La marchesa filantropa tra i terremotati di Sant’Eufemia

Immagine tratta dal sito: www.centrostudibeppefenoglio.it

Come spesso succede in Italia dopo una tragedia, alla diffusione della notizia del terremoto che il 28 dicembre 1908 aveva raso al suolo Reggio e Messina, si mise immediatamente in moto la macchina degli aiuti. Ovunque sorsero comitati di soccorso per la raccolta di beni di prima necessità e, da tutta la Penisola, sui luoghi del disastro accorsero volontari che per giorni interi scavarono anche a mani nude per trarre in salvo chi era rimasto intrappolato sotto le macerie, per estrarre i cadaveri, per puntellare le abitazioni non completamente crollate. Nei comitati massiccia fu la presenza della nobiltà lombarda, piemontese e toscana. Già il 4 gennaio 1909, il “Corriere della Sera” informava che la signora Giulia Baglia-Bambergi, presidentessa dell’Assistenza pubblica milanese, la contessina Giulia Melzi d’Eril e la contessa Emilia Giulini Airoldi, avevano rivolto un appello alle dame milanesi, affinché cooperassero alla preparazione di biancheria e alla confezione di indumenti da recapitare nel centro di raccolta allestito presso l’Istituto pedagogico forense (il riformatorio) di via Bellini a Milano. La contessa Carla Visconti di Modrone (madre del futuro regista Luchino Visconti) aveva invece messo a disposizione villa Librera, nella Bovisa, per l’eventuale ricovero dei feriti.
Nelle zone terremotate la situazione era drammatica e la tensione sempre pronta ad esplodere, tanto che gli stessi soccorritori dovettero imporsi con le cattive per ottenere la collaborazione della popolazione, timorosa che la presenza di cadaveri sotto le rovine delle case potesse scatenare un’epidemia. Una corrispondenza da Sant’Eufemia ne dava notizia sul “Corriere della Sera”, il 6 gennaio 1909: «Sono ritornato stamane a Sant’Eufemia. Il disseppellimento dei cadaveri, che è assai faticoso, continua fra l’enorme cumulo di macerie su cui la squadra milanese fa continue disinfezioni. Purtroppo, però, i morti giacciono per ore e ore, perché nessuno vuole prestarsi a trasportarli al cimitero. Non bastano gli incitamenti del Comitato, non l’esempio: bisognerebbe ricorrere alla violenza. Oggi l’ing. Zanetti di Milano dovette puntare la rivoltella su un individuo che si rifiutava di aiutarlo nel trasporto di un cadavere. E l’atto energico ebbe benefici effetti. Ma si può fare sempre così? All’ospedale mancano i mezzi, le materasse e i cuscini, e i poveri feriti sono sul duro suolo. La volenterosa squadra milanese, malgrado i gravi disagi a cui va incontro, lavora indefessamente alle demolizioni, disinfezioni e dissotterramenti. Stanotte i bravi giovani, che sono semplicemente attendati senza paglia e senza coperte per le difficoltà del trasporto, non hanno potuto a lungo stare sul suolo, perché gelava e hanno dovuto passare la notte all’aperto, davanti ad un gran fuoco».
Nello stesso articolo, il giornalista evidenziava però anche la grandezza di una nobildonna accorsa in paese insieme ai nipoti, la marchesa Adele Alfieri di Sostegno: «Un’opera che conforta assai ed è da additare a tutte le dame italiane, è quella della marchesa Alfieri di Sostegno, la quale, dalle prime ore del giorno fino ad ora avanzata, è nella tenda di medicazione fra i medici a curare i feriti. Oggi la Regina Madre le ha telegrafato, elogiandola per l’opera sua altamente filantropica e comunicandole l’invio di due suore ai suoi ordini. La marchesa Alfieri ha, dal canto suo, rivolta preghiera alla Principessa Letizia [figlia di Giuseppe Carlo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, primogenita del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II] perché le mandi una automobile per poter spiegare più facilmente la sua attività».
Ma chi era Adele Alfieri di Sostegno? Figlia di Carlo Alfieri di Sostegno e Giuseppina Benso di Cavour, per parte materna era nipote di Gustavo, fratello dello statista Camillo Benso di Cavour; il nonno paterno era invece Cesare Alfieri di Sostegno, primo ministro, presidente del Senato del regno di Sardegna e, dopo l’unificazione, senatore del regno d’Italia; nonché cugino di Vittorio Alfieri. Potendo contare sull’eredità di un vasto patrimonio, Adele e la sorella Luisa, moglie del più volte ministro degli esteri marchese Emilio Visconti Venosta, furono molto attive nel campo della beneficienza. Adele istituì in Italia e all’estero scuole materne, scuole elementari, laboratori femminili di cucito e promosse la raccolta di fondi per gli emigrati all’estero. Coltivò inoltre con il grande meridionalista Pasquale Villari un rapporto “profondo e duraturo”, secondo quanto documentato dalla sua biografa Giustina Manica. Alla base del suo impegno in favore delle popolazioni del Mezzogiorno vi fu certamente l’interesse per la “questione meridionale”. In occasione del terremoto del 1905 aveva accolto nell’asilo di Santena (Torino) due orfanelle del catanzarese. Dopo quello del 1908 si recò in Calabria, accompagnata dai nipoti Enrico e Giovannino. Il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito, che secondo la testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè fu il primo ad arrivare a Sant’Eufemia («Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto»), in un telegramma alla sorella Luisa elogiò l’operato dei figli (“impareggiabili, lavorano con generoso ed esemplare slancio”) e sottolineò che Adele era “ammirata da tutti”. Encomio ribadito anche dal colonnello Rostagno, comandante del reggimento dei granatieri di Sardegna: «Ella fu superiore a qualsiasi elogio e parole nostre di riconoscenza non gioverebbero mai a sostituire quelli che mille infermi rivolgono alla Gentile Signora, per l’opera buona umana e generosa da essa prestata».
La ricerca storica ha un aspetto etico, che consiste nel fare giustizia dell’oblio immeritato riservato a personaggi eccezionali. L’azione umanitaria in favore della popolazione terremotata assegna alla marchesa Adele Alfieri di Sostegno un posto di rilievo nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Bibliografia:
*Domenico Forgione: Sant’Eufemia nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, Reggio Calabria 2021.
*Giustina Manica, Adele Alfieri di Sostegno: profilo di una nobildonna, in “Rassegna storica toscana”, numero speciale “Elementi di studio dell’identità femminile fra Ottocento e Novecento”, luglio-dicembre 2016 (anno LXII – n. 2), pp. 245-258. Le parole di elogio del vescovo Morabito e del colonnello Rostagno sono a pagina 254.
*Bruno Gioffré, Quarant’anni in condotta, Tipografia Ugo Quintily, Roma 1941.

