Cavalli otto, uomini quaranta

Riuscire a fare convivere i registri di diversi generi artistici non è impresa da poco, come testimoniano alcune discutibili rivisitazioni cinematografiche di celebri romanzi. La bontà di tale operazione dipende dalla sensibilità e dal talento dell’artista, sia quando si sceglie la strada della fedeltà stilistica e concettuale, sia quando si predilige la libera interpretazione, si tratti di film, adattamenti teatrali o musicali. Un esempio classico è il concept album di Fabrizio De Andrè Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971), elaborazione su note dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (nella traduzione di Fernanda Pivano), a ragione considerato tra gli esiti più alti di “contaminazione” e dimostrazione di come musica e letteratura possano fondersi senza perdere bellezza, forza, profondità. E molto devono al cantautore genovese i Mercanti di Liquore, band brianzola “attualmente non in attività”, a partire dal nome, ispirato alla storia del “suonatore Jones” (La collina: “sembra di sentirlo ancora/ dire al mercante di liquore:/ ‹‹Tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?››”), la cui collaborazione artistica con Marco Paolini, esponente di punta del “teatro civile” ed espressione artistica tra le più interessanti e feconde del panorama culturale italiano, è proficua e unanimemente apprezzata (dall’album Sputi, allo spettacolo teatrale Miserabili – Io e Margaret Thatcher). Il teatro di Paolini è “orazione civile” che incalza, cattura e trascina lo spettatore dentro il racconto: Gli album; Il racconto del Vajont; Il sergente; Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, alcuni degli spettacoli più riusciti e premiati dal pubblico e dalla critica.

Il sergente mette in scena un classico della letteratura italiana, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, scritto da Mario Rigoni Stern ed edito da Einaudi nel 1953, il cui incipit è tra i più celebri della letteratura italiana: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno”.

La vicenda è quella vissuta dallo stesso autore nel corso della seconda guerra mondiale. Ed è la storia della disfatta dell’Armir, travolta dall’offensiva sovietica sul Don e costretta a ritirarsi rovinosamente e ad abbandonare nella steppa gelata mezzi militari e soldati destinati a morire o a subire l’amputazione degli arti congelati. L’inverno russo non perdona, soprattutto chi, per usare le stesse parole di Paolini, intende “giocare a calcio con un pallone da rugby”. D’altronde, l’impreparazione dell’esercito italiano è storicamente documentata: divise non adatte ai rigori siberiani, “scarpe di cartone”, fucili modello ’91 (dall’anno di produzione, il 1891).

La canzone interpretata da Paolini e dai Mercanti di Liquore (testo di La tradotta, da Filastrocche in cielo e in terra, di Gianni Rodari, e estratto del libro di Rigoni Stern) riassume il significato intimo della testimonianza dello scrittore di Asiago. L’ossessività del ritornello (“cavalli otto, uomini quaranta”) ricorda come la guerra sia, in definitiva, Risiko e fredda contabilità che non distingue tra uomini e bestie, se non per la capienza dei vagoni merci: otto, in caso di cavalli; quaranta, se “carne da cannone” come Giuanin, che ripete come un mantra, in forma interrogativa, la speranza (disattesa) di tornare a casa sano e salvo: “Sergentmagiù, ghe riverem a baita?”.

Il sergente nella neve è un libro sull’uomo. La guerra e i suoi orrori restano sullo sfondo, coro greco di una tragedia che resta universale e che, tuttavia, consente all’uomo di trovare dentro di sé la via del riscatto e della salvezza. Un messaggio di speranza, sublimato nell’episodio centrale del libro, l’incontro tra l’alpino e i soldati dell’Armata Rossa all’interno di un’isba, attorno a una pentola fumante, mentre fuori infuria la battaglia di Nikolajewka.

*Nel video, Paolini colloca l’episodio nel mese di febbraio, ma, in realtà, la battaglia di Nikolajewka è stata combattuta il 26 gennaio 1943.

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Qualche considerazione a margine della presentazione del libro “La lingua dell’altro”, di Francesco Idotta

Non posso recensire il libro di Francesco Idotta, La lingua dell’altro (sottotitolo: Il problema del dialetto nell’apprendimento scolastico. Uno sguardo didattico-filosofico, edito da Città del Sole), che ancora non ho letto. Intendo però commentare la presentazione del volume curata dall’Associazione culturale “Terzo millennio” presso la scuola media statale “Vittorio Visalli”, perché ritengo che debba essere data più risonanza possibile alle manifestazioni fatte bene e perché sono convinto che i singoli e le associazioni, impegnati ad elevare il livello culturale della nostra cittadina, vadano sostenuti e incoraggiati a percorrere una strada parecchio accidentata. Chi fa parte di una qualsiasi associazione conosce le difficoltà che si incontrano quotidianamente: il tempo da sottrarre alla propria famiglia; la “crisi delle vocazioni” che, dopo il boom registrato a cavallo del nuovo millennio, ha visto sensibilmente calare il numero dei volontari; la penuria delle casse, alla quale, in un periodo di crisi economica e di sempre minori contribuiti pubblici al settore, si cerca di ovviare con l’autotassazione.

