Il libraio di Meladoro

Perché è importante leggere i libri? La riflessione di Francesco Petrarca sul suo rapporto con i libri, a distanza di quasi otto secoli, conserva un’intatta forza evocativa e può essere considerata una valida risposta al nostro quesito:

Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m’insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d’agricoltura, d’eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge.

Leggere fa bene allo spirito. Ed è anche un esercizio utile, perché tra le righe di ogni pagina si finisce con il ritrovare le vite che non si sono vissute; si ha il privilegio della compagnia di personaggi inavvicinabili; si assiste dalla “prima fila” allo scorrere della Storia.

Chi non legge – osserva Umberto Eco – a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

La lettura dei libri consente di gettare un ponte tra presente e passato, di instaurare un dialogo con gli spiriti migliori dei secoli andati, di ascoltare – a un prezzo irrisorio – lezioni uniche e fondamentali per lo sviluppo dell’umanità.
Giovanni Florio, il libraio di Meladoro protagonista dell’omonimo romanzo di Aldo Coloprisco (Laruffa Editore, 2014) tutto questo lo sa bene. Sa che in un paese come Meladoro/Sant’Eufemia d’Aspromonte, negli anni Sessanta del secolo scorso, sono in pochissimi a leggere e sa che la sua è una missione quasi impossibile. La strada che conduce al progresso culturale di una piccola comunità passa pertanto dalla testimonianza dell’amore verso i libri e la lettura, che va promossa a maggior ragione dopo avere letto sgomenti le attuali statistiche. I dati del “Libro verde sulla lettura in Calabria” pubblicati alla fine del 2012 sono preoccupanti e rilegano la Calabria nelle retrovie di un Paese che già guarda le altre nazioni europee dal basso in alto. La quota di lettori in Italia è infatti tra le più basse del Vecchio Continente: l’8% di lettori abituali e il 30% di lettori saltuari, a fronte del 63,7% nel Regno Unito, del 60,2% in Germania, del 48,3% in Francia, del 47,6% in Spagna. Una percentuale che in Calabria scende a livelli record, se si considera che i lettori di libri durante il tempo libero costituiscono il 30,5% della popolazione, mentre la media nazionale è pari al 43,8%.
Florio, che aveva “ereditato” la passione per i libri dal suo padrino di battesimo, osserva che a Meladoro pochissimi leggono e quei pochi, per lo più, si limitano ai libri di testo delle scuole. Spostiamo la scena al giorno d’oggi: quanti ragazzi, persino laureati, non leggono quasi niente se si fa esclusione dei libri necessari per superare gli esami universitari?

Giovanni invece era diverso: divorava i libri “nel silenzio della sua cameretta o in mezzo al chiasso indiavolato dei compagni delle medie e del liceo (…). Leggeva di tutto e s’immedesimava nelle storie che leggeva. Grazie a queste letture imparava a conoscere il mondo senza spostarsi dal paese”.

In Giovanni Florio c’è ovviamente molto dell’autore, per decenni professore di lettere presso la locale scuola media “Vittorio Visalli” e titolare di una libreria diventata negli anni uno strumento formidabile di aggregazione socio-culturale. Nel romanzo però Coloprisco presta la sua biografia anche a un altro personaggio, il professore Forlini, che mette in piedi a Meladoro una compagnia teatrale della quale uno degli attori di punta è proprio Giovanni Florio. Un’attività che non sempre i colleghi di Aldo Coloprisco hanno compreso, considerandola minore rispetto all’insegnamento ortodosso, fatto di lezioni frontali e interrogazioni. Cosa voleva quel professore bizzarro che, invece, faceva disporre i banchi a ferro di cavallo per lasciare nel mezzo lo spazio per le prove della rappresentazione teatrale che ogni anno veniva allestita? Che era capace di “bruciare” così tre ore? Che di sua spontanea iniziativa insegnava rudimenti di latino perché poteva “tornare utile” ai ragazzi intenzionati a iscriversi al liceo scientifico, al classico o al magistrale?
Quando rileva l’attività del padre don Cecè, Giovanni Florio dà un forte impulso alla libreria. Porta più libri di testo, fa arrivare in paese le edizioni economiche degli autori italiani e stranieri più famosi, organizza la “settimana del libro”, come nelle realtà più grandi e culturalmente più avanzate rispetto a Meladoro. La libreria diventa punto d’incontro nel quale parlare di scrittori e poeti, riflettere sul passato e sul presente, scambiare esperienze ed emozioni. La vetrina a muro posta sulla strada, all’esterno del negozio, si trasforma per tanti giovani nella finestra attraverso la quale guardare il mondo da una prospettiva inedita, quella del fermento culturale della società contemporanea. Al di là, ovviamente, di ogni considerazione sull’aspetto economico, davvero risibile in un comune piccolo come Meladoro: carmina non dant panem, dirà Giovanni Florio allo scagnozzo del boss che vorrebbe costringerlo a cedere l’attività.