Corriere della Sera, 6 gennaio 1909
Monsignor Morabito a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Benedizione dei defunti
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Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia nel reportage del Corriere della Sera

Il terremoto del 1908 fu il primo avvenimento “mediatico” nella storia italiana. In riva allo Stretto arrivarono gli inviati dei quotidiani più diffusi, con al seguito i fotografi. Le immagini pubblicate sui giornali consentirono alle popolazioni delle province più lontane di “vedere” la devastazione, i morti, i feriti e l’opera dei soccorritori, contribuendo così anche al consolidamento dello spirito nazionale.
Nel mio ultimo lavoro sulla storia di Sant’Eufemia ho riportato la relazione dell’ingegnere Antonio Pellegrini sull’attività del comitato lombardo di soccorso, insieme a quelle preparate dalla Croce Rossa Italiana e dalla Croce Verde (Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, Il Rifugio Editore, 2021, pp. 60-66).
Il contributo della Croce Verde fu enorme, tanto che alla benemerita associazione il nostro comune aveva dedicato una via del paese, la cui denominazione fu imperdonabilmente cambiata dopo la seconda guerra mondiale. E prima o poi bisognerebbe intervenire sulla censurabile abitudine di cancellare, con un tratto di penna, fatti e personaggi rilevanti nella storia di una comunità: quando basterebbe una targhetta (“già via…”) per salvare la memoria storica del posto in cui si vive.
Quando scrissi il libro non possedevo alcuni articoli del “Corriere della Sera” (pubblicati tra il 30 dicembre 1908 e il 13 marzo 1909), nei quali si fa riferimento a Sant’Eufemia d’Aspromonte e all’opera dei soccorritori. Documenti straordinari, che ho potuto visionare grazie alla generosità di Alberto Minissi, volontario e cultore della storia della Croce Verde. Di particolare importanza è il reportage di A. Jannoni, pubblicato il 5 gennaio 1909 con il drammatico titolo “L’agonia dei sepolti vivi a Sant’Eufemia”. Lo riporto integralmente, per il suo alto valore storiografico e umano:

«Mentre nell’accampamento dei soldati del 20° fanteria regna grave il silenzio, un sibilo forte, e poi uno scuotimento come di un treno che passasse vicinissimo, ci sveglia di soprassalto. Tutti siamo in piedi, in preda al panico: la gente raccolta nelle vicine baracche grida terrorizzata. La scossa è stata fortissima: ma la stanchezza è tanta che torniamo a dormire.
Per tempo stamane ho ripreso il mio giro, inoltrandomi nella parte più alta del paese: le stesse rovine, le vie scomparse, macerie da per tutto. Solo in via Cremona due case resistono ancora, apparentemente in buono stato; ma all’interno tutto è precipitato: in una di esse abitavano due famiglie di dodici persone ciascuna, e tutti si salvarono da un balcone.
In piazza Cavallotti è ancora sulla via la carogna di un mulo, col basto, e un carico di barili di vino sfasciati. Ieri l’altro era stato estratto lì presso il padrone, un contadino sconosciuto. Costui si recava a un paese vicino per vendere del vino; ma giunto colà, sorpreso dal crollo di una casa, restò sepolto.
Nella stessa via mi si mostra una casa da cui ieri soltanto fu estratto il cadavere di un certo Tommaso Anastasio, che, sorpreso dal terremoto mentre scendeva le scale, restò con la mano afferrato alla ringhiera. Caduti il giorno dopo, per le successive scosse, un muro e le macerie che ricoprivano il cadavere, questo, irrigidito, restò nella stessa posizione per tre giorni; e tutti si recavano a vederlo.
Molti dei sepolti vivi sopravvissero per vari giorni; poi, per mancanza di soccorsi, morirono. Così Giuseppe Passalacqua, ebanista, che rimase sotto le macerie per quattro giorni, con la moglie e quattro figli già cadaveri, fino a venerdì, poté implorare aiuto; ma la sera di quello stesso giorno, per l’enorme cumulo di materiali, morì.
Vicino, era Francesco Tripodi con la moglie e sette figli; chiamò aiuto per tre giorni, ma quando s’iniziarono i lavori per il dissotterramento, era già cadavere. Furono salvati tre figli suoi, ma uno è in pericolo di morte. Dalla barella su cui giace, grida agitandosi: «Ecco il terremoto! Salvatevi!».
Dalle rovine dell’albergo “Aspromonte” furono estratti in due giorni consecutivi i cadaveri di Antonio Militano, proprietario dell’albergo e quelli del padre suo, della madre, di due zie e di tre figliuoli: mancavano ancora la moglie e un bambino lattante di 9 mesi. Ieri si continuò il lavoro, e si rinvenne alfine il cadavere della povera donna che faceva col suo corpo ponte al figlioletto. Questo era ancor vivo dopo cinque giorni: e fu da alcuni pietosi congiunti raccolto e trasportato a Sinopoli.
Dopo quattro giorni sono stati estratti ancora vivi dalle macerie anche certa Maria Cassone con il bambino incolume, che era avvinto al cadavere del padre. Appena estratto, il bimbo cominciò a scherzare.
Maria Ascrizzi abitava in via Telesio, in un punto dove si sviluppò l’incendio. Ella udiva le grida strazianti dei feriti e la puzza d’arso, e attendeva la morte rassegnata. Passarono così tre giorni, senza che le venisse dato alcun aiuto; poiché ormai disperava e le sue sofferenze erano enormi, pensò di abbreviarle appiccando il fuoco a poche schegge di legno raccolte con alcuni fiammiferi che aveva in tasca. Stava già per mettere in atto il suo disegno, quando intese dei colpi ripetuti ad un muro vicino. Sperò allora, e gridò: e l’indomani fu salvata. Sta bene relativamente e chiede da mangiare.
Due impiegati comunali perdettero la vita in circostanze orribili e quasi identiche.
Giuseppe Melardi, segretario-capo, abitava in via Roma. Precipitato nel baratro, gli rimase fuori un braccio, e con voce flebile chiedeva aiuto, mentre agitava nell’aria la mano di tanto in tanto, quasi a mostrare che era ancora vivo. Il fratello Antonio, professore di ginnasio a Monteleone, e che era qui in licenza, uscito sano dalle macerie, accorse subito per tentare il salvataggio; ma l’impresa era impossibile, ed allora egli si diede a confortare il sepolto, standogli vicino. Gli gridava a breve intervallo: «Coraggio! Coraggio!». Fino a che non vide rinserrarsi quella mano per non più riaprirsi. E il povero superstite, senza attendere altro, si allontanò dal paese.
Gaetano Zagari era vicesegretario e corrispondente del Giornale d’Italia. Abitava con la vecchia madre, di cui era il sostegno. Travolti tutti e due, la madre si salvò ed è ora impazzita. Il povero giovane restò con ambe le braccia di fuori, e agitò per un paio d’ore le mani per dar segno di vita. Molti tentarono il salvataggio assai difficile: ma quando videro che le mani non si agitarono più, si allontanarono. Allora la povera madre, che sino a quel momento aveva pianto, cessò dal versar lacrime, e accollatasi presso le braccia inerti, si mise a ricoprire di baci.
La fine di Rocco Occhiuto è stata anche più straziante. Rimosso il materiale che gli era intorno, uscì fuori con la testa intrisa di fango: e poiché egli era ancora vivo, furono intensificati dai parenti i lavori di dissotterramento. A poco a poco riuscì a metter fuori le spalle, il petto, le braccia: nella caduta egli era rimasto in piedi. Ma ogni sforzo per liberarlo dall’enorme massa di rottami che lo teneva fortemente stretto fu inutile: e il disgraziato, mentre urlava cercando di districarsi, dava intanto precise indicazioni sul posto ove doveva trovarsi un suo figliuolo. Difatti, a pochi metri di distanza, questi veniva salvato e il povero Occhiuto veniva abbandonato al suo destino, dopo aver avuto la cura – per sottrarlo alla furia della pioggia – di innalzare sul suo capo, su due listelle di legno, un riparo di tavole. Egli sopravvisse in simile difficile posizione per oltre due ore dopo lo scavo, ossia fin verso sera…
Per i soccorsi ai superstiti provvede qui il Comitato di Milano. Stamane sono qui tornati il maggiore Bassi e l’ing. Stucchi per rifornire l’attendamento».

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Marco Annicchiarico: I cura cari