Ci si accorge dell’importanza delle cose e delle persone quando esse vengono meno. Che Sant’Eufemia avremmo senza la recita organizzata dal Terzo Millennio, senza la sagra della patata della Proloco, senza la colonia per i disabili dell’Agape, senza il défilé dell’associazione dei sarti? Cito quelle che, a mio avviso, sono tra le iniziative più riuscite, senza volere sminuire le altre, né dimenticare chi, anche al di fuori delle associazioni, svolge un’opera meritoria di promozione del territorio e di pedagogia civile. Ecco perché vedere, in un sabato di primavera, gente in piedi perché le poltrone del teatro erano tutte occupate, rigenera e induce all’ottimismo. Sì, c’è molta passività in giro, tanti trovano sempre qualcosa di meglio da fare. Però, se si pizzica la corda giusta, la comunità dà risposte positive. È evidente che Sant’Eufemia ha fame di cultura. Tutte le presentazioni di libri e i convegni storici o letterari svolti nell’ultimo quinquennio hanno sempre avuto un grande successo di critica e di partecipazione.

Il libro di Idotta tocca un argomento molto sentito. Senza pretendere di salire in cattedra per dire ai colleghi docenti come comportarsi, l’autore si sofferma sul linguaggio “dell’altro”, degli stranieri e dei bambini dialettofoni. Un problema che Idotta conosce bene per averlo affrontato nel corso di un decennio di scuola primaria, sperimentando metodi di insegnamento che hanno avuto riscontri incoraggianti. Una questione che è didattica, ma che rientra nella discussione più ampia sull’integrazione come approdo necessario per risolvere positivamente il dibattito sulla diversità delle culture che si incontrano (e si scontrano) in un Mediterraneo restituito all’antica centralità.

Prima delle conclusioni dell’autore, Rossella Morabito ha catturato l’attenzione del pubblico con una relazione brillante e autorevole, centrata sul tema e ricca di suggestioni letterarie, riferimenti qualificati e rimandi ad ulteriori approfondimenti. A dare “colore” all’iniziativa, la lettura di alcuni brani del libro (Martina Napoli, Enza Saccà, Iole Luppino), la rappresentazione “alla Terzo Millennio” di una poesia dialettale (Enzo Fedele, Paolo Occhiuto, Eurema Pentimalli) e due arie della “Cavalleria Rusticana”, eseguite dal soprano Giuseppina Violani e dal tenore Francesco Tripodi. In chiusura, la serie di interventi del pubblico ha attestato la legittimità della soddisfazione espressa dal presidente Francesco Luppino (“anche questa volta, ci abbiamo azzeccato”).