Giovanni Florio è un idealista. Crede nella potenza salvifica della parola e non perde occasione per ribadire la strettissima relazione che intercorre tra sogni, libri e libertà: “i sogni sono libertà”. Si definisce “un venditore di sogni, non di morte” ed esorta i suoi concittadini a comprare libri ai figli, per farli sognare e renderli migliori. La sua contrapposizione allo spirito prevaricatore della ’ndrangheta è una lezione di vita che i giovani frequentatori della libreria e del teatro colgono in pieno.

Il libraio di Meladoro contiene pagine durissime, sorprendentemente violente. Tuttavia, si conclude con un messaggio di speranza. I ragazzi scendono per strada per manifestare il proprio dissenso rispetto alle dinamiche distorte della malavita e si schierano dalla parte di Florio. Dalla parte del bene e contro il male. Anche se il protagonista sa perfettamente che una rivoluzione non si improvvisa, ma è l’esito finale di un processo lento, che ha i suoi tempi e che richiede il coinvolgimento delle agenzie educative presenti sul territorio: chiesa, scuola, associazioni culturali, famiglie.
I giovani di Meladoro ricordano gli studenti che nella scena finale del film “L’attimo fuggente” salgono sui banchi in segno di ribellione e per dimostrare di avere recepito la lezione del professore John Keating. Quelli saltano sui banchi, questi danno vita a una manifestazione antimafia. Una reazione dirompente nella sua spontaneità e un messaggio di speranza da condividere e rivolgere alle giovani generazioni di oggi e di domani.

Condividi

Dieci anni senza Tiziano Terzani

In un celebre verso Attilio Bertolucci osserva che l’assenza è una presenza “più acuta”. Sorte toccata a Tiziano Terzani, scomparso da dieci anni ma vivo nel dibattito culturale e letterario, addirittura nel costume di una società in crisi e alla ricerca di una bussola o soltanto di parole lievi come una carezza. Se in vita Terzani fu “soltanto” un grandissimo inviato e scrittore, autore di reportage che oggi vengono studiati nelle scuole di giornalismo, con la morte – con l’esposizione “pubblica” della malattia e della morte – è diventato un poeta dell’esistenza (copyright del velista in solitaria Giovanni Soldini), profeta laico dell’urgenza di “pensare diversamente” la realtà, perché “il mondo non è più quello che conoscevamo” e “questa è l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla”. L’occasione per comprendere – dopo avere visto da vicino e raccontato il fallimento delle rivoluzioni in Vietnam (dove era stato tra i pochi testimoni della resa di Saigon e della fuga rovinosa degli americani all’arrivo dei vietcong, nel 1975), Cambogia, Unione Sovietica, Cina – che l’unica rivoluzione possibile è quella che conduce alla pace interiore: consapevolezza spinta fino all’accettazione serena della morte in Un altro giro di giostra, l’ultimo e più intenso viaggio (“nel male e nel bene del nostro tempo”) del giornalista fiorentino.

Il pellegrinaggio incessante lungo il “sentiero Terzani” per raggiungere l’albero “con gli occhi” nel bosco del suo ritiro all’Orsigna, sull’appennino tosco-emiliano, dove fece costruire una gompa tibetana e ricreò l’atmosfera dell’ashram indiano in cui aveva a lungo vissuto facendosi chiamare Anam, “il senza nome” (e da Anam sottoscrisse la volontà di essere cremato: “un nome appropriatissimo per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno”); i numerosi e attivi gruppi di lettura che leggono e dibattono i suoi libri; l’ospedale di Emergency a Lashkar-gah in Afghanistan e le scuole “Tiziano Terzani” sono espressione di un fenomeno sociale, del bisogno di esempi di bellezza, purezza, umanità. Anche quando si ha a che fare con il fondamentalismo islamico, perché i terroristi si sconfiggono eliminando le ragioni che portano migliaia di persone a imbracciare le armi o a farsi saltare in aria, non rispondendo al sangue con altro sangue. Le Lettere contro la guerra rappresentano il punto più alto del suo impegno civile all’indomani dell’11 settembre, quando decide di “scendere in pianura”, tornare cioè nel mondo dopo la scelta del prepensionamento da Der Spiegel, stanco della professione, convinto di avere detto tutto ciò che aveva da dire sul giornalismo, ritirato sull’Himalaya senza l’assillo di scadenze che non fossero quelle della natura e delle stagioni. Nel momento storico dominato dal “siamo tutti americani” lanciato dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e dal livore di Oriana Fallaci, che in La rabbia e l’orgoglio mette sul banco degli imputati la “viltà” di un’Europa prona e diventata “Eurabia”, Terzani torna per indicare nella non-violenza la sola strada percorribile per spezzare la spirale dell’odio.

La lapide che lo ricorda nel cimitero di Orsigna ne riassume la vita con la parola “viaggiatore”, mentre la moglie Angela Staude ricorre al tedesco Sehnsucht (“brama di vedere”) per definire il fascino che gli suscitavano paesaggi e culture lontani non solo geograficamente dall’orizzonte occidentale e per racchiudere la dimensione più autentica di Terzani, quella del “viandante alla ricerca della conoscenza”: “la meta, per Tiziano, è stata la strada, il cammino”.