“Curacaro”, traduzione dell’inglese caregiver (“colui che si prende cura”) è un neologismo introdotto nella lingua italiana dallo scrittore Flavio Pagano, autore di Perdutamente (Giunti, 2014), Infinito presente (Sperling & Kupfer, 2017), Oltre l’Alzheimer. L’arte del caregiving (Maggioli, 2019), nonché del corto Abbracciami, presentato nel 2021 all’Alzheimer Fest di Cesenatico, manifestazione ideata nel 2017 dal giornalista Michele Farina, il quale – a sua volta – ha dedicato alle problematiche che coinvolgono i pazienti affetti da demenza senile, i loro familiari e gli operatori sanitari il libro-inchiesta Quando andiamo a casa? Mia madre e il mio viaggio per comprendere l’Alzheimer. Un ricordo alla volta (Rizzoli, 2015).
I cura cari, scritto dal giornalista, critico musicale e poeta Marco Annicchiarico, prende in prestito (separando le due parole) il neologismo di Pagano e racconta l’esperienza dell’autore, già nota ai lettori delle sue due rubriche: Diario di un caregiver, per la rivista «Mind», è “la storia delle difficoltà, degli ostacoli, della burocrazia e dei paradossi che affronta chi assiste un malato di demenza”; Caregiver Whisper – Storie di ordinario Alzheimer, per il blog collettivo «Poetarum Silva», racconta invece “piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l’ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili”.
Prendersi cura di familiari malati è un’attività dai forti risvolti emotivi, oltre che pesante sotto il profilo materiale: basti considerare che il 70% di chi assiste un familiare malato è costretto ad abbandonare il lavoro. Quando poi si tratta di soggetti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza, le difficoltà si avvertono in forma ancora più acuta. Come riuscire, infatti, a trovare un senso ad un’esperienza che spesso comporta l’annullamento della propria vita? Come gestire la malattia del familiare e l’inevitabile deterioramento del proprio equilibrio psicofisico?
Annicchiarico, che affronta la questione ricorrendo alla propria esperienza personale, offre al lettore una storia d’amore tra madre e figlio che è al tempo stesso poetica e dolorosa: “un romanzo-pugno e un romanzo-carezza, capace di commuovere e di farci sorridere nello stesso rigo”.
I cura cari è la ricerca di un nuovo equilibrio, che consenta a madre e figlio di ritrovarsi in quella realtà parallela del malato che Pietro Vigorelli (autore, tra l’altro, del libro edito da FrancoAngeli nel 2015: Alzheimer. Come favorire la comunicazione nella vita quotidiana) ha definito “mondi possibili”: «Noi dobbiamo accettare quello che i malati sono ora. Il salto nei mondi possibili ci permette di stare vicino a loro “dove sono in questo momento” rispettando, anche nelle situazioni più drammatiche, la loro dignità di persona e valorizzando le abilità che hanno mantenuto».
Annicchiarico attraversa le diverse fasi della malattia della madre Lucia, che inevitabilmente si ripercuotono sulla sua quotidianità, stravolta dagli effetti devastanti della caduta del familiare nel gorgo della demenza. Il sasso che manda in frantumi la finestra della propria esistenza si manifesta con la perdita dei ruoli (“non si può tornare ad essere figlio, non si può tornare ad essere madre”). All’inizio prevale il senso di vergogna, di fronte ad una mamma che gradualmente perde ogni freno inibitore: mangia con le mani, diventa scurrile, non è capace di controllare le funzioni corporali. Poi subentra l’accettazione, a conclusione di un processo graduale, che porta alla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un’altra persona, che vede quello che non c’è e lo rivela al figlio. Con questa nuova mamma, sospesa sempre nell’altrove in cui è finita, l’autore si sforza di entrare in relazione, nonostante l’avvilente impressione di essere lo spettatore di una donna che lentamente si sta dissolvendo.
Madre e figlio si incontrano così in storie spesso inventate, raccontate con l’utilizzo di una nuova lingua, una sorta di esperanto fatto di frasi e parole senza senso o che non esistono. «Sono una ticococca», afferma Lucia sul finire del libro, in un dialogo che ispira all’autore versi struggenti:

Ho scoperto che mia madre
è diventata una ticococca,
per metà è fatta di carne
e per metà è fatta di nebbia.
La notte scompare nel suo letto,
riesci solo a sentirne la voce, flebile,
che arriva da lontano.
Al mattino, però, con tutta
la sua forza chiude le dita dolenti
attorno alle mie mani.
A volta sembra sussurrare:
«Sono qui, vienimi a salvare».

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Nel nome di Sant’Ambrogio

Da ragazzino mi chiedevo le ragioni dell’esistenza, a Sant’Eufemia d’Aspromonte, di una via dedicata a Milano, che percorrevo quasi quotidianamente per recarmi al campo sportivo, ma anche della chiesa intitolata a Sant’Ambrogio e, addirittura, di un’associazione culturale che portava il nome del patrono della città meneghina. Proprio grazie all’attività culturale della “Sant’Ambrogio”, in particolare gli articoli sulla storia di Sant’Eufemia pubblicati dalla rivista “Incontri”, venni a conoscenza di come la storia del nostro paese sia legata a filo doppio all’umanità dimostrata dal popolo milanese in occasione del terremoto del 28 dicembre del 1908. Una tragedia di dimensioni colossali che provocò circa 700 morti, più di 2000 feriti e la distruzione dell’85% del patrimonio edilizio.
Nell’immane tragedia, come spesso accade in Italia, si scatenò una gara di solidarietà senza precedenti. Comitati di soccorso sorsero un po’ in tutta la Penisola e, già il 2 gennaio 1909, giunsero a Sant’Eufemia i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso. L’arciprete Luigi Bagnato, autore della “Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città”, nel descrivere i lutti e la distruzione prodotti dal sisma, consegnò alla storia la riconoscenza degli eufemiesi: «Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione».
Nei terreni dell’area denominata “Pezza Grande”, dove già sorgeva il baraccamento edificato in seguito al terremoto del 1894 e dove inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, tra febbraio e aprile del 1909 furono infatti realizzate 54 costruzioni, suddivise in 216 vani e in grado di ospitare oltre 750 persone, ai bordi di tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. A marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”, così denominato in segno di gratitudine nei confronti dei soccorritori. Al termine dei lavori, nel nuovissimo rione “Città di Milano” (che contava 759 baracche) si trasferirono oltre 2.000 eufemiesi. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari.
Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città, stipulato formalmente il 7 aprile 1980. Più volte una delegazione dell’Associazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio e, nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ritirò, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.

*L’immagine è tratta da Antonio Pellegrini, “La rinascita d’un paese devastato dal terremoto”, ora in Terremoto Calabro-Siculo del 28 dicembre 1908. L’opera della Croce Rossa Italiana e del gruppo indipendente fiorentino, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2008, p. 228.

*Per una ricostruzione completa delle vicende relative al terremoto del 1908 e alla riedificazione della città, si veda: Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore 2021, pp. 55-73.

