Tito Fedele: Ricordanze e riflessioni

La mia prefazione alla ristampa del libro di Tito Fedele: Ricordanze e riflessioni (2020)

A cosa servono i ricordi? Qual è la loro natura? Perché nascono e si incastonano
nella mente, a volte sfidando anche la nostra stessa volontà? Se ha ragione
Cesare Pavese nel considerare che delle nostre vite ricordiamo gli attimi, non
i giorni, può rivelarsi utile imitare il clown di Heinrich Böll e farne “collezione”.
È ciò che fa Annunziato Fedele in Ricordanze
e riflessioni
, compiendo un’operazione che non sempre cede al rimpianto,
nemmeno quando prevale la nostalgia per persone, luoghi, storie lontane.

Esiste una sottile distinzione tra questi due sentimenti. Il rimpianto è causato da un
passato che opprime, un passato che è ancora presente perché avremmo voluto
fare qualcosa e vi abbiamo rinunciato o perché abbiamo compiuto un’azione che,
nel presente, consideriamo un errore. La nostalgia può invece avere anche un’accezione
positiva, nonostante la sua etimologia (nostos: ritorno; algos: sofferenza) indichi –
ad esempio in Milan Kundera – il dolore suscitato dal desiderio inesaudito di “ritornare”
ad una condizione di felicità perduta. È il caso dei ricordi piacevoli, che
provocano uno stato d’animo di serenità interiore.  

I ricordi e le riflessioni di Fedele confermano l’immagine popolare, strettamente
connessa alla molteplicità dei rapporti interpersonali che comporta lo
svolgimento della professione di “medico di paese”, di un uomo dal vasto sapere
e dalla grande umiltà. La familiarità con la quale riesce a “colloquiare” con gli
scrittori classici conferisce alla sua formazione la solidità delle radici nodose
e robuste di quei vecchi ulivi più volte richiamati nel libro. Letture
preziose, certamente favorite dalla presenza, in casa, della fornitissima
libreria appartenuta allo zio sacerdote: tomi “pergamenati”, testi sacri, libri
di storia e di diritto ecclesiastico, grandi classici e poeti latini minori. Ma
anche Shakespeare, Goethe, Hugo: raffinatissimo il rimando a I miserabili per descrivere la malattia
che in gioventù lo tiene “stretto come Jean Valjean quando cadde in mano ai
vili Thenardier”.

I riferimenti letterari di Ricordanze e
riflessioni
impreziosiscono i ricordi di Fedele rivestendoli di un’aurea nobile,
così come i ricorrenti “intermezzi musicali”, dotte citazioni da musicofilo con
la passione per le sinfonie dei grandi compositori, ereditata dal padre. Quel
padre che suona il violino in chiesa e che si diletta a pizzicare le corde del
suo mandolino per i figli raccolti attorno al braciere, la sera dopo avere
consumato la cena. Spesso sono proprio le melodie del grammofono a mettere in
moto la macchina dei ricordi, a fare da sottofondo musicale alle conversazioni
dell’autore con la propria anima e con la vita fuggita, a illuminare i visi degli
amati congiunti.

I ricordi di Fedele sono istantanee che fissano sul foglio immagini suggestive,
paradigmatiche della realtà eufemiese nella prima metà del XX secolo. Una
società rurale composta da uomini e donne semplici che vivono all’interno di un
sistema produttivo di pura sussistenza, fondato per lo più sull’autoconsumo e nel
quale il baratto svolge ancora una funzione economica rilevante. Quella in cui
Fedele nasce e cresce è la Sant’Eufemia della ricostruzione avvenuta dopo il
terremoto del 1908, caratterizzata dall’urbanizzazione degli anni Venti e
Trenta nell’area denominata “Pezzagrande”, che però mantiene il centro
propulsore nel vecchio sito (Paese Vecchio o Vecchio Abitato), dove continua a
risiedere il ceto storicamente dominante sotto il profilo culturale, politico
ed economico. Un universo popolato da gente umile, scomparsa tra le pieghe del
tempo, i cui “racconti costituivano meravigliose pagine di inedite storie”. Agricoltori,
pastori, lavoratori a giornata, calzolai, sarti, falegnami e artigiani che oggi
sopravvivono nei racconti di Nino Zucco e nella memoria collettiva.

Sono tempi di stalle, di asini e di muli: tempi di mercanti provenienti dai paesi
ionici della provincia reggina che pernottano a Sant’Eufemia, per poi ripartire
all’alba. Molte famiglie vivono nelle baracche senza acqua, prive di corrente
elettrica e dei servizi igienici. L’alimentazione è povera, la carne quasi
sconosciuta, mentre molto praticata è la tecnica dell’essicazione degli
alimenti. I fratelli piccoli ereditano gli indumenti dei fratelli più grandi,
ma può anche capitare che un cappotto passi dal figlio al padre. La mortalità
infantile è alta, così come il tasso di analfabetismo. La vita dei contadini è
duro lavoro dalla mattina alla sera, quando – scrive il poeta eufemiese
Domenico Cutrì – “seduti scalzi sull’acciottolato/ davanti alla porta di casa/
farfugliavano nel vuoto/ aspettando pensierosi il domani/ per chi riusciva a
vederlo”: loro unico svago, la cantina nei giorni di festa. Le donne sono
raccoglitrici di olive (“partivano molto presto la mattina, silenziose, mobili
ombre nel buio della notte”), braccianti agricole che a casa devono anche
badare a nidiate di figli affamati e sporchi.