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Autopsia di un falso

Che il fascismo sia un prodotto commerciale capace ancora di “tirare”, è fuori di dubbio. Basti considerare il florido mercato di calendari e gadget dedicati al Ventennio. La simpatia per il duce attraversa come un fiume carsico la storia repubblicana italiana, riaffiorando ora sotto forma di proposta (sic) politica: nonostante il divieto di ricostituzione del partito fascista e il reato di apologia del fascismo, alcune manifestazioni, più o meno folcloristiche, sono eloquenti; ora come nostalgico e malinteso senso di orgoglio nazionale (“quando c’era lui”). Contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia liberale, sono convinto che il fascismo non costituisca una “parentesi” nel corso della storia italiana (il che avrebbe dovuto comportare, dopo la sua caduta, la naturale conseguenza di un ritorno all’Italia liberale). Il movimento fondato da Benito Mussolini appartiene in toto alla biografia italiana, è la conseguenza della presenza, per tutto il sessantennio post-unitario, di “germi patogeni” nella società e nelle istituzioni (teoria a cavallo tra quella liberale e quella ispirata al determinismo marxista, che ebbe fortuna negli ambienti azionisti). Non è azzardato ipotizzare che senza il 10 giugno 1940 e il disastroso esito del conflitto mondiale, il duce avrebbe probabilmente finito i suoi giorni nel proprio letto (come Francisco Franco in Spagna). La storia insegna che l’Italia è un Paese che periodicamente si lascia affascinare da uomini della Provvidenza ai quali affida acriticamente il destino della Nazione.
Non credo sia casuale l’ondata revisionista degli ultimi venti anni, tesa a presentare un dittatore dal volto “umano”, un pacifista vittima dell’alleanza “obbligata” con Hitler, amico degli ebrei e dotato di una sensibilità che gli consentiva, al massimo, di mandare gli oppositori politici “in villeggiatura al confino”.
L’operazione editoriale portata a termine da Elisabetta Sgarbi e Marcello Dell’Utri per conto della Bompiani va collocata in questo clima culturale. Pubblicare i “Diari” di Mussolini negli anni compresi tra il 1935 e il 1939, non può avere altre giustificazioni, se non quelle nostalgico-commerciale e revisionista. Perché i diari sono apocrifi, talmente falsi che lo stesso editore ha dovuto cautelativamente titolare l’opera I Diari di Mussolini [veri o presunti]. Il primo volume (1939), pubblicato nel 2010, è stato già smontato dallo storico Mimmo Franzinelli, il quale ha svelato la “bufala colossale” in Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri, 2011). Un’indagine rigorosa e certosina che stabilisce chi ha scritto materialmente i diari e dimostra in che modo essi sono pervenuti nelle mani del senatore Dell’Utri. Una storia giudiziaria nota e terminata nel 1962 con la condanna per truffa e falso delle due autrici (le vercellesi Rosetta e Mimì Panvini, mamma e figlia), dopo il bidone rifilato ad Arnaldo Mondadori. Da allora, le famose cinque agende della Croce Rossa sono state periodicamente proposte a editori italiani e europei, inutilmente, sino alla “scoperta” fatta da Dell’Utri in Svizzera.
Gli errori e le incongruenze storiche, puntualmente evidenziati da Franzinelli, si contano a iosa. I più eclatanti: alcuni eventi posticipati di ventiquattro ore, a dimostrazione che spesso la fonte è il resoconto pubblicato da qualche quotidiano il giorno successivo all’effettivo svolgimento dei fatti; i carri armati tedeschi “Tigre” citati con tre anni d’anticipo rispetto alla loro effettiva comparsa (1942); la data del compleanno del duce sbagliata; l’assenza dalle carte di alcuni personaggi del regime di primo piano (quelli che, evidentemente, all’epoca dell’estensione dei diari, non avevano ancora pubblicato memorie scritte). Franzinelli dimostra che il diario del 1939 è stato “costruito” utilizzando come fonti i giornali d’epoca, gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini, pubblicati da Hoepli, il Diario di Galeazzo Ciano. Agli strafalcioni sintattici e agli anacronismi si aggiungono altre prove: l’analisi chimica dell’inchiostro, “incompatibile con quello in commercio prima della seconda guerra mondiale” (perizia del 1989); la perizia calligrafica del 1993 che ne dichiara “l’inattendibilità”; la scrittura troppo ordinata e lineare, come di chi stia copiando un testo; l’agenda stessa, che non è un’agenda “originale” della Croce Rossa.
La giustificazione dei fautori dell’autenticità degli scritti è indimostrabile. Sarebbero stati sì copiati, ma dagli originali. Quel che è certo, anche lo storico americano Brian Sullivan, per quasi trent’anni sostenitore della tesi dell’autenticità “postuma” del diario del 1939 (sarebbe stato cioè scritto negli anni della Repubblica di Salò per essere eventualmente utilizzato come memoria difensiva nel caso di un processo da parte degli Alleati), di fronte alle argomentazioni di Franzinelli ha cambiato opinione, allineandosi così con quanto sostenuto da tempo da tutti gli storici italiani.
Rimane l’irritazione per il degrado di alcuni settori della cultura italiana, disposti ad avallare un clamoroso tentativo di falsificazione della storia, un caso editoriale che diventa “anche” questione politica. La pubblicità ingannevole su LIBERO, che aveva anticipato l’uscita in fascicoli dei diari, promuovendoli con lo slogan “la storia scritta di suo pugno” o la recensione su IL GIORNALE (“ognuno potrà farsi un’idea, più o meno approfondita a seconda dei propri interessi, della autenticità delle carte”), si inseriscono nel solco della cronaca attuale, quella in cui fiction e realtà si mischiano al punto che risulta difficile separare il grano dal loglio.
La storia è però una cosa seria. Il libro di Franzinelli raccoglie la lezione che lo storico francese Marc Bloch, giustiziato dai nazisti nel 1944, ha scolpito in Apologia della storia (o mestiere di storico), laddove sostiene che compito dello storico è “difendere la storia dai suoi negatori, vecchi e nuovi”, attraverso la ricerca dell’impostore che si nasconde dietro l’impostura.