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Totò, ci manchi

Con il trascorrere del tempo, inevitabilmente Facebook diventa un luogo di nostalgia. La funzione “ricordi”, con i vecchi post che il social ogni mattina consiglia di condividere, riproponendo avvenimenti e persone ci riporta indietro negli anni. Come eravamo, cosa facevamo, con chi eravamo in quel preciso giorno. Nostalgia che aumenta quando Facebook ci segnala il compleanno di amici che purtroppo non sono più tra di noi, ma il cui profilo risulta ancora attivo.
Mentre si è impegnati a vivere, non si pensa alla morte. Per cui in pochi utilizzano l’opzione che predispone la cancellazione automatica dell’account dopo un periodo di inutilizzazione. Certamente non ci aveva pensato Totò Ligato, il quale oggi – mi ricorda appunto Facebook – avrebbe compiuto 75 anni.
Totò, purtroppo, manca da sette anni. Per il dizionario della Treccani, mancare significa: “essere meno di quanto sarebbe necessario o conveniente o desiderabile; o non esserci affatto, di cosa che invece dovrebbe esserci”. Necessario, desiderabile, dovrebbe esserci: il verbo definisce in maniera esauriente il vuoto lasciato da Totò.
Sono tra i tanti che gli hanno voluto bene. Apprezzavo le sue corrispondenze per la Gazzetta del Sud da Melicuccà, Seminara, Sinopoli e San Procopio, rigorosamente firmate a.l.: Antonio Ligato. Ma per tutti noi è sempre stato “Totòligato”, tutto attaccato. L’avevo conosciuto intorno al 2000, lui corrispondente per la «Gazzetta del Sud», io per «Il Quotidiano della Calabria». Da allora e fino alla sua morte non abbiamo mai smesso di “frequentarci”, di scandagliare quelle piccole storie che affascinavano entrambi, che io ho finito per raccontare sul blog e nei libri, lui sulle pagine della Gazzetta, in un esercizio appassionante di custodia della memoria dei nostri luoghi.
Conservo con orgoglio le sue recensioni ai miei primi due libri sulla storia di Sant’Eufemia: Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922 (2008) e Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (2013).
I corrispondenti locali danno visibilità a posti dei quali spesso, se non ci fossero loro a scriverne, non si saprebbe niente. Sono la voce dei territori che non hanno voce e di coloro che ci vivono. Svolgono una funzione sociale e civile tanto preziosa quanto misconosciuta.
Totò Ligato ha svolto questa “missione” in maniera alta. Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, in particolare della sua Melicuccà nel Novecento: protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. A quelle storie ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che qualche anno fa ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf e che meriterebbe di essere ripubblicato, insieme ad una selezione dei suoi articoli più significativi.
Totò era un giornalista romantico, al quale la dimensione di corrispondente locale andava bene, nonostante avesse una solidità culturale e uno stile di scrittura da cronista di razza. Mi mancano le sue osservazioni mai banali e la sua capacità di analisi, il suo amore per i nostri territori e per le storie delle umili genti, che soltanto nella penna di chi ha una sensibilità particolare trovano riscatto.

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Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia

Qualche anno fa scrissi del poema-diario di Giuseppe Ciccone (Trough the circles of hell: a soldier’s saga, Relicum Press 2016), un preziosissimo documento sulla prima guerra mondiale pubblicato a cura della figlia Tina (Fortunata) e del nipote Joseph Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester.
La storia di Tina è singolare. Dopo un’intera esistenza trascorsa negli Stati Uniti (l’ultimo suo viaggio in Italia risale a mezzo secolo fa), che ne aveva quasi cancellato il passato italiano, calabrese ed eufemiese, giunta alla terza età si è dedicata al recupero delle proprie radici. L’ultimo frutto di questo esercizio della memoria è un omaggio a figli, nipoti e pronipoti: Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia, uno spaccato degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso a Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Il capofamiglia va avanti e indietro dagli Usa e ogni volta che lascia il paesino ha un figlio in più: Luigi, Nino, Orsola, Rosa e Tina. Gradualmente, tutta la famiglia raggiunge il genitore, tranne Orsola, che si trasferisce a Roma dopo il matrimonio con il ragazzo che per cinque anni percorre in bicicletta la strada da Delianuova per poterla corteggiare mentre si approvvigiona d’acqua in una fontana pubblica. Nel 1950 giungono infine negli Stati Uniti la diciannovenne Tina e la mamma, Francesca Pillari.
L’emigrazione era allora un fenomeno caratterizzato da mesi, anni di silenzi. Quando arrivava una lettera, per tutto il giorno era festa tra le mura di casa Ciccone, un’abitazione con giardino che era stata residenza estiva dei Ruffo e nella quale, secondo una leggenda locale non riscontrata, aveva addirittura pernottato Garibaldi.
Francesca, che da bambina aveva casualmente incontrato il brigante Giuseppe Musolino, è una sorta di autorità medica, in virtù della frequentazione dello studio del medico condotto Bruno Gioffré-Napoli, la cui immensa libreria è per Tina un luogo magico oltre che di formazione. Emblematico l’episodio del parto podalico, portato a termine senza procurare danni né alla neonata né alla partoriente.
Sono tempi difficili, caratterizzati da un’alta mortalità infantile. Tina conosce presto il volto della morte, quando perde una compagna di scuola per una malattia sconosciuta che la consuma nel giro di pochi giorni. Ogni tanto in paese si sviluppa un incendio che distrugge le baracche in legno. Ninuzzo, il primo ad accorrere ovunque quando si trattava di domare le fiamme, muore mentre tenta di spegnere il fuoco che divora la sua abitazione.
I “quadri” storici di Tina sono popolati dagli artigiani del tempo, veri e propri “artisti”: scultori, orafi, ebanisti, calzolai, sarti. Sono gli anni del consenso al regime fascista: «Non avevamo idee politiche, ma eravamo felici di indossare le uniformi, di marciare, di fare gli esercizi ginnici». Tina stessa partecipa e vince un concorso, per il quale viene premiata a Reggio Calabria, sviluppando la traccia “Cosa significa per te essere un balilla o una giovane italiana?”.
Molte ragazze vanno dalle suore e imparano a cucire, a lavorare a maglia, a ricamare, a stirare: tutto ciò che serve per diventare brave donne di casa. La società è patriarcale e non priva di pregiudizi. Domenico, il figlio del fornaio, viene appellato “il poeta” perché porta i capelli lunghi e veste in modo eccentrico. La sua omosessualità è “una vergogna per la sua famiglia”, tanto che il padre perde i clienti e le sorelle non riescono a trovare marito. Maria non viene assunta come domestica dai Gioffré–Napoli perché è una ragazza madre. Un’altra giovane è molto chiacchierata perché troppo “moderna” e la stessa Tina viene rimproverata dalla madre quando prova il rossetto: «Cosa direbbe tuo padre se ti vedesse?». Quel padre lontano ma presente, in posa nella foto incorniciata e tenuta accanto a quella del presidente statunitense Franklyn Delano Roosvelt, che precauzionalmente finirà in fondo al baule della biancheria negli anni del secondo conflitto mondiale.
I ricordi più dolorosi sono legati alla guerra, il cui andamento Tina e la mamma seguono alla radio. Alcuni eufemiesi ospitano gli sfollati dei paesi vicini colpiti dai bombardamenti e, quando fa buio, scatta l’ordine di oscurare le finestre con i vestiti del lutto, per non dare punti di riferimento all’aviazione alleata. La popolazione si rifugia nella galleria o in tunnel scavati sui costoni della montagna. La prima volta Tina avverte un forte senso di claustrofobia, stringe forte la mano della mamma, non riesce a dormire.
Ma poi la guerra finisce e si può tirare un sospiro di sollievo. Non avendo altro, la popolazione festante regala ai liberatori frutta di stagione, ma ci sono anche strascichi negativi. Le armi abbandonate dai tedeschi in fuga finiscono nelle mani sbagliate e delinquenti terrorizzano il paese con furti, richieste di soldi e soprusi. Bruno torna traumatizzato dai campi di prigionia in Germania, pronuncia parole senza senso e ripete ossessivamente nome, numero di matricola, plotone di appartenenza. A Cosimo, compagno di giochi di Tina, un ordigno trovato nei campi dell’Aspromonte strappa un braccio.
I ricordi di Tina sono stati messi nero su bianco, in lingua inglese, per una diffusione “familiare”. Eppure, nonostante qualche inesattezza storica e l’inevitabile ripetitività di alcuni passaggi, il libro ha il pregio di ricostruire con dovizia di particolari un periodo storico importante anche per la piccola comunità eufemiese.
La storia, quella grande così come quella piccola, risulta di difficile comprensione se non si segue la raccomandazione storicistica dell’autrice: non si può giudicare ciò che è stato utilizzando i valori di oggi; non si può guardare al passato indossando gli occhiali del presente.

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Ci sputassi vossia

«Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande» dichiarò Leonardo Sciascia a proposito di Occhio di capra. Pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1984 e ristampato nel 1990 da Adelphi con l’aggiunta di alcune voci, il libro riprende l’almanacco di voci e modi di dire edito da Sellerio nel 1982 con il titolo Kermesse, a sua volta ispirato al dizionario di vocaboli e locuzioni dialettali che aveva impreziosito il volume fotografico I Siciliani, del grande fotografo bagherese Ferdinando Scianna (Einaudi, 1977).
Il titolo (in dialetto: “uocchiu di crapa”) fa riferimento ad una antica credenza popolare: se, al tramonto, il sole appare tagliato obliquamente da strisce di nuvole, assumendo così le sembianze della pupilla strabica delle capre, il giorno successivo pioverà: «Occhio di capra: domani piove».
Il saggio è un omaggio a Racalmuto, che Sciascia sentiva di conoscere “anche nei suoi silenzi”. Per il proprio paese natio valgono le parole dedicate da Jorge Luis Borges a Buenos Aires, messe in esergo dallo scrittore siciliano: «Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato».
Per spiegare l’etimologia e il significato di termini e frasi tratti dalla tradizione orale, Sciascia fa ricorso ad aneddoti utili per preservare, oltre alla memoria delle parole, anche quella di storie minime, ma singolari e paradigmatiche di epoche e luoghi.
Tra i lemmi, uno riporta un episodio risalente al Ventennio, quando il regime fascista organizzò due plebisciti-farsa (nel 1929 e nel 1934) in luogo dell’elezione della Camera dei deputati (il Senato era di nomina regia), l’ultima tenuta nel 1924 con la famigerata legge “Acerbo”. Con i plebisciti, successivi allo scioglimento di tutti i partiti politici ad eccezione del partito nazionale fascista (1926), l’elettore aveva la possibilità di approvare o respingere il “listone” del Pnf. Facoltà che, ovviamente, era puramente teorica. Nel 1939 sarebbe caduto anche l’ultimo simulacro di democrazia, con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni – composta non da membri letti, ma tali di diritto – in sostituzione della Camera dei deputati.
Il brano è il seguente:
CI SPUTASSI VOSSIA. Ci sputi lei. Espressione ormai proverbiale, per dire di un’azione che si è costretti a fare anche se teoricamente, formalmente, si ha la libertà di non farla. Fu pronunziata da un certo Salvatore Provenzano, ex guardia regia (corpo di polizia, quello delle regie guardie, istituito da Nitti e sciolto da Mussolini), davanti al seggio in cui si votava il consenso o il dissenso al regime fascista. I componenti del seggio consegnavano al votante la scheda su cui, teoricamente, il votante era libero di scrivere «sì» oppure «no»: ma di fatto le schede venivano consegnate con il «sì» già scritto, per cui al votante altro non restava che leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e imbucarla nell’urna. Accorgendosi dunque Provenzano che già era stato scritto un «sì» dove lui aveva intenzione di scrivere un «no», si rifiutò di toccare la scheda: che la leccasse, chiudesse e imbucasse il presidente del seggio. Naturalmente, fu arrestato: ché sarebbe già stato offensivo dire al presidente di leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e metterla nell’urna; ma dirgli «ci sputi» era dimostrazione di assoluto disprezzo per il regime fascista. (Provenzano è morto una decina d’anni addietro. Era un uomo alto, asciutto, la faccia cotta dal sole. Vestiva sempre con giacca di velluto a coste, pantaloni da cavallante, gambali di cuoio. Viveva del reddito di una sua piccola campagna. Caduto il fascismo, non rivendicò mai il merito di essere stato antifascista).