In questo contesto socio-economico vanno inseriti i “brevi scritti” di Fedele, nei
quali le vicende familiari assurgono a paradigma della storia di un’intera
comunità. Nel libro scorrono i volti di congiunti e di conoscenti; si avverte
il respiro di un secolo trascorso troppo rapidamente, che induce alla
malinconia. Un po’ quel che accade leggendo i titoli di coda di un film che
affascina e che si desidererebbe non finisse mai: si vorrebbe riavvolgere il
nastro per farlo ripartire ancora, dall’inizio. Allo stesso modo, al tramonto
della propria esistenza, Fedele rimette in ordine pensieri, ricordi e persone che
hanno accompagnato il suo cammino, affinché volti e fatti siano cornice pregiata
del suo testamento spirituale: “gli anni seguirono agli anni, innumerevoli
tramonti ed altrettante aurore”.

Ricordanze e riflessioni
si compone di tre parti, che hanno come filo rosso l’attenzione bozzettistica
dell’autore, la precisione nella descrizione di paesaggi, colori e voci della
natura, sui quali posa uno sguardo indulgente e paterno. O delicato, come
quando “dipinge” l’amata dimora, edificata negli anni Trenta sopra i ruderi di
un’antica abitazione patrizia distrutta dai terremoti succedutisi nel tempo a
Sant’Eufemia.

Colpisce l’incastro del registro lirico con quello scientifico, che spesso convivono senza
stonare. Il linguaggio letterario, elegiaco e a tratti raro, caratterizzato da
un ampio ricorso alla figura retorica della similitudine, richiama lo spirito
di Omero, Virgilio, Lucrezio, Euripide, Eschilo, Tacito, Esiodo, Ovidio e di tutti
i grandi classici latini e greci. Così, il mare viene presentato come il “ponto
profondo” del mito greco e, per descriverlo, Fedele declama un repertorio inesauribile
di aggettivi qualificativi. A volte, è la stessa costruzione della frase a
riprodurre lo stile latino, in particolare nella posizione del complemento di specificazione,
posto dinanzi al sostantivo: “i cui rami pendenti lambivano del fiume le acque
loquaci”.

L’Arcadia di Fedele ha i suoni e i colori di “Campanella”, che egli paragona alla Pieria:
il luogo della mitologia greca dove, secondo Esiodo, furono generate le Muse. La
“ridente conca” nella quale il genitore costruisce una piccola casa, che
diventerà la residenza estiva della famiglia, è il suo posto delle fragole, il
luogo incantato della sua spensierata fanciullezza.

Tra la nebbia del tempo prendono forma e si fanno largo, squarciandola, le figure
dei propri cari. Il padre scampato al terremoto del 1908 soltanto perché alle
5.20 di quell’infausto 28 dicembre era già uscito di casa per recarsi negli
uliveti. La madre, originaria di Bagnara Calabra e figlia di un capitano di
lungo corso morto durante un viaggio verso l’Argentina. I fratelli: Nino, nella
seconda guerra mondiale tenente pilota e subito dopo emigrato negli Stati
Uniti, dove si afferma come critico musicale per “Il progresso italo-americano”,
il più diffuso quotidiano statunitense in lingua italiana nel Novecento. Mimì,
che sul fronte greco-albanese contrae una malattia pleuropolmonare che presto lo
porterà alla morte. Diego, più volte sindaco di Sant’Eufemia tra gli anni
Sessanta e gli anni Ottanta, con il quale ha un rapporto di affetto
particolare, definito dal ricorso alla similitudine con i Dioscuri: “Forse,
nell’infinito spazio percorrendo le eterne vie degli astri e delle comete, ci
accosteremo, brillando, con smarriti occhi, ai luoghi dove transitò, con la
durata di un sogno, la nostra vita, dove fuggirono le nostre stagioni”.
Celestina, che muore tra le sue braccia (“ho poggiato la mia mano sinistra
sulla tua fronte e la destra sulle tue mani diafane, per far fluire in te un poco
del mio calore e della mia stessa vita”). Sarino, con il quale da adolescente scavalca
la cinta del cimitero per portare fiori sulla tomba di Mimì. Marietta,
“modellatrice fine di antica oggettistica muraria dal sinistro aspetto”.
Ancora: lo zio Diego, “abile oratore” e podestà in epoca fascista: è lui, nel
1926, il gran cerimoniere dell’inaugurazione del nuovo palazzo comunale e
dell’acquedotto, alla presenza del gerarca e deputato di origine paolana
Maurizio Maraviglia, al quale viene conferita la cittadinanza onoraria; lo
scrittore, pittore e scultore Nino Zucco; il pittore Carmelo Tripodi e il
figlio Domenico Antonio, che “dipinge pure il soave” poiché è riuscito a
trasferire sulla tela i versi della Divina Commedia; Francesca, ragazza di
umilissime origini accolta in casa che, dopo la morte, viene tumulata nella
cappella di famiglia.

Le riflessioni di Fedele toccano gli arcani temi dell’esistenza, gli interrogativi
che gli uomini si pongono, spesso senza riuscire a darsi una risposta, sin
dalla notte dei tempi: contemplando la volta celeste o rimanendo incantati
davanti alle innumerevoli prove della perfezione del creato. Soltanto il mito e
la Bibbia (“ambedue storie sacre”) sono in grado di dare risposte al mistero
della vita e della morte, a rassicurare sull’esistenza dell’Aldilà, dove sarà
possibile rivivere in eterno i momenti felici della vita terrena.