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Casta calabra

L’aveva detto in tempi non sospetti: “Ci rivedremo presto. E sempre con la schiena dritta”. Era la chiusura dell’editoriale sofferto, ma orgoglioso, con il quale Paolo Pollichieni, il 20 luglio 2010, annunciava le dimissioni da direttore di CALABRIA ORA, il quotidiano che aveva guidato per più di tre anni. In tanti tirarono un sospiro di sollievo. “Chissà cosa uscirà stamattina” era diventato l’incubo ricorrente per gli amici degli amici, per i compari dei compari, per tutta quella gente dotata della dose di pelo sullo stomaco indispensabile per coltivare amicizie “pericolose” e per essere “qualcuno” in Calabria. I rapporti tra politica e ’ndrangheta sono stati spesso al centro delle inchieste portate avanti da Pollichieni e dai suoi collaboratori, una pattuglia giovane, agguerrita, coraggiosa, che non ha esitato a seguire l’esempio del direttore di fronte alle pressioni della proprietà del giornale.
Casta Calabra (sottotitolo: La politica? Sempre meglio che lavorare…), edito da Falco (Cosenza, dicembre 2011), è lo sbocco naturale di vicende personali e professionali vissute in prima linea. La sistemazione organica del discorso interrotto bruscamente quell’estate e ripreso un anno dopo, dalle colonne del CORRIERE DELLA CALABRIA, settimanale di inchieste e approfondimenti che ogni venerdì provoca parecchi bruciori di stomaco a Palazzo Campanella e a Palazzo Alemanni.
“C’è di tutto nel libro. Per cominciare, la denuncia del degrado culturale”, il giudizio del giornalista del CORRIERE DELLA SERA Gian Antonio Stella, al quale va il merito (da dividere con il collega Sergio Rizzo) di avere per primo scoperchiato il malcostume della classe politica italiana con La casta, exploit editoriale datato 2007, che ha aperto la strada ad un filone giornalistico di successo.
Pollichieni, Eugenio Furia, Giampaolo Latella, Pablo Petrasso e Antonio Ricchio accompagnano i lettori girone dopo girone, in un abisso popolato da politici e politicanti, faccendieri, mafia e antimafia, massondrangheta e borghesia mafiosa, quella “zona grigia” già definita dal direttore del CORRIERE DELLA CALABRIA “il vero capitale sociale della ’ndrangheta”. E che è diventata classe dirigente in una realtà dominata dal “familismo amorale”, modello di comportamento sociale fondato sul perseguimento dell’interesse “familiare” a scapito del bene della collettività. Nella notte della politica calabrese, le differenze tra gli schieramenti sono impercettibili. Anche perché la cronaca è un inciucio continuo, sublimato nella legge sul “concorsone” (2001), ma riscontrabile in un modus operandi che non distingue tra gli schieramenti politici. Leggi sul taglio dei costi della politica che si rivelano fonti di ulteriori sprechi. Consulenze inutili e incarichi esterni assegnati a politici trombati alle elezioni, tra gli sbadigli annoiati del personale interno. Carrozzoni come l’Afor e l’Arssa, aboliti per legge da cinque anni, che continuano ad assumere personale. Società partecipate perennemente in rosso: emblematico il caso della Sogas, la società che gestisce l’Aeroporto dello Stretto e che dalla data della sua costituzione (1986) non ha mai chiuso un bilancio in attivo. Nelle pagine di Casta calabra sfilano politici e burocrati, con il relativo codazzo di parenti attaccati alla mammella pubblica, tutti accomunati dal longanesiano “tengo famiglia”. Tutti sorridenti dietro al vip di turno portato a sfilare sul corso Garibaldi per promuovere l’immagine di Reggio, mentre nelle periferie manca l’acqua e le buche nelle strade sono voragini. Il tanto sbandierato “modello Reggio”, assurto prima a modello da esportare a livello regionale, quindi declassato a “modello peggio”: scandali, debiti, misteri, il suicidio di Orsola Fallara, la nomina prefettizia della commissione d’accesso antimafia. E nuvoloni neri all’orizzonte.

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La Giornata della Memoria

La memoria è un dovere e il modo migliore per commemorare l’Olocausto è affidarsi alle parole di chi c’era.
Perché non accada mai più.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.

[Primo Levi, Se questo è un uomo, p. 23]

Di seguito, la testimonianza di Primo Levi raccolta da Enzo Biagi e riproposta ne Il Fatto, trasmissione di successo andata in onda sulla Rai dal 1995 al 2002, quando fu soppressa dall’“editto bulgaro”.

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Cultura, qualche proposta per i prossimi amministratori