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Il custode delle parole

Anche nell’Aspromonte c’è stato un tempo in cui, come nella Macondo di Gabriel Garcia Màrquez, “il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. Ogni cosa ebbe poi un nome, ma, più tardi, i nomi furono cancellati e con essi la civiltà che li aveva prodotti, esito funesto del processo di omologazione culturale denunciato da Pier Paolo Pasolini mezzo secolo fa, che spazzò via i dialetti e ridusse “tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività”.
Il nuovo romanzo di Gioacchino Criaco (Il custode delle parole, edito da Feltrinelli) è un libro dalle molteplici suggestioni. Riecheggia il monito di Corrado Alvaro sulla “civiltà che scompare” e sulla quale “non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Criaco non piange, anzi indica la via di una possibile rinascita offrendo al lettore, alla maniera dell’ottico “mercante di luce” di Edgar Lee Masters e Fabrizio De Andrè, le lenti speciali per “rubare il sole” e consentire a chi avrà freddo di riscaldarsi: verbo che, non a caso, nel grecanico ha la stessa etimologia del termine “cuore”.
Il custode delle parole è un poema sull’Aspromonte tutt’altro che incline al compiacimento o al vittimismo. Ci è stato rubato tutto, perché noi per primi ci siamo svenduti e abbiamo rinunciato a tutto. Perché abbiamo fatto la fine degli indiani d’America, fregati “con un po’ di acqua di fuoco e un mucchio di perline colorate”: questa la sorte dei pastori africoti deportati sul mare dopo l’alluvione del 1951 e lì costretti a vivere, rinunciando alla propria identità montanara. Le responsabilità dello scippo vanno equamente divise tra noi e “loro”, i nemici della Calabria. Ci siamo fatti scippare le parole, ma “se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto. E la nostra gente non vive più già da qualche secolo: è morta e non lo sa”.
Passaggio obbligato del riscatto deve essere dunque la riappropriazione di un linguaggio e di una storia millenari, che nel romanzo hanno il volto di Andrìa Amèroto. Il vecchio pastore che sabota le dighe e sa cosa è giusto fare – anche se quel giusto è “troppo difficile da praticare”, perché “qui tutti siamo colpevoli per la legge, retti e loschi” – ha realizzato il suo sogno di libertà tra gli alberi dell’Aspromonte. Ascoltando anche i silenzi, in uno spazio dove nessuno può dirgli cosa deve fare, e vivendo pienamente la propria storia: quella di custode delle parole “per un popolo che le ha perse e vaga, negli anfratti delle nuvole”. Parole che “mette in un piatto e gli apre la pancia con il coltello”.
Cosa fare della propria vita, invece, non lo sa il nipote (Andrìa, come il nonno), lavoratore precario in un call center insieme alla battagliera fidanzata Caterina, nata in Francia da genitori emigrati e ritornata nella Locride. Fino a quando non salva il profugo libico Yidir, il quale diventa aiutante del nonno, che lo tiene clandestinamente con sé. La lenta presa di coscienza consentirà al giovane Andrìa di superare il lacerante conflitto interiore tra restare e partire, che in fondo sono due facce dello stesso coraggio.
Per costruire il futuro, è necessario recuperare il passato nella sua autenticità ed originalità. Si può così scoprire l’inganno non puramente semantico di una montagna lucente che altri hanno decisa aspra e ostile, distorcendone l’etimologia. O che la morte stessa può rappresentare un inizio, poiché i vocaboli morire e volare, nel greco aspromontano, sono quasi identici: “al posto di morire si può dire volare. E chi vola non muore mai”.

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Quando il custode non custodisce

Stamattina l’acqua che scendeva dal rubinetto aveva un poco rassicurante colore marrone. Ho pensato: «Chissà se qualcuno ha già chiamato per segnalare il problema». Che al comune sia arrivata o meno una telefonata, l’inconveniente è durato poco tempo.
Ci sono posti, nella nostra civilissima Italia, dove le cose non funzionano così. L’acqua sgorga costantemente mista a terra, ma farlo presente alle autorità competenti è fatica sprecata. È il caso della casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Molti sono a conoscenza di questa vergogna e, qualche volta, la questione ha guadagnato spazio pure sui giornali. Senza tuttavia produrre alcuna iniziativa eclatante. Nell’indifferenza generale, i detenuti continuano a lavarsi con l’acqua sporca e a cucinare con l’acqua minerale. Da anni e chissà per quanti anni ancora.
Non è vero che il carcere non ci riguarda. Noi cittadini siamo lo Stato. E lo Stato ha il dovere di “custodire” chi finisce dietro le sbarre. Ciò comporta un alto grado di responsabilità, alla quale sfugge chi calpesta la dignità dei detenuti che gli vengono affidati, per un periodo più o meno lungo. Così come non lo adempie ogni volta che un detenuto si toglie la vita: 54 nel 2021, 61 nel 2020, 25 nei primi cinque mesi del 2022. Custodia, per definizione, è l’attività di sorvegliare, avere cura, assistere cose o persone.
Politici, avvocati e la cosiddetta “società civile” dovrebbero incatenarsi ai cancelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere e urlare “da qua non ce ne andiamo fino a quando, là dentro, dai rubinetti non scenderà acqua potabile e trasparente”.
Senza girarci intorno: quella struttura andrebbe chiusa perché non rispetta la dignità umana. Ma è un abbaiare alla luna, se non si riesce a dare voce a chi non ha voce: «Quello che non si sa – scrisse Enzo Tortora (del quale oggi ricorre il trentaquattresimo anniversario della morte) in una delle sue Lettere dal carcere – è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».

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14 maggio 1976: il giorno in cui Sant’Eufemia uscì da un incubo

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Il 14 maggio 1976 segnò per Sant’Eufemia il risveglio da un incubo, condensato nelle lacrime di una donna inginocchiata in mezzo alla strada: «La Madonna ha fatto il miracolo. Il nostro medico è ritornato a casa sano e salvo». Dopo 77 giorni veniva restituito agli affetti familiari e alla comunità eufemiese il medico condotto Giuseppe Chirico (1915-1995), che all’alba era stato rilasciato dai sequestratori lungo la strada provinciale tra i Piani di Carmelia e l’abitato di Delianuova. Alle sette di mattina una folla immensa abbracciò “Don Pepè”, appena sceso dall’auto dei carabinieri che lo aveva riaccompagnato a casa.
Ho scritto di Giuseppe Chirico in diverse occasioni e mi onoro di avere curato il testo del documentario realizzato nel 2001 dalla Pro Loco eufemiese, per l’assegnazione “alla memoria” del Premio Solidarietà “Ginestra”. Don Pepè è tra le personalità più amate nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Per l’umiltà, l’umanità e il senso del dovere: qualità proprie di chi fa della professione una missione al servizio della collettività.
È stato pertanto per me naturale riservare a Chirico un paragrafo del libro Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, integrando il materiale documentario già in mio possesso con i servizi giornalistici realizzati per la Gazzetta del Sud da Giuseppe Toscano e Luigi Malafarina (che lo intervistò “a caldo”, subito dopo il rilascio), ma soprattutto raccogliendo l’inedita testimonianza del figlio Gaetano sui tragici giorni del sequestro e sul rapporto d’amore del padre con i suoi concittadini: «Mi portava spesso da piccolo con sé alle visite a domicilio con la sua mitica Fiat 500 bianca. Lì mi accorgevo dell’affetto e del calore di cui veniva circondato dai suoi pazienti e dai familiari, affetto da lui ricambiato».
Proprio per questo, il rapimento provocò uno shock collettivo. Un tradimento, una intollerabile vigliaccata contro un uomo e un professionista esemplare che non conosceva orari di lavoro, “reperibile” giorno e notte, come ricorda il suo amico professore Giuseppe Calarco nel documentario: «Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere». E infatti, quando la banda dei sequestratori entrò in azione (intorno alle ore 21 del 27 febbraio), Don Pepè stava effettuando il consueto giro serale, con in tasca qualche caramella da offrire ai bambini da visitare a domicilio.
«Guardate come hanno ridotto il nostro medico», urlò un’altra donna vedendo Don Pepè con la barba lunga e incerto nei passi, a causa dei due mesi e mezzo trascorsi per lo più bendato e legato ad una catena. Un’immagine che ancora oggi commuove, al pari dell’intervento del professore Luigi Crea in occasione del conferimento al dottore Chirico del “Premio Sant’Ambrogio” (dicembre 1990): «Sono tanti quelli di cui Lei ha ascoltato il primo vagito e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli a cui Lei ha donato la salute del corpo, contribuendo così anche a rendere l’animo più sereno e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli che hanno aspettato con ansia il Suo arrivo nella loro casa, sentendosi confortati dalla Sua sola presenza, e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli che, in momento di difficoltà materiale e spirituale, si sono rivolti a Lei sicuri di essere ascoltati e capiti e che adesso La ringraziano; sono stati tanti quelli che, prima di chiudere gli occhi alla vita terrena, L’hanno ringraziata, rasserenati dall’amorosa e quasi paterna Sua presenza al loro capezzale. Sembra quasi che anche le case, le strade, gli angoli dei rioni, abituati da sempre a vedere la Sua figura girare instancabilmente in ogni momento del giorno e della notte, vogliano unirsi a noi in questo momento per esprimere il loro grazie. […] Non possiamo però prima non chiederle scusa se in questi cinquant’anni, a volte, non Le abbiamo usato il rispetto che Lei meritava. Soprattutto vogliamo chiederLe scusa per quei vergognosi settantasette giorni che tutti noi cittadini non abbiamo saputo evitarLe. Nei momenti di riflessione e di ricordi, quando persone, avvenimenti Le scorreranno davanti agli occhi, facendoLe rivivere la Sua vita passata, non si fermi, Dottore, su quei tristi giorni, quanto piuttosto sulla gioia che invase tutto il paese per il suo ritorno a casa».

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