Riuscire a fare convivere i registri di diversi generi artistici non è impresa da poco, come testimoniano alcune discutibili rivisitazioni cinematografiche di celebri romanzi. La bontà di tale operazione dipende dalla sensibilità e dal talento dell’artista, sia quando si sceglie la strada della fedeltà stilistica e concettuale, sia quando si predilige la libera interpretazione, si tratti di film, adattamenti teatrali o musicali. Un esempio classico è il concept album di Fabrizio De Andrè Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971), elaborazione su note dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (nella traduzione di Fernanda Pivano), a ragione considerato tra gli esiti più alti di “contaminazione” e dimostrazione di come musica e letteratura possano fondersi senza perdere bellezza, forza, profondità. E molto devono al cantautore genovese i Mercanti di Liquore, band brianzola “attualmente non in attività”, a partire dal nome, ispirato alla storia del “suonatore Jones” (La collina: “sembra di sentirlo ancora/ dire al mercante di liquore:/ ‹‹Tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?››”), la cui collaborazione artistica con Marco Paolini, esponente di punta del “teatro civile” ed espressione artistica tra le più interessanti e feconde del panorama culturale italiano, è proficua e unanimemente apprezzata (dall’album Sputi, allo spettacolo teatrale Miserabili – Io e Margaret Thatcher). Il teatro di Paolini è “orazione civile” che incalza, cattura e trascina lo spettatore dentro il racconto: Gli album; Il racconto del Vajont; Il sergente; Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, alcuni degli spettacoli più riusciti e premiati dal pubblico e dalla critica.
Il sergente mette in scena un classico della letteratura italiana, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, scritto da Mario Rigoni Stern ed edito da Einaudi nel 1953, il cui incipit è tra i più celebri della letteratura italiana: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno”.
La vicenda è quella vissuta dallo stesso autore nel corso della seconda guerra mondiale. Ed è la storia della disfatta dell’Armir, travolta dall’offensiva sovietica sul Don e costretta a ritirarsi rovinosamente e ad abbandonare nella steppa gelata mezzi militari e soldati destinati a morire o a subire l’amputazione degli arti congelati. L’inverno russo non perdona, soprattutto chi, per usare le stesse parole di Paolini, intende “giocare a calcio con un pallone da rugby”. D’altronde, l’impreparazione dell’esercito italiano è storicamente documentata: divise non adatte ai rigori siberiani, “scarpe di cartone”, fucili modello ’91 (dall’anno di produzione, il 1891).
La canzone interpretata da Paolini e dai Mercanti di Liquore (testo di La tradotta, da Filastrocche in cielo e in terra, di Gianni Rodari, e estratto del libro di Rigoni Stern) riassume il significato intimo della testimonianza dello scrittore di Asiago. L’ossessività del ritornello (“cavalli otto, uomini quaranta”) ricorda come la guerra sia, in definitiva, Risiko e fredda contabilità che non distingue tra uomini e bestie, se non per la capienza dei vagoni merci: otto, in caso di cavalli; quaranta, se “carne da cannone” come Giuanin, che ripete come un mantra, in forma interrogativa, la speranza (disattesa) di tornare a casa sano e salvo: “Sergentmagiù, ghe riverem a baita?”.
Il sergente nella neve è un libro sull’uomo. La guerra e i suoi orrori restano sullo sfondo, coro greco di una tragedia che resta universale e che, tuttavia, consente all’uomo di trovare dentro di sé la via del riscatto e della salvezza. Un messaggio di speranza, sublimato nell’episodio centrale del libro, l’incontro tra l’alpino e i soldati dell’Armata Rossa all’interno di un’isba, attorno a una pentola fumante, mentre fuori infuria la battaglia di Nikolajewka.
*Nel video, Paolini colloca l’episodio nel mese di febbraio, ma, in realtà, la battaglia di Nikolajewka è stata combattuta il 26 gennaio 1943.