Dopo la recensione al libro di Vittorio Visalli sui fatti d’Aspromonte, mi è stato chiesto dove sia possibile reperire l’opera dello storico eufemiese. Posso dire dove l’acquistai io. Al centro commerciale “La Perla” di Villa San Giovanni, quattro anni fa. Si trovava dentro un grande cesto di libri economici, lo notai per caso e fui attratto dal nome dell’autore. Del libro, non conoscevo l’esistenza. Ad essere sincero, neanche della casa editrice. Che nel frattempo ha cambiato denominazione e sede. Ora si chiama “Nuove edizioni Barbaro”, si trova a Delianuova ed è gestita da Caterina Di Pietro e Raffaele Leuzzi. Sul catalogo online, Aspromonte risulta esaurito, ma con un colpo di fortuna se ne potrebbe trovare copia in qualche libreria o edicola della provincia.
Visalli non è l’unico autore del quale la stragrande maggioranza dei suoi compaesani ignora le opere e financo l’esistenza. Ecco perché occorrerebbe un’operazione di recupero della memoria e della tradizione storico-culturale eufemiese. Personalmente, qualche volta ne ho parlato. Anche pubblicamente, come in occasione del convegno sul centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia organizzato dall’associazione “Terzo Millennio”. Così come ho più volte espresso un mio desiderio particolare, il rilancio del periodico “Incontri”, edito per tre lustri dall’associazione culturale “Sant’Ambrogio”. L’apprezzamento ricevuto non ha però finora prodotto iniziative concrete. La questione delle risorse economiche sembra insormontabile. Eppure non credo – tanto per fare un esempio – che la realizzazione di un’antologia eufemiese richieda una spesa insostenibile. Nella biblioteca comunale si trovano libri scritti da eufemiesi (non tanti, per la verità); altri sono facilmente consultabili presso la biblioteca “Topa” di Palmi; altri ancora sono in possesso di privati cittadini. La raccolta degli scritti più significativi di questi autori riporterebbe alla luce un patrimonio che molti ignorano e potrebbe inoltre rivelarsi un’operazione dall’alto contenuto sociale. Il rafforzamento delle ragioni stesse dello stare insieme di questa comunità.
Senza l’aiuto e la collaborazione di coloro che hanno a cuore le sorti di Sant’Eufemia, diventa però tutto più complicato. In primavera ci sarà il rinnovo del consiglio comunale. Non sarebbe male se nei programmi che verranno presentati agli elettori si parlasse anche di cultura. Negli scantinati del palazzo municipale c’è tutta la storia del comune, in documenti privi di alcuna catalogazione, non consultabili, esposti all’umidità e alla polvere. L’istituzione dell’archivio storico comunale potrebbe essere un punto qualificante per la futura amministrazione municipale.

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Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli

Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, è conosciuto principalmente per le opere I calabresi nel Risorgimento italiano e Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848). Meno noto è invece il lavoro dedicato al ferimento di Giuseppe Garibaldi sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862. Aspromonte, stampato per i “Tipi F. Nicastro” a Messina (1907), è un agile libretto di 74 pagine, suddiviso in nove capitoletti e un’appendice documentaria, che ripercorre il tentativo dell’Eroe dei Due Mondi di marciare su Roma per porre fine al potere temporale dei Papi e consegnare all’Italia la capitale naturale, interrotto tra i pini della località “Forestali” dalle truppe piemontesi del colonnello Emilio Pallavicini.
La particolare circostanza in cui il libro vide la luce induce al sospetto sulla sua reale diffusione e, di conseguenza, notorietà anche tra gli addetti ai lavori. “Una semplice e veritiera narrazione popolare del tentativo garibaldino su Roma” per “aiutare un’opera di alta beneficienza, la costruzione di un Sanatorio per tubercolosi” nel luogo del ferimento: così Visalli presenta il volume. Che non deve avere avuto molta fortuna, se non viene citato neppure dal massimo storico reggino, Gaetano Cingari, a differenza delle altre due pubblicazioni. A recuperare il volume dall’oblio ha però provveduto, nel 1995, l’editore Barbaro di Oppido Mamertina, che ne ha curato la ristampa anastatica. I piccoli editori sono perennemente con l’acqua alla gola, pronti a chiudere da un momento all’altro, né hanno la possibilità di sostenere un elevato battage pubblicitario. Più appassionati di storia e di storie che imprenditori, cercano l’equilibrio tra la quadratura dei conti e l’offerta di un prodotto apprezzabile. Nel caso di Aspromonte, è stata compiuta un’operazione di recupero del patrimonio culturale locale davvero encomiabile.
L’autore segue passo dopo passo Garibaldi e i suoi volontari nella sfortunata impresa, che inizia – è noto – con il consueto giallo all’italiana. C’era, come due anni prima (spedizione dei Mille), un tacito accordo tra il Generale e il governo piemontese? Di certo, nessuno dei protagonisti fece molto per fugare l’ambiguità. Visalli condanna senza appello la “pusillanimità” del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, ma dà anche conto dei tentativi bonari di arrestare la marcia delle camicie rosse, portati avanti da deputati della Sinistra parlamentare, amici e commilitoni di Garibaldi (Nicola Fabrizi, Antonio Mordini, Salvatore Calvino, Giovanni Cadolini). Per la ricostruzione degli avvenimenti, lo storico eufemiese non solo si affida a diverse fonti (biografie e autobiografiche, orali, documentarie), ma le mette anche a confronto, operando un controllo incrociato necessario per distinguere l’agiografia e la retorica risorgimentale dalla verità storica. Viene così sconfessata la tesi di Alberto Mario sul presunto tradimento del sindaco di Melito, accusato ingiustamente di avere indotto Garibaldi a dirigersi sull’Aspromonte perché lì attendevano “patriotti in arme fremebondi e vettovaglia copiosa”. Un falso smentito peraltro dallo stesso Garibaldi, quando ammette di avere egli peccato di “irresoluzione”.
Francesco Guardione, Giulio Adamoli, Piero Mattigana, Giuseppe Guerzoni, Francesco Bideschini, Giacomo Durando, Jessie White Mario, Francesco Bertolini, Celestino Bianchi, Enrico Albanese, Salvatore Calvino, Giuseppe Romano Catania, Alberto Mario: testimoni che hanno tramandato nelle rispettive memorie l’epopea garibaldina (non solo i fatti d’Aspromonte), essendone stati protagonisti diretti. E poi lettere e documenti ufficiali, riportati in appendice, ma anche testimonianze orali, come quella di Francesco Melari, ufficiale medico garibaldino. Il libro si chiude con la caduta del gabinetto Rattazzi e l’amnistia concessa da Vittorio Emanuele II in occasione delle nozze tra la principessa Maria Pia e Luigi I di Braganza, re del Portogallo. Sullo sfondo, un Garibaldi eroe romantico, al quale va la simpatia dell’autore, che si sta ristabilendo dalla ferita e, seppure sconfitto, “riconsacra nel sangue” l’ineluttabilità e “la necessità di Roma italiana”.