I pensatori dell’inizio della civiltà alleviano la sete di conoscenza, stimolata
dalla consapevolezza dei limiti che gravano la condizione umana come pesante e
intollerabile fardello. Un esercizio emozionante e crudele nello stesso tempo,
che però consente all’autore di visitare le dimensioni più intime e arcane dell’esistenza
umana. Ad esempio, quella onirica: il sogno è il luogo dell’incontro metafisico
con i defunti, che si materializzano portando con sé messaggi che Fedele si
sforza di interpretare. E se la figura del padre svanisce come l’anima di
Patroclo alla vista di Achille, gonfi di lacrime sono gli occhi dei pazienti
che, da lontano, scrutano il loro vecchio medico curante.  

I ricordi tengono insieme tutto: passato e presente, il senso stesso della vita.
Riscattano l’uomo dalle sue miserie quotidiane e lo elevano a un piano di
eternità. Quei ricordi che – ci insegna Enzo Biagi – sono la nostra fortuna,
perché contengono tutta la bellezza del mondo.

Ecco la ragione per la quale è necessario conservarli con cura e tramandarli:
affinché non svaniscano come le stelle alle quali Fedele li paragona, puntini
luminosi posti al di sotto della costellazione di Andromeda che nel volgere di
poco tempo si dissolvono nel mare. 

 

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Rosario Lalà

La storia di Sant’Eufemia è fatta da tantissimi personaggi anonimi, gente poverissima e affamata che a fatica, negli anni della grande miseria, riusciva a racimolare tutti i giorni un misero boccone. Tra le due guerre e nei primi anni del secondo dopoguerra non era inusuale che nelle numerosissime famiglie del tempo si saltasse più di un pasto, o che questo si riducesse a un po’ di pane accompagnato da qualche oliva. Molto triste era poi la condizione di chi viveva da solo e non svolgeva nessun mestiere. A questi poveracci non restava che affidarsi alla carità altrui. Potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è: in una condizione di indigenza generale, slanci di umanità alleviavano la fatica del vivere di questi sfortunati. Si divideva il poco che si aveva.
Lalà (al secolo, Rosario Sabino) era “un innocuo vagabondo”. Così lo definisce Nino Zucco nell’omonimo racconto (Fuoco a Diambra, Bonacci Editore, Roma 1956). Un randagio senza parenti e senza un tetto, che dormiva sopra un giaciglio di “mattoni e pietre con calcinacci” in una vecchia casa terremotata. Indossava vestiti laceri, spesso sacchi rattoppati, i baffi sporchi e la barba ispida. Era letteralmente “a brandelli” e aveva i piedi spaccati dal gelo: «Sembrava che nei talloni gli avessero dato dei colpi d’accetta».
Raccoglieva per terra i mozziconi di sigaretta per alimentare la sua pipa e “si nutriva con il piatto della carità umana”, oppure con la frutta che rubava negli orti. Quando poi la fame diventava troppa, non disdegnava le galline morte “con il morbo”, che arrostiva nella forgia di mastro Rocco il maniscalco.
Il suo era per lo più un parlare senza senso: «Non sapeva fare altro che ridere e dire parole sconnesse». Il massimo del suo divertimento era attendere alla fermata della corriera l’arrivo delle bagnarote “cariche di mercanzie, che vendevano o barattavano con olio e ortaggi”: le seguiva attendendo il momento propizio per sollevare le loro vesti esclamando: «Bella Madonna!», ma spesso finiva inseguito e picchiato dalle possenti donne del mare.
Le buscava spesso Lalà. Era infatti il bersaglio preferito dei ragazzi del paese, che lo prendevano a colpi di pietra per strada oppure si introducevano di notte nel suo nascondiglio, per svegliarlo di soprassalto. Quegli stessi ragazzi che però si presero cura di lui quando si beccò la polmonite: «Rantolava rincantucciato in un angolo umido e fetido», eppure «voleva vicino i suoi ragazzi, e ad essi chiedeva un po’ di cibo e un po’ di vino, soprattutto vino».
Quella volta si salvò, ma una seconda polmonite gli fu fatale. Finiva così la vita di Lalà, il cui corpo, benedetto dal parroco (“che ebbe sempre pietà di lui”), fu portato via dagli spazzini.

A Lalà, tipico “personaggio” di paese, dedicò un suo componimento il poeta eufemiese Domenico Cutrì:

Parivi scemu, ma scemu non eri,
armenu a modu toi, tu ragiunavi,
si ’ncunu ti parrava l’ascurtavi
’mpocu sedutu e ’mpocu standu ’mperi.
Cu eri? Chi facivi? Chi speravi?
La to testa paria senza penseri,
non avivi famigghia, né mugghieri,
ridivi sempri e sempri caminavi.
Tenivi stritta ’nmanu na cortara
di crita, vecchia, rutta e nigru e lordu
tu eri sempri di ’n testa a li peri.
Na cosa avivi bona, lu ricordu,
ca ringraziavi tantu volenteri
cu ti stindiva ndi la manu ’n sordu!

*La fotografia è tratta dal libro di Domenico Cutrì, Cascami. Poesie dialettali, Tipografia La Cartografica, Palermo 1965, p. 90 (a pagina 91, la poesia).