*Articolo pubblicato su Segnali di cultura a cura di Adexo Ufficio Stampa, 28 luglio 2014

Condividi

La primavera di libri dell’Associazione Terzo Millennio

Con l’organizzazione dell’evento “Primavera dei libri 2014” il Terzo Millennio si conferma realtà associativa particolarmente vivace, di certo quella capace di promuovere il maggior numero di manifestazioni a Sant’Eufemia. Le iniziative estive dell’associazione presieduta da Francesco Luppino costituiscono da oltre quindici anni appuntamenti di successo del cartellone eufemiese: l’escursione naturalistica nel Parco dell’Aspromonte e la rappresentazione teatrale in piazza municipio. Un’attività di valorizzazione del patrimonio culturale, naturalistico e umano del territorio che richiede passione e partecipazione, possibile proprio solo in virtù di una capacità di aggregazione che rappresenta forza e finalità stessa dell’impegno dei soci. Come dimostra l’ambizioso progetto in cantiere per agosto: un musical con protagonisti più di cinquanta attori di tutte le età, già da quattro mesi impegnati nelle prove dello spettacolo. Con tutto quello che ciò comporta – non va dimenticato – in termini di sacrificio e rinunce, per uomini e donne quotidianamente alle prese con problemi di studio, lavoro, famiglia.

L’interesse per i libri ha negli anni consolidato gli appuntamenti con gli autori, le presentazioni di volumi, l’organizzazione di convegni di assoluto livello culturale e scientifico. È questo l’humus in cui è maturata l’idea di dedicare maggio, il mese dei libri, a ben tre incontri letterari cui l’amministrazione comunale darà ospitalità nell’aula consiliare del palazzo municipale. Non si tratterà della “canonica” presentazione di libri, quella per intenderci che prevede lo schema classico di una relazione sul volume, l’intervento conclusivo dell’autore e le eventuali domande del pubblico. Si è preferito dare all’evento un taglio più informale e partecipativo, con i soci protagonisti attivi e non semplici spettatori. Una conversazione aperta al contributo di tutti in una sorta di assemblea con all’ordine del giorno gli input suggeriti dalla lettura dei libri, tutti editi da Città del Sole.

Si inizierà il 3 maggio con Francesco Idotta, docente di Filosofia e Storia presso il liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia, autore del prezioso Il desiderio del camaleonte, nel quale i temi filosofici che da millenni interrogano l’uomo vengono affrontati con una leggerezza stilistica che nasconde bene la complessità e la profondità del pensiero.
Il 17 maggio sarà protagonista la storia, con ospite di prestigio il presidente della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, professore Giuseppe Caridi, il quale colloquierà con il pubblico circa i risultati del suo ultimo lavoro, La Calabria nella storia del Mezzogiorno.

La chiusura della manifestazione, giorno 29, sarà invece affidata a Elisabetta Villaggio, regista e autrice teatrale alle prese, nel romanzo Una vita bizzarra, con la rivisitazione degli anni Settanta in Italia attraverso le vicissitudini delle protagoniste Rosa e Benedetta.
Filosofia, storia e letteratura per tre appuntamenti imperdibili.

Condividi

Con Reggio è un blues a Bagnara

Per chi non c’era, il testo del mio intervento alla presentazione del libro di Antonio Calabrò, Reggio è un blues, presso la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, a Bagnara Calabra. La foto è tratta dal profilo facebook di Ginevra Hepburn

Ho incrociato Antonio Calabrò sei mesi fa, grazie alla sua rassegna “Calabria d’Autore”, un’iniziativa culturale di successo portata avanti in collaborazione con l’Associazione “Incontriamoci Sempre” di Reggio Calabria in quello splendido gioiellino che è la stazione ferroviaria di Santa Caterina: una struttura abbandonata che l’Associazione presieduta da Pino Strati ormai da anni ha restituito alla collettività, rendendola uno dei luoghi culturalmente più vivaci di Reggio.
Antonio Calabrò è tante cose, tutte molto intriganti: scrittore, giornalista di punta del giornale online ZoomSud, simpatico cultore di quella musica che sembra arrivare dal mare e che lui raccoglie e rilancia dal suo “Balcone sullo Stretto”. Ma anche agitatore culturale, un vulcano di idee che si traducono in iniziative di riconosciuta qualità. Calabrò rappresenta uno dei tanti volti belli di quella Reggio che egli stesso definisce “bella e dannata”.
Conoscevo già, invece, Salvatore Bellantone. Avevamo avuto un “contatto” un paio d’anni fa e la cosa che mi colpì nel nostro primo incontro furono le sue parole: “voglio fare l’editore, qui”. Nel mondo della piccola editoria, è un’affermazione molto coraggiosa, perché spesso si finisce con il diventare semplici stampatori.
Bellantone invece ha coraggio e talento. E quindi fa l’editore, qui: legge quello che gli propongono o che lui stesso intuisce possa essere meritevole di essere divulgato e se la sua valutazione è positiva, pubblica. I volumi di “Disoblio” sono l’esito finale di un’operazione editoriale molto attenta ai contenuti, che devono coincidere con la “mission” di questa giovane casa editrice: valorizzare le energie e le risorse locali, portare alla luce quel patrimonio culturale del territorio che va ricercato con pazