questo è lo sforzo di umanità che occorrerebbe fare, a maggior ragione davanti ad una problematica così complessa: «Le storie necessarie – considera l’autore – ti vengono a trovare quando sono mature come un frutto, reclamano che tu le assapori, anche se sono amare, s’intrufolano dentro di te per coinvolgerti e aspettano la tua versione dei fatti, sapendo che ogni storia cambia a seconda di chi la racconta e di chi l’ascolta».
Un romanzo provvidenziale, che giunge in un passaggio storico delicato: non solo Riace e Mimmo Lucano, non solo i progetti di accoglienza, finiti sotto l’attacco di chi alimenta la paura sociale per tornaconto politico. L’odissea di Sahra, Faaduma e Maryan ha valore paradigmatico, è la condizione disumana, brutale, di tutti i migranti che sbarcano sulle nostre coste e dei tanti che muoiono durante il viaggio, nel deserto o in mare.
Non siamo più di fronte ad una situazione eccezionale, l’esodo biblico al quale stiamo assistendo è un fenomeno epocale ma ordinario, inarrestabile, e la società contemporanea è chiamata a farci i conti, comunque la si pensi. Non è sufficiente girarsi dall’altro lato, né pensare di fermare un’onda alzandoci contro un muro, perché l’onda quel muro lo abbatterà. Nei ringraziamenti finali l’autore cita una frase dello scrittore Alessandro Leogrande, scomparso l’anno scorso: «Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi».

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Lettera dal Quirinale

Una ventina di giorni fa avevo inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella una copia del libro “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra”. Lo ritenevo un gesto doveroso nei confronti di colui che “rappresenta idealmente la storia della nostra patria”, come scrissi nella lettera di accompagnamento.
Ieri ho ricevuto la risposta dell’Ufficio di Segreteria del Presidente della Repubblica. C’è un passaggio che mi emoziona e che voglio condividere perché in poche parole racchiude il senso di tutti i miei scritti sulla storia di Sant’Eufemia: “testimonianza dell’impegno civico con cui segue la storia del Suo territorio”.
Questa è per me la più grande gratificazione. Ed è anche un riconoscimento di quanto siano preziose le piccole case editrici come “Il Rifugio” di Reggio Calabria che permettono di tirare fuori dall’oblio vicende minime, di dare a personaggi sconosciuti dignità pari a quella dei più celebrati protagonisti della Storia grande.

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Mimì Occhilaudi

L’unico ritratto esistente, sguardo intenso e capelli indomabili, ci consegna l’immagine di un uomo tormentato da demoni silenziosi, come il ragazzo spartano richiamato da Edgar Lee Masters nei versi dedicati a “Dorcas Gustine” (Antologia di Spoon River), che “nascose il lupo sotto il mantello/ e si lasciò divorare, senza un lamento”. Domenico Giovanni Occhiuto elesse la solitudine a compagna di vita e musa ispiratrice. Figlio di Fortunato e Carmela Laudi, nacque il 24 giugno 1894 a Sant’Eufemia d’Aspromonte e, secondo quanto ricordato da Giuseppe Pentimalli sulla rivista “Incontri” (“Mimì Occhiuto, poeta dimenticato”, dicembre 1988), visse per lunghi anni in uno stato di grave indigenza: «Viveva di elemosine, nel senso che di tanto in tanto le persone più abbienti del paese lo invitavano a pranzo, vuoi per pietà vuoi per la curiosità di conoscere meglio questo tipo estroso». Un minimo di aiuto lo riceveva anche dal Comune, per il quale svolse compiti di archivista e copista degli atti amministrativi finché non fu assunto come impiegato, nel 1940.
Solitario e taciturno, Occhiuto fu autodidatta e scrisse essenzialmente per se stesso: della sua produzione è giunta ai nostri giorni la selezione di liriche “Polvere senza pace. Il rogo, la cenere, il vento”, pubblicata nel 1968. Un anno dopo, moriva a Reggio Calabria (2 novembre 1969).
Tutte le altre sue poesie sono andate perdute, a parte il carme “Ave, Saturnia Tellus”, stampato dalla Tipografia “C. Zappone” di Palmi nel 1933 con due titoli (il secondo: “Saluto alla terra rifiorente”), che in piena epoca fascista saldava il tema poetico della rinascita della natura con quello politico della rinascita della nazione. D’altronde, anche in un coevo manoscritto inedito e pervenuto a me in fotocopia, Occhiuto esalta il mito del primato italiano, che trova occasione di grande propaganda nell’impresa transoceanica di Italo Balbo (“Per la crociera atlantica del Decennale. Ai trasvolatori degli oceani”). Un altro inedito richiama invece la tradizione della satira di costume (“Galleria degli uomini illustri del mio paese. Primo profilo della serie”) e doveva essere parte di un progetto incompiuto, o comunque andato disperso, con il quale “u poeta” si proponeva di mettere alla berlina i personaggi più in vista della comunità eufemiese. Forse una vendetta contro coloro che a volte lo schernivano (un altro suo soprannome meno nobile era “secara”: bieta); o forse il tentativo di lenire i tormenti dell’anima dedicandosi ad argomenti più leggeri e divertenti. Mimì Occhilaudi, come amava firmarsi, esplicitando nella fusione dei cognomi dei genitori il forte legame con la madre, sapeva infatti essere pure simpatico. Accadeva ad esempio con i rari compagni di passeggiata, ai quali, dopo avere declamato alcuni suoi versi, scherzosamente chiedeva: «Non ti sembra che siano superiori a questi [e li recitava, n.d.a.] scritti da Dante?».
La cifra autentica della poesia di Occhilaudi è tuttavia dolore cupo e lancinante, strappato dalle viscere con un atto liberatorio che diventa sfiatatoio e terapia. “Polvere senza pace” raccoglie 44 componimenti, più due parti del poema “Per un granello di sabbia”, rimasto incompiuto. In particolare “Episodio della morte di Cristo” (l’altra è “Episodio della eruzione del Vesuvio e della distruzione di Ercolano e Pompei”) assurge a paradigma dell’umana sofferenza: “…e ciascuno risale un suo calvario/ per esser solo sul più alto vertice/ a illuminarsi col proprio dolore/ e riscattarsi solo con la morte,/ sì che ciascuno in lui si riconosca”.
Ma è in liriche come “Attesa”, “La serie dei tramonti” e “L’ospite” che la poetica dell’autore si manifesta compiutamente come capacità di tradurre in versi solitudine e silenzi.

ATTESA
Lume di luna penetra
tra le socchiuse imposte
e si diffonde per la muta stanza
soave, malinconica chiaria.
Sparse nell’alta quiete,
le cose s’affratellano nel sonno,
mentr’io supino, sul mio duro letto,
veglio bruciato da fuoco d’amore.
Triste, crudele, interminabil notte!
Abbandonata alla deriva l’anima,
invano invoco il balsamo del sonno
turba di larve m’affolla il pensiero
nel brulichio ondoso di penombre
sulle pupille spalancate, inerti…
E tu non vieni…
Viene solinga alla finestra l’alba.

LA SERIE DEI TRAMONTI
Murati mi sembrano gli occhi,
li sigillò la pena
che non trovò più lacrime da piangere…
Ora è deserto intorno,
arido vento mi fa cencio l’anima
e con sperduti occhi
guardo ogni sera declinare il giorno.

L’OSPITE
Nessuno m’attende la sera
– tra luce e penombra – vegliando
le care cose sparse per la stanza.
Quand’io rincaso deluso,
triste che quasi m’avvinghio alla morte,
nessuno m’accoglie.
Sopra la soglia, nella fredda notte
viva, nel fitto buio
di un infinito brulichio di stelle
e del cantare di lontane acque,
mi si richiude alle incurvate spalle
con secco schianto
la porta
coperchio di bara.

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Il segnalibro

Mi prendo la libertà di darti del tu, anche se mi viene da sorridere: è proprio vero che la rete ci rende tutti più disinibiti, sfacciati se si vuole. Il prossimo sei novembre saranno sei anni senza di te. Sei lunghissimi anni, sei brevissimi anni.
Mi piace questa fotografia che ci ritrae nell’estate del 2009, alla presentazione del mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Era la “tua” Sant’Eufemia, io uno dei tuoi tanti ragazzi. Uomini e donne ormai, che ti fanno vivere nei ricordi scambiati ogni volta che il discorso cade su di te, il professore Rosario Monterosso. Un miracolo che ci fa sentire tutti compagni di banco, in barba alle rispettive appartenenze generazionali. Vento in faccia che non sferza, profumo di prati e di speranza: i nostri vent’anni. Ma forse sto divagando.
Mi piace questa immagine scolpita nel tempo, per sempre: tu guardi qualcosa, cerco di arrivarci pure io. Come nell’aula, incantato dalle tue spiegazioni. Tutt’orecchi. Rivedo il ragazzo che è cresciuto inseguendo il tuo sguardo, per capire dove si sarebbe posato, per cercare di vedere con i tuoi occhi.
La dea della memoria è figlia del cielo e della terra. Le vette del pensiero e la materialità dei bisogni degli uomini nei due luoghi che hai frequentato per tutta la vita, dove ci hai accompagnato tenendoci per mano. Divago ancora.
Ora è diverso. Cerco i sassolini che hai fatto cadere dalle tue tasche per trovare la strada, come nella fiaba. Tento di saltare dentro le tue grandi orme, un passo dietro l’altro, provo a seguirle nel bosco per riuscire ad uscirne. Chissà.
Ti vedo sui tuoi libri, che oggi continuano a vivere nella mia libreria e che spero un giorno possano continuare a respirare altrove, ancora. Sei nel tuo studio, dietro c’è il tuo amato orto. L’orto del professore contadino: il pomodoro da legare, le erbacce da pulire. Nella curva che ancora oggi mi fa rallentare per vedere se sei là, come un tempo.
Tra le parole lette e meditate nel tuo paradiso borgesiano c’è la tua firma: un’annotazione a margine, una sottolineatura, un segnalibro. Come la striscetta di cartone trovata nei racconti di Mario Rigoni Stern (Tra due guerre e altre storie), che conforta una mia antica consuetudine e che là resterà, dove l’hai messa tu:

Ora siamo sazi, abbiamo le nostre case, anche le nostre ferie, eppure mi pare manchi qualcosa. Così in questi giorni sono andato al cimitero. È un posto davvero tranquillo e sereno; senza chiasso. Si sentono il canto degli uccelli e il ronzio delle api. È lì che ritrovo la mia Antologia di Spoon River, dove «tutti, tutti dormono, dormono; dormono sulla collina». È lì che ritrovo parenti stretti, prossimi e lontani, gli amici, le amiche, le storie di tanta gente che ho conosciuto, storie buone e non buone. Non è che pianga o sospiri; a volte mi viene anche da ridere. Rivedo in quei nomi, in quelle date tanto della mia vita, della vita del paese, la storia grande e quella piccola. Avevano ragione i greci quando dicevano che le muse sono le figlie della Memoria.

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Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra sulla Gazzetta del Sud

Forgione riscopre la Grande Guerra
Presentato il libro del ricercatore di storia eufemiese

Articolo di Pino Fedele 
Gazzetta del Sud 26 agosto 2018

È stato presentato nei giorni scorsi l’ultimo libro del ricercatore e storico Domenico Forgione Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, frutto di quattro anni di ricerche condotte sul fondo documentario dei ruoli militari del Distretto di Reggio Calabria (conservato all’Archivio di Stato) e sull’Archivio del Comune di Sant’Eufemia.
Introdotti dalla giornalista Monia Sangermano, che ha moderato i lavori, si sono susseguiti – dopo i saluti istituzionali porti dall’assessore comunale alla Cultura, Teresa Borrello – gli interventi della direttrice dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, Fortunata Minasi, dell’editore de “Il Rifugio” Antonio Aprile, del giornalista Agostino Pantano ed a conclusione quello dell’autore “Dominic” Forgione.
Il dibattito ha visto la patecipazione non programmata degli scrittori Aldo Coloprisco e Giuseppe Pentimalli e del pittore e scrittore Domenico Antonio Tripodi, più noto come “L’Aspromontano”, che hanno lodato il lavoro di Forgione per l’accuratezza delle ricerche e per l’intento di ricostruire il ruolo del paese nella Grande Guerra.
In tutti gli interventi è stato evidenziato che Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra è destinato a costituire un esempio di sguardo sul passato ed al tempo stesso una finestra sul futuro di Sant’Eufemia in quanto l’autore – è stato affermato durante la presentazione – non ha semplicemente scritto un libro di storia, ma ha costruito una storia visiva.