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Il martire fascista

Francesco Sottosanti è un maestro elementare di Piazza Armerina (Enna) che insegna a Verpogliano, frazione di Vipacco, un paesino sloveno del territorio goriziano annesso all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. Ucciso in un agguato il 4 ottobre 1930, l’assassinio viene considerato dal regime fascista delitto politico e Sottosanti, fervente fascista con incarichi nelle organizzazioni del partito, commemorato come un martire della Causa.
I giornali sloveni – di tutt’altro avviso – raccontano invece una storia di violenze e di ignobili punizioni inflitte agli alunni sloveni che parlassero o soltanto pronunciassero qualche vocabolo nella propria lingua madre: i poveretti erano costretti ad aprire la bocca, dentro la quale il maestro sputava. In realtà, non era Francesco Sottosanti l’autore dei maltrattamenti sui bambini a scuola.
Adriano Sofri ricostruisce il fatto di cronaca setacciando i giornali del tempo, i libri sulla politica fascista nel confine giuliano, documenti e rapporti di polizia rintracciati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma e negli Archivi di Stato di Gorizia e di Trieste. Il martire fascista. Una storia equivoca e terribile (Sellerio, 2019) non è però soltanto la storia tragica di uno scambio persona. Il libro di Sofri è anche il racconto della brutalità della politica di italianizzazione esercitata dal regime fascista contro le minoranze linguistiche (le cosiddette popolazioni allogene), in particolare quella slava.
D’altronde, su 31 giustiziati su sentenza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato eseguite tra il 1927 e il 1943, 24 erano sloveni o croati.
Ma c’è di più. Per uno strano scherzo del destino, un figlio di Sottosanti, Nino “il mussoliniano”, guadagnerà per qualche tempo gli onori della cronaca dopo la strage di piazza Fontana, della quale il 12 dicembre ricorre il cinquantenario, in qualità di improbabile sosia di Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage e poi assolto.
Una storia che rimanda ad altre storie, recuperata “andando su e giù dai confini”: «Niente è bello come un confine abolito. Soprattutto quando c’è chi lo rimpiange, e investe in fili spinati».

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Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia in tre scatti della Società fotografica italiana


Il terremoto del 28 dicembre 1908 fu il primo evento “mediatico” della storia italiana. In riva allo Stretto giunsero i giornalisti più famosi, tra i quali Luigi Barzini senior, il leggendario inviato del “Corriere della Sera”. Grazie al racconto dei quotidiani nazionali, l’Italia intera si sentì emotivamente coinvolta. Fiumi di inchiostro e, novità assoluta, numerose fotografie. I luoghi del disastro, morti e feriti, soccorritori, macerie e desolazione: anche le popolazioni delle province più lontane “videro” tutto. Le immagini diffuse avvicinarono gli italiani alla tragedia.
Nel 1889 era stata costituita a Firenze la Società fotografica italiana, sotto la presidenza dell’antropologo Paolo Mantegazza. Nel 1908 diversi fotografi giunsero a Reggio e a Messina per documentare fotograficamente gli effetti del terremoto e, neanche un anno dopo, i loro scatti trovarono sistemazione nel volume “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908” (Firenze, 1909). L’opera, che l’editore Barbaro di Delianuova ha meritoriamente ristampato nel 2002, contiene centinaia di immagini e gli interventi di autorevoli personalità del mondo culturale e scientifico: Gabriele D’Annunzio, Pasquale Villari, Corrado Ricci, Vittorio Spinazzola, Guido Alfani, Ugo Ojetti. Il contenuto della pubblicazione (scritti e didascalie delle fotografie), che fu dedicata dalla Società fotografica italiana all’«Opera nazionale di Patronato “Regina Elena” per gli orfani del terremoto», ha la caratteristica di essere riportato in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco.
La maggior parte delle fotografie furono realizzate a Reggio e a Messina, ma i reporter visitarono anche i paesi della provincia reggina. Sant’Eufemia è presente con tre scatti, realizzati da Luigi Lodi-Focardi e Silvio Bernicoli: la prima ritrae un’abitazione diroccata in uno scorcio di corso Umberto e piazza Plebiscito (odierna piazza don Minzoni); la seconda, una fontana con due donne e un uomo che fanno approvvigionamento d’acqua; la terza, la chiesa di Sant’Eufemia nel rione Petto, puntellata nei giorni successivi al terremoto.

*Fotografie tratte da: Società fotografica italiana, “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908”, ristampa a cura di Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 2002, pag. 303.

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Fiordaliso. Morire a 18 anni “di” ospedale

Fiordaliso è Stefano Terranova, con la sua giacca rosa, il ciuffo ribelle, gli auricolari alle orecchie. Secondo un’antica leggenda, il fiordaliso è il fiore dell’amore perduto. Stefano è un amore perduto per i suoi genitori, il fratello, gli amici, la comunità di Sant’Angelo di Brolo. Un fiore reciso a diciotto anni: morto “di” ospedale, come sottolinea il titolo del libro-denuncia di Maria Azzurra Ridolfo.
Un libro necessario, nonostante sul procedimento penale incomba la prescrizione, dopo sei anni di rimpalli da un tribunale all’altro e lungaggini burocratiche assurde.
Sin dal primo momento la famiglia di Stefano ha urlato la propria sete di verità su quanto avvenuto. Verità, non vendetta. Perché Stefano non è morto a causa dell’anomalia vascolare congenita per la quale era stato ricoverato e operato. L’intervento era riuscito perfettamente, un vero miracolo. Stefano è morto per le complicazioni sorte in seguito, a causa della negligenza dei medici: “ha avuto – commenta lo scrittore Alfio Caruso nella prefazione al libro – l’amaro privilegio di conoscere il miele e il fiele dell’assistenza sanitaria nel nostro paese”.
Il libro ripercorre le tappe dolorose della via crucis toccata in sorte ad un ragazzo brillante ed estroverso, prossimo alla maturità e con la gioia di vivere impressa sul volto. A diciotto anni non si pensa alla morte. Là fuori c’è tutto un mondo che aspetta di essere addentato e gustato, come un frutto succoso.
Azzurra Ridolfo ridà a Stefano la voce persa dal giovane nell’ultimo mese di vita. Lo fa raccontando in prima persona e rispondendo, dalle pagine del libro, “al silenzio delle istituzioni”.
L’autrice riesce a tenere bene in equilibrio i diversi registri narrativi del libro: le rasoiate di vita di un adolescente un po’ “folle”, ma poetico alla vista della Guardiola di Piraino o sulle ali della sua bicicletta, con lo studio scrupoloso delle schede cliniche e dell’incartamento legale.
Il lettore viene accompagnato in una repentina e inarrestabile corsa verso l’abisso. Le condizioni di Stefano si aggravano giorno dopo giorno, proprio quando sembra che il peggio sia passato. Nessuno si accorge di niente, nessuno si chiede niente, nessuno fa niente: «Sono come uno scarabeo che ha la sventura di ritrovarsi sul dorso e agita confusamente le zampine per chiedere aiuto, che nessuno gli darà. E morirà così, con la pancia in aria».
Stefano muore il 2 giugno 2013: da allora, la sua famiglia non ha mai smesso di cercare verità e giustizia. Il libro di Azzurra Ridolfo è l’ennesimo tentativo di sfondare il muro di silenzio e di indifferenza innalzato intorno alla vicenda. Proprio per questo è necessario, “affinché ciascuno – prendiamo in prestito le parole di Alfio Caruso – possa sentirsi parte di una grande battaglia di civiltà”.

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Sciascia l’eretico

Arrivai a Sciascia perché indirizzato dal mio professore di storia e filosofia, Rosario Monterosso, al quale devo questo e tanti altri utili suggerimenti di lettura. Il “maestro di Regalpetra” (felice titolo della biografia scritta da Matteo Collura) era morto da poco: proprio oggi ricorre il trentennale, salutato in libreria dall’uscita di “Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo”, scritto dal giornalista del “Corriere della Sera” Felice Cavallaro. Un ritratto dell’uomo e dello scrittore ricco di fatti e di ricordi personali, iniziati grazie all’amicizia che legava lo scrittore di Racalmuto al padre dell’autore del libro, vicini di casa in contrada Noce.
Sciascia fu per me una rivelazione. Un intellettuale scomodo che coltivava l’arte del dubbio; un illuminista (ah, il suo adorato Voltaire!) che nella scelta tra verità e ragione di partito non ha dubbi da quale parte stare. Così come non ce ne dovrebbero essere nella scelta tra uno Scalfari engagé e uno Sciascia che professa una sola religione: la ricerca della verità e la difesa del diritto, delle regole, della Costituzione (Gesualdo Bufalino ha definito l’opera di Sciascia “un unico grande libro sulla giustizia”). Anche a costo di mettere in discussione e troncare solidissimi rapporti di amicizia, come accadde con il pittore Renato Guttuso. D’altronde, tacere la verità non può mai essere un merito: tema affrontato in “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” e ne “La scomparsa di Maiorana”, che scopre anche il nervo del rapporto tra scienza, potere e morale.
Sciascia fu intellettuale tanto disorganico e controcorrente, quanto profetico. Per questo non poteva che finire male la sua esperienza nel Partito comunista ingessato degli anni Sessanta e Settanta, con l’appiattimento e la confusione tra governo e opposizione sublimate in quel compromesso storico che Sciascia denunciò prima ancora che fosse realizzato, ne “Il contesto” e in “Todo modo”.
Le sue “profezie” si sarebbero purtroppo realizzate, anche se il suo pessimismo lo faceva andare oltre la pur magra consolazione di avere avuto ragione: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Perché Sciascia ha spesso indicato ciò che non si voleva vedere, a cominciare dalla “linea della palma” ogni anno sempre più a nord, dalla mafia che si sviluppa dentro lo Stato, dalla corruzione in anni in cui non se ne poteva parlare o lo si faceva quasi di nascosto. E poi le sue tre grandi “ossessioni”: il caso Moro, con la furibonda polemica sorta attorno ad una frase estrapolata da una sua dichiarazione (“né con lo Stato, né con le Brigate rosse); il caso Tortora, con il pubblico ludibrio e la gogna che sollevano anche il tema della responsabilità civile dei magistrati; la questione dei “professionisti dell’antimafia”, il pericolo di un’antimafia opportunista e di facciata che diventa essa stessa strumento di potere.
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” è la frase sibillina del commediografo e scrittore francese Auguste de Villiers de L’Isle-Adam che Sciascia volle come epitaffio sulla sua tomba di ateo sempre in cerca della verità.

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Dalla biblioteca ferdinandiana di Reggio Calabria alla “De Nava”, il busto e la sala “Visalli”

Sono tre gli articoli del decreto “per lo stabilimento di una pubblica biblioteca in Reggio” firmato il 31 marzo 1818 dal re delle Due Sicilie Ferdinando I di Borbone e dal guardasigilli marchese Donato Antonio Tommasi. Nei primi due veniva stabilito il nome (biblioteca ferdinandiana) ed il sito (palazzo arcivescovile di Reggio Calabria, presso piazza Duomo). Nel terzo si specificava che la sua direzione sarebbe stata affidata ad un bibliotecario – che aveva anche l’obbligo “di dare ogni settimana due lezioni di biografia letteraria e di bibliografia” – scelto di comune accordo con l’arcivescovo di Reggio e con l’intendente della provincia (il progenitore del prefetto).
La biblioteca ferdinandiana, composta anche da una sezione di “libri e manoscritti patrij”, avrebbe riunito tutti i volumi dei padri filippini del capoluogo e quelli del seminario, realizzando così il proposito del sovrano di offrire ai propri sudditi “i mezzi, onde attendere alla cultura dello spirito”.
La biblioteca è stata nel tempo più volte trasferita. A partire dal 1928 è ospitata nella villa “Pietro De Nava”, accanto alla quale nella seconda metà del Novecento è stato costruito un nuovo edificio, oggi sede centrale della biblioteca comunale “De Nava”.
Tra le tante donazioni che compongono il suo ricco patrimonio bibliografico, particolarmente significativa è quella effettuata dalla vedova di Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e deceduto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931: circa 1.500 volumi, consultabili nel catalogo “Donazione Vittorio Visalli”. Le carte utilizzate per la stesura delle opere dedicate al Risorgimento calabrese sono invece conservate presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
A riconoscimento dei “meriti di storico e di educatore” dell’illustre eufemiese, all’interno della biblioteca “De Nava” il 29 dicembre 1932 fu collocato un busto in bronzo di Visalli, commissionato dal podestà reggino Pasquale Muritano. E proprio a Visalli è inoltre dedicata una delle attuali sale di lettura aperte al pubblico.