Le spoglie di Visalli riposano al cimitero di Gioia Tauro. Sul marmo, l’epigrafe scritta dal fratello Luigi: “Qui fra i suoi riposa/ Vittorio Visalli/ figlio e nepote di Patriotti/ educatore degli educatori/ di varie generazioni/ che il glorioso passato/ di fede di azione e di martirio/ del popolo calabrese/ sottrasse a le ombre dell’oblio/ affidandolo a luce dei secoli MDCCCLIX–MCMXXXI”.

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Trentasei anni senza P.P.P.

Sono arrivato a Pier Paolo Pasolini da solo. O quasi. Ai tempi del liceo, lo sfiorai tra la prima e la seconda classe, quando la professoressa di lettere ci assegnò alcuni libri da leggere durante le vacanze estive. Conobbi così Pasolini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi e qualcun altro autore del Novecento. Le fortune dei ragazzi passano spesso dagli insegnanti che incontrano lungo il cammino scolastico. A me è andata bene. Nel biennio, un rapporto splendido, anche sotto il profilo umano, con la professoressa Paino; nel triennio, quello decisivo per la mia formazione con il professore Monterosso (storia e filosofia). In quinta, però, studiammo poco o niente gli autori del Novecento. Di sicuro, non li leggemmo. E anche se il professore di lettere avesse avuto questa intenzione, non credo che ci avrebbe fatto leggere Pasolini. Troppo distante dal suo mondo.
Per vie traverse ci sono però arrivato ugualmente. Mi capita spesso di leggere qualcosa che rimanda ad altri autori. E così è stato. Mi sono “imbattuto” nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci e così ho prima approfondito il poeta, quindi sono passato alla lucidità del pensiero degli Scritti corsari, all’intellettuale scomodo, scandaloso e affascinante per chi si rifiuta di sottostare alle logiche e ai valori propagandati dal consumismo e dall’edonismo dominanti. Nessuno meglio di Pasolini ha saputo leggere i cambiamenti della società italiana nel secondo dopoguerra. Nessuno è stato così profetico e coraggioso nel mettere in guardia, con quarant’anni d’anticipo, dal baratro verso il quale l’umanità stava (e sta) precipitando. Le denunce contro il Palazzo, il ruolo e la funzione della televisione in una società di massa, l’omologazione culturale, la trasformazione antropologica della società sono temi drammaticamente attuali.
Domani ricorre il trentaseiesimo anniversario dell’assassinio di Pasolini. Una vicenda che presenta ancora molti lati oscuri. L’ennesimo mistero della storia d’Italia. Nella sua appassionata orazione funebre, Alberto Moravia pronunciò parole forti e condivisibili: “abbiamo perso prima di tutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta: il poeta dovrebbe essere sacro!”.