*La didascalia della foto non è corretta. Da sinistra verso destra: Aprile, Sangermano, Forgione.

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La presentazione del libro come l’ho vista e sentita

Cosa mi rimane della presentazione del libro? Se riavvolgo il nastro e riparto dalla fine, dalla composizione floreale che il giorno dopo ho portato al monumento dei caduti, la prima cosa che penso è che non l’avevo preparata. Non ci avevo pensato prima, ma a ben vedere è stata la cosa più naturale dopo un pomeriggio dedicato alla memoria dei soldati di Sant’Eufemia.
Tutto l’evento si è svolto con una linearità sorprendente, come se un regista ne avesse scritto la sceneggiatura. Ogni cosa al suo posto, ogni parola misurata, incastonata nel quadro di un pomeriggio per me indimenticabile. Eppure gli interventi non erano stati “studiati”. Nessuno di noi sapeva cosa avrebbero detto gli altri, al massimo ne intuiva il tema per grandi linee, in base al profilo dei relatori. Io stesso avevo un foglio con degli appunti da sviluppare, ma credo di averlo fatto soltanto per metà: alla fine, mi mancavano ancora parecchie cose da dire. Un pomeriggio volato via leggero, tra tantissime persone rimaste fino all’ultimo. Attente, coinvolte, emozionate.
Mi interessava legare la piccola storia a quella grande, come con la lettura della poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”, un luogo che per gli studenti è il simbolo delle atrocità della guerra. Ma anche il luogo dove, nella stessa giornata (29 giugno 1916), morirono sei soldati di Sant’Eufemia, asfissiati dal fosgene e dal cloro dell’attacco chimico degli austroungarici. Corre una grandissima differenza tra “un” e “il”.
Ripenso alle notti trascorse al computer, spesso “ai computer” perché a lungo ho avuto bisogno di lavorare su due monitor. Sono soddisfatto perché ritengo di avere anche compiuto un atto di giustizia: tirando fuori dall’oblio due vittime della guerra i cui nomi non sono presenti nell’albo dei caduti, né tantomeno sono incisi sul monumento dei caduti (Giuseppe Ierico, Giuseppe Sofo); oppure “consegnando” alle rispettive famiglie le cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, scritte cento anni fa e mai giunte ai propri cari.
È stato toccante leggere l’emozione nei volti degli adulti intervenuti alla fine della presentazione per condividere con il pubblico i propri ricordi familiari. E mi ha riempito il cuore di speranza constatare l’attenzione dei giovani per quelle storie lontane che tanto hanno ancora da raccontare e da insegnare. C’è bisogno di sentirsi comunità e di poterlo rivendicare; di farlo pizzicando le corde giuste, sforzandosi di elevarsi dalla gretta quotidianità. Non esiste altra strada, se vogliamo sopravvivere a questi tempi così tristi.
Ripenso agli incoraggiamenti e all’attesa suscitati dagli “aggiornamenti” che ogni tanto pubblicavo sul mio profilo facebook: mi sono stati di grande aiuto. Non perché temessi di non farcela. La ricerca è stata lunga ma non pesante: niente è pesante quando si fa ciò che si ama. Ma è stato importante avvertire l’interesse di tante persone nei confronti del lavoro che stavo portando avanti.
I tanti messaggi ricevuti dopo la presentazione mi lusingano come uomo e come cittadino del mio paese, ancor prima che come studioso.
Tutto si tiene. Bisogna riuscire ad assecondare la propria indole, a coltivare le proprie passioni: scrivere, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, praticare sport o qualsiasi altra attività. Se si fa del bene a se stessi, ci sono buone probabilità di fare del bene anche alla comunità nella quale si vive.

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