*Link utili su questo blog:
Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici;
L’epigrafe di Visalli, lo stupore di Mico;
Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli;
Il terremoto del 1894 in una lettera di Vittorio Visalli;
Vittorio Visalli, anche poeta.

Vittorio Visalli
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Viaggi sulla Luna

Mio nonno lo considerò un sacrilegio: «Ora viene la fine del mondo. La Luna non si deve toccare. È là, per i fatti suoi… perché l’uomo va a violare la sua tranquillità?». Più o meno le stesse parole ascoltate da un’anziana signora a corollario della consueta riflessione sulle stagioni che non sono più quelle di un tempo, una piovosa mattina d’agosto di qualche anno fa: «Da quando sono andati sulla Luna, si sciasciaru tutti i cosi».
D’altronde, ad un livello più “letterario”, un anno e mezzo prima dello sbarco dell’uomo sulla Luna, in una lettera a Italo Calvino la scrittrice Anna Maria Ortese aveva manifestato la tristezza e il fastidio (“e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia”) che provava quando sentiva parlare di lanci spaziali e di conquiste dello spazio: si trattava di una violazione incomprensibile dello “straziante desiderio di riposo, di ordine, di beltà”. Opinione non condivisa da Calvino, il quale nella sua risposta sottolineava: «Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più».
E pazienza, quindi, se il 20 luglio 1969 l’uomo ne avrebbe profanato l’inviolabilità, a distanza di oltre quattrocento anni da Astolfo in cerca del senno perduto da Orlando, dopo il tradimento di Angelica. Un viaggio sul carro alato del profeta Elia, a differenza degli astronomi nel film muto Viaggio nella Luna, di Georges Méliès (1902), i quali compiono l’impresa a bordo di una navicella a forma di proiettile incredibilmente somigliante al modulo di comando dell’Apollo 11. Celeberrima la scena dell’allunaggio (diventata sigla del programma di RaiTre “Fuori Orario”), con il proiettile che, scagliato in orbita da un cannone, si conficca in un occhio della Luna abitata dai Seleniti.
Ad ogni modo, la Luna conserva intatto il suo fascino. “Silenziosa”, come ricorda il Poeta, là in alto continua a raccogliere i nostri travagliati pensieri e “forse” intende “questo viver terreno/ il patir nostro, il sospirar, che sia”.

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Conversazione su Camilleri

Azzurra Ridolfo fa parte di “Ali di Carta”, un gruppo culturale di Brolo (Messina) composto “per il momento” – precisa – da sole donne, che opera per la promozione della cultura attraverso la presentazione di libri, l’organizzazione di incontri-dibattiti, l’allestimento di rappresentazioni teatrali. “Ali di Carta” considera la riflessione e il confronto dialettico condizioni imprescindibili per la crescita civile di una comunità. In collaborazione con l’amministrazione comunale di Brolo e con la libreria “Capitolo 18” di Patti nel giugno del 2018 ha curato l’iniziativa “Un arancino con Camilleri”, che ha sviluppato il tema “Andrea Camilleri: scrittore siciliano e fenomeno pop”. La sinergia con l’Istituto alberghiero di Brolo ha inoltre consentito, in quell’occasione, l’omaggio “I sapori siciliani nei romanzi di Camilleri”. Ad Azzurra Ridolfo ho posto alcune domande sul “fenomeno” Camilleri.

Quando hai “conosciuto” Andrea Camilleri e qual è stata la tua prima impressione? 
Ho “scoperto” Andrea Camilleri nel 1995 leggendo “Il Birraio di Preston”. Mi trovavo a Palermo ospite di un’amica. Sulla sua scrivania scorsi il volumetto blu della Sellerio: il nome dell’autore, lo confesso, mi giungeva del tutto nuovo. Ad attrarmi furono il titolo e le lodi sperticate della mia amica che non riusciva a celare l’incontenibile soddisfazione di beccarmi in fallo. Quello stesso pomeriggio acquistai “Il Birraio di Preston”, “La stagione della caccia” e “La bolla di componenda”.

Cosa rappresenta per un siciliano Camilleri?
Camilleri della Sicilia porta addosso movenze, ammiccamenti, tratti somatici, linguaggio, espressioni. Per un siciliano Andrea Camilleri è “casa”. La Sicilia Camilleri se l’è sempre portata nel cuore o, come amava dire, nel taschino sinistro della camicia. Sul cuore. Quando lo ascolti parlare o leggi i suoi libri, riconosci luoghi, profumi, sapori, suoni familiari. È come se fosse un parente o il vicino di pianerottolo a cui puoi suonare alla porta, per chiedere il sale quando già bolle l’acqua per la pasta. È riuscito a sdoganare l’insularità facendola decollare verso l’universalità. Ha raccontato la Sicilia più vera e bella, quella delle tradizioni, dei sentimenti, dei paesaggi mozzafiato, della cucina.