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11.9, scacco agli Stati Uniti

“Fuori sta succedendo la fine del mondo e tu sei chiuso dentro un archivio? Sei il solito topo da biblioteca!”. Le parole di mio fratello Mario, quando da poco anche la seconda delle Torri gemelle era stata centrata da un aereo, sono il mio primo ricordo dell’11 settembre 2001, il giorno che segna l’inizio del terzo millennio. Mi telefonava dall’Australia, dove si trovava in quel periodo. Io invece ero ignaro di tutto, piegato su alcuni documenti che stavo consultando all’archivio di Stato di Catanzaro, per la tesi di dottorato.
Ho ancora ben viva la sensazione di sconcerto e di smarrimento che mi assalì mentre attonito percorrevo in auto la strada del rientro a casa e ascoltavo gli aggiornamenti della lunga no-stop radiofonica. Proprio due giorni prima ero rimasto molto scosso per l’uccisione, ad opera di due kamikaze travestiti da giornalisti, di Ahmad Shah Massud, il leggendario “leone del Panshir” – eroe della resistenza afgana contro l’invasore sovietico negli anni ’80, poi ministro del governo di liberazione, quindi strenuo oppositore della deriva fondamentalista impressa dai talebani – che la penna di Ettore Mo aveva reso affascinante e romantico, un moderno Che Guevara.
Una volta acceso il televisore vidi anch’io l’orrore materializzarsi nelle immagini ben note dell’apocalisse. Le Twin Towers colpite dai due aerei dirottati che si afflosciavano una dopo l’altra, come in un macabro videogioco. Alcuni disperati che si lanciavano nel vuoto. Le fiamme, la polvere sui visi dei newyorkesi in fuga dal World Trade Center, la scritta sulla CNN (USA under attack!), l’eroismo dei pompieri mentre tutto attorno stava crollando, le prime angosciate testimonianze. E poi lo “sceicco del terrore” Osama bin Laden, Al Qaeda e i 19 terroristi islamici. Gli altri due aerei dirottati, il primo abbattutosi contro un lato del Pentagono, l’altro diretto contro la Casa Bianca e precipitato in una campagna della Pennsylvania grazie all’eroica lotta dei passeggeri contro i dirottatori. Immaginavo George Bush jr in volo sull’Air Force One, l’aereo progettato per salvaguardare l’incolumità del presidente nelle situazioni di emergenza. Un paio d’anni dopo, nel film Fahrenheit 9/11, Michael Moore l’avrebbe inchiodato alla sua goffaggine e inadeguatezza, impresse sul volto mentre riceveva all’orecchio la notizia dell’attacco terroristico.
Ho trascorso negli Stati Uniti gennaio e febbraio 2002. Di Ground Zero ricordo soprattutto l’odore acre del metallo liquefatto che si respirava nell’aria, a distanza di sei mesi. Tantissime fotografie attaccate all’inferriata che delimitava l’area, sul marciapiede fiori, lumini, bandierine, peluche, bigliettini. Sulla 5th avenue, un funerale di corpi ricomposti e riconosciuti soltanto allora, il centro di New York paralizzato da un corteo interminabile. Ho capito cos’è il nazionalismo statunitense quando la proprietaria dell’abitazione in cui ho vissuto per due mesi insieme ad altri colleghi ci rimproverò perché avevamo spostato sul retro la bandiera a stelle e strisce e ci intimò di rimetterla nell’ingresso principale.
Quello doveva essere il momento della solidarietà. “Siamo tutti americani” fu infatti il titolo dell’editoriale di Ferruccio de Bortoli sul CORRIERE DELLA SERA il giorno successivo all’attentato, un riadattamento esplicito delle parole rivolte da John Fitzgerald Kennedy agli abitanti di Berlino Ovest nel 1963: “Ich bin ein Berliner”. Ne nacque un dibattito acceso su Occidente, Islam e democrazia, con il richiamo inevitabile allo “scontro di civiltà” teorizzato dal politologo Samuel Huntington. Oriana Fallaci scrisse “di pancia” il furibondo La rabbia e l’orgoglio, un’invettiva piena di livore contro gli italiani (e gli occidentali) codardi e ignavi, indifferenti alla chiamata a raccolta per la Guerra Santa contro l’invasore islamico e ormai rassegnati a vivere in un’Europa diventata “Eurabia”. Sul campo opposto, le Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani, manifesto pacifista che individuava nella non-violenza l’unica via d’uscita possibile dall’odio. Una posizione impopolare al cospetto di quasi 3.000 vittime, ma anche una lezione di umanità in mezzo alla barbarie del terrorismo, della guerra e della comoda scorciatoia che la violenza rappresenta. Sempre e comunque.

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Il vocabolario “femijotu” di Giuseppe Pentimalli

Si è tenuta ieri, presso la sala consiliare del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del Vocabolario ragionato del dialetto femijotu, di Giuseppe Pentimalli. Positiva la risposta del pubblico, sia in termini numerici che sotto il profilo dell’interesse e dell’attenzione dimostrati per un’iniziativa partecipata da una confortante percentuale di giovani. In qualità di moderatore, ho svolto un breve intervento iniziale, al quale sono seguiti i saluti del sindaco Vincenzo Saccà, che si è soffermato sulle qualità umane e professionali dell’autore, apprezzate in anni di comune impegno politico e amministrativo. La relazione del professore Filippo Ascrizzi ha messo in rilievo la funzione e il significato di ribellione dell’uso del dialetto nei confronti della cultura dominante, mentre il professore Rosario Monterosso ha sottolineato l’importanza e l’attualità di un vocabolario dialettale nell’epoca di internet e del linguaggio sgrammaticato degli sms. Il glottologo e linguista Paolo Martino, della Lumsa di Roma, ha quindi confermato il valore scientifico e innovativo dell’opera, che “sarebbe più corretto definire dizionario etimologico”. In chiusura, l’appassionato intervento dell’autore: un’accorata difesa della cultura “bassa” nei confronti di una presunta cultura “alta”, tale per definizione, convenzione e imposizione dall’esterno. Quel che segue riproduce, più o meno, il mio intervento.

Ringrazio il professore Pentimalli per avermi coinvolto in un’iniziativa dall’elevato contenuto culturale. Relatori più competenti di me affronteranno gli aspetti tecnici e specialistici del volume. Il mio compito sarà invece quello del vigile. Quello cioè di dirigere il traffico e dare la parola ai relatori che si succederanno, provvedendo a tenere in caldo il microfono tra un intervento e l’altro.
Non essendo io un esperto della materia, credo che il professore Pentimalli abbia voluto la mia presenza per una questione di stima e di affetto, che sono reciproci. D’altronde, negli anni abbiamo avuto spesso modo di confrontarci su alcune questioni e ogni volta che ho pubblicato qualcosa, Pentimalli è stato tra i primi ad averne copia.
Ciò che penso di potere anche io sottolineare, da profano, è la caratteristica principale del vocabolario che, come dice il titolo stesso, è “ragionato”. Ciò ha comportato per l’autore, evidentemente, uno sforzo supplementare: per ogni lemma (quasi 10.000), viene spiegata l’etimologia, ma anche le trasformazioni che esso ha subito nel tempo e nella parlata comune, fino alla versione definitiva. Per questo motivo, consiglio ai fruitori del vocabolario di leggere attentamente la nota introduttiva, laddove sono contenute indicazioni preziose e fondamentali per districarsi in questa complessa materia, e rimandare ad un secondo momento la ricerca dei termini che la curiosità certamente alimenterà. Un’altra peculiarità di rilievo è la corposa Appendice, che non costituisce un riempitivo, bensì il tentativo di rinverdire una tradizione fatta di modi di dire, proverbi, locuzioni e frasi a doppio senso che vogliono contrastare il “lento e progressivo spegnimento dei dialetti” preconizzato da più parti.
Prima di cedere il microfono per il primo intervento, vorrei rubare qualche minuto per dire, fondamentalmente, due cose. La prima, sull’intellettuale “eufemiese” Giuseppe Pentimalli, quarant’anni di insegnamento, trentatré dei quali presso l’Istituto superiore “Nicola Pizi” di Palmi, come docente di latino e greco. Cultore raffinato dei classici latini e greci e della loro interpretazione, come si può apprezzare nella raccolta Le muse discinte (2006), ma anche attento studioso degli aspetti storico-sociali della storia calabrese, che hanno avuto una sistemazione organica nel libro La Calabria antica (2003), riguardante l’arco temporale che va dall’età della pietra al 1060 dopo Cristo.
Cito volutamente per ultimo il saggio La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, contenuto nel volume edito da Rubbettino nel 1997 che raccoglie gli Atti del convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, organizzato dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio nel 1990. E mi accosto a questo lavoro con profondo rispetto, perché ha avuto su di me un’influenza particolare, come spunto e termine di paragone e confronto per il mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Ma c’è ancora un altro aspetto della figura di Pentimalli che va messo in evidenza: l’impegno di un intellettuale calato nella sua realtà e nel suo tempo, protagonista di primo piano negli ambienti culturali eufemiesi, ma non solo, se si pensa agli anni in cui il professore ha avuto responsabilità politiche e amministrative, come sindaco del paese a più riprese (1976-79; 1985-90; 1990-92) e, più in generale, come esponente di punta della sezione locale del partito comunista italiano. In questo quadro d’insieme, va inoltre ricordato il decennio di direzione della rivista “Incontri” (1995-2005), edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio, sulla quale per la prima volta, ai tempi ormai lontani del liceo, io stesso vidi pubblicato il mio primo articolo e della quale, personalmente, avverto parecchio la mancanza.
Questo è per me “Peppino” Pentimalli, uno dei migliori figli della comunità eufemiese. Riporto – vox populi, vox dei – quanto dichiarato da un mio amico quando ha saputo della pubblicazione del vocabolario: “Solo Pentimalli poteva scriverlo”. Io non lo so se poteva scriverlo solo lui. Di certo, però, l’ha fatto e credo tanto basti per tributargli un doveroso ringraziamento.

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