In che rapporto sta Camilleri con altri grandi siciliani protagonisti della letteratura italiana? 
In un rapporto di assoluta parità. Lo collocherei nel nutrito stuolo di scrittori siciliani che hanno fatto grande la letteratura italiana: De Roberto, Buttitta, Bufalino. Agrigentino, innovatore, costruttore di trame, di grandi personaggi e sfondi pittoreschi come Pirandello; penso all’amicizia che lo legò a Sciascia, al loro rapporto franco, diretto, oserei dire, “impetuoso”; ai loro confronti che sfociavano spesso in accesi litigi senza, tuttavia, intaccare mai la stima reciproca. Si scontrarono spesso sul linguaggio, sull’uso dell’italiano. Quello limpido e accurato di Sciascia, restava perplesso di fronte alla lingua “shakerata” di Camilleri, nella quale l’italiano si unisce al siciliano in una amalgama potenzialmente difficile, rischiosa, azzardata che, però, alla fine, si rivela vincente dando vita a un registro linguistico nuovo e originale che riesce a esprimere compiutamente il sentimento contenuto nel concetto. I suoi libri sono come dei cocktail perfettamente dosati. Penso anche all’amicizia con Simonetta Agnello Hornby, di cui è stato mentore e sostenitore. La stima della scrittrice nei confronti del Maestro è palpabile nello stile linguistico dei suoi romanzi trasudanti di “sicilianità”, termine che lei non apprezza ma che a me dice tanto, e di termini siciliani. Lo scorso giugno, con il gruppo culturale di cui faccio parte, “Ali di Carta”, in sinergia con la libreria Capitolo 18 di Patti, organizzammo un pomeriggio con Camilleri per omaggiare quello che a nostro avviso rappresentava uno dei più importanti scrittori contemporanei. In quella occasione Simonetta Agnello Hornby ci rilasciò un’intervista esclusiva in cui raccontò del “suo” Camilleri, della loro amicizia, della generosità del maestro verso gli scrittori e, in generale, gli artisti emergenti. Una testimonianza preziosissima.

Quali sono le ragioni del “fenomeno” Camilleri e in che cosa consiste lo “stile” Camilleri? 
Camilleri ha internazionalizzato la lingua siciliana, ha creato il vigatese, un miscuglio originalissimo di italiano, siciliano, agrigentino, e “camillerese”. Una scelta nata dalla sua difficoltà a rendere l’essenza dei sentimenti utilizzando l’italiano. È riuscito ad abbattere muri linguistici apparentemente invalicabili, ad arrivare a milioni di lettori in tutto il mondo. Il vero miracolo, a mio avviso, sta nel fatto che anche nella traduzione in altre lingue, il vigatese restituisce ad un pubblico internazionale le sensazioni espresse nella lingua radicata in un territorio delimitato. Uno scrittore italiano, nato in Sicilia, che si porta dietro la sua sicilianità e che da questa prospettiva guarda al mondo partendo dal particolare, spaziando verso l’universale, perché “la Sicilia è infinita, arriva da per tutto. Basta portarsela in tasca”.

Tre aggettivi per descrivere l’uomo e lo scrittore Andrea Camilleri.
1) Impegnato. Io credo che Camilleri abbia svolto in maniera egregia il suo ruolo di intellettuale curioso, attento osservatore e commentatore della contemporaneità di cui ha sottolineato l’involuzione umanitaria e democratica. I suoi moniti affinché si arresti il pericoloso declino culturale e sociale attualmente in atto resteranno l’eredità più grande per le generazioni a venire.
2) Fantasioso. La fantasia, instillatagli dalla nonna Elvira in tenerissima età, è una costante nella vita di Camilleri. Le sue opere spaziano dalla poesia ai romanzi storici, dai polizieschi ai copioni teatrali, alla letteratura per bambini. E per essere così poliedrici, oltre ad una immensa cultura di base, credo ci voglia un’enorme fantasia.
3) Ironico. Guardare al mondo con il sorriso sulle labbra, sapere raccontare i fatti trovando sempre il lato comico, anche delle vicende più drammatiche, alleggerire senza mai perdere di credibilità e di sostanza, credo che sia un dono che gli dei hanno concesso a pochi eletti. Camilleri era uno di questi.

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5 luglio 1914: il discorso di Pietro Pentimalli per la posa della prima pietra del palazzo municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte

L’odierno assetto urbanistico di Sant’Eufemia d’Aspromonte è l’esito dei terremoti che si sono nel tempo succeduti e che hanno determinato la riedificazione del paese nell’area denominata “Petto del Principe” dopo il 1783 e, in conseguenza del sisma del 1908, nei terreni di “Pezza Grande”. Se dopo “u fracellu” la soluzione individuata non aveva trovato obiezioni, anche a causa della strettissima continuità territoriale tra le due aree, molto controverso fu invece lo “spostamento” di circa un terzo della popolazione eufemiese dopo il 1908. Le polemiche tra i favorevoli e i contrari si trascinarono per anni, con raccolte di firme e memorie inviate al governo nazionale a sostegno dell’una e dell’altra tesi. L’allora sindaco, il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950), e il vecchio ma ancora autorevolissimo Michele Fimmanò (6 marzo 1830 – 11 febbraio 1913) riuscirono infine ad imporsi, grazie anche al contributo fondamentale del deputato reggino Giuseppe De Nava, che si fece promotore in Parlamento di un provvedimento che mediava tra le due posizioni in quanto decretava l’edificazione nella nuova area, ma abrogava il divieto di ricostruire nel vecchio abitato. Sant’Eufemia cambiava fisionomia e, con la poderosa edificazione della Pezzagrande, un terzo popoloso rione si aggiungeva al Paese Vecchio e al Petto.
Le ferite di quello scontro non erano ancora completamente rimarginate quando, il 5 luglio 1914, vi fu la posa della prima pietra del nuovo palazzo comunale. Lo sapeva bene il sindaco Pietro Pentimalli, che più volte nel discorso inaugurale utilizzò i termini “concordia” e “rinascita”. Due sostantivi, ripetuti negli interventi del vescovo Giuseppe Morabito e dell’onorevole De Nava, che ritornano in ogni “adesione” alla cerimonia inviata per lettera o per telegramma dalle più eminenti personalità eufemiesi e del circondario, oggi scolpite nelle 29 pagine di un opuscolo quasi introvabile: Per la posa della prima pietra del Palazzo Comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, 5 luglio 1914 (Palmi, Tipografia C. Zappone, 1914).

La pubblicazione era stata decisa affinché il ricordo di quell’evento fosse trasmesso alle future generazioni:
«Perché della patriottica festa celebrata ai cinque di questo mese di luglio, non svanisse assai presto il ricordo, questa Giunta, nel giorno successivo, deliberò che, e la bella iscrizione posta nelle fondamenta del nostro civico palazzo, e dettata dallo storico illustre e nostro concittadino, Prof. Vittorio Visalli, e il discorso da me pronunziato, e le molte adesioni di persone autorevoli e di concittadini, si pubblicassero per la stampa. Ho adempiuto a tale voto. E se un augurio mi è lecito ancora formulare per la nostra città, dico che, avviata Sant’Eufemia alla sua rinascenza, questa si compia per la virtù e pel concorde proposito dei suoi generosi e forti figli».

Lo storico eufemiese Vittorio Visalli compose l’epigrafe che, arrotolata dentro un tubo d’acciaio, fu calata nelle fondamenta del palazzo municipale e il cui testo fu riportato sul retro della cartolina celebrativa stampata a ricordo della cerimonia inaugurale:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire».

Nel suo discorso Pentimalli riservò un ricordo commosso alle vittime del terremoto e rievocò la tragedia di quei giorni:
«Noi, o illustri signori, siamo i superstiti che, balzati esterrefatti nel sonno, nel ruinante fragore degli attimi sterminatori, le nostre case e i nostri cari perdemmo, mentre la tragica alba, indugiantesi di tra le brume del fatale dicembre, coglievaci ignudi sulle vie, sulle piazze, col terrore sui volti, colla disperazione fatta follia nelle anime. Consentite, o signori, che prima di ogni altra cosa, con commosso e devoto pensiero ai nostri poveri scomparsi sotto la greve mora della crollata casa nativa, io invii un mesto e reverente saluto, e alla loro memoria consacri una lacrima e un fiore».

Ma nonostante i lutti e la devastazione occorreva guardare avanti e, nello stesso tempo, fare il necessario per conservare la memoria del passato:
«La vita è uno spettacolo di trasformazioni perenni, è un impasto di dimenticanze e di speranze nuove, e sul ceppo del passato rampolla e rinverde la ricordanza profetica: bisogna, dunque, ricordare, infuturandosi, tener vive le tradizioni e coordinarle all’avvenire, e col rimpianto dovrà sorgere la fede che fortifichi le anime nello ascendentale cammino. E la nostra fede, venuta su di tra gli sconforti e le ansie dei tragici momenti, e rafforzatasi per sempre più tenaci propositi, ci ha inspirato che Sant’Eufemia d’Aspromonte vivesse ancora nel tempo, nella tradizione, nella storia; che, percossa ma non doma, attingesse dalla ombrosa calma e raccolta della maestà dei suoi boschi lo austero e pensoso raccoglimento per meditare il suo avvenire, e chiedesse all’impeto dei suoi torrenti, che sanno scavarsi la via, la indomita virtù del volere per risorgere qui, non lungi dal vecchio abitato, pupilla adombrata dal triste ricordo di un tragico destino, occhio vigile e aperto a più arridenti fortune».

Sulle polemiche attorno alla decisione di ricostruire il paese nell’area della Pezzagrande (“vane ire, faziosi propositi, dilaniatrici ambizioni”), Pentimalli considerava che “è bene che scenda l’oblio”:
«La prima pietra su cui sorgerà la nostra sede comunale è per me e per voi tutti la pietra miliare che segna il fatto cammino e addita il novo a quelli che dietro seguiranno. Questa prima pietra ha per noi un contenuto ampio e comprensivo che trascende e sorpassa la solennità di una pubblica cerimonia. Essa è la consacrazione tangibile di una fede accomunata, di un nuovo e concorde proposito di tendere a più alta e proficua meta, di un’auspicata e sospirata pacificazione di animi, che, ci riempie di legittimo orgoglio e di serena gioia».

L’omaggio alla “veneranda figura” di Michele Fimmanò (deceduto l’anno precedente) e il ringraziamento rivolto a Giuseppe De Nava, “questa fulgida gloria del Parlamento italiano, il degno nostro rappresentante, che nato in questa regione, di essa conosce tutti i bisogni e ne intuisce tutto l’avvenire”, precedevano infine la chiusura del memorabile discorso, un inno d’amore rivolto alla propria terra:
«Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

*Link utili su questo blog:
La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908.
Sant’Eufemia e Milano, un legame storico.
Michele Fimmanò.

**Bibliografia:
– Giuseppe Pentimalli, La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, in Sandro Leanza (a cura di), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte 14-16 dicembre 1990), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1997.
– Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, edizioni La città del sole, Reggio Calabria 2008.
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013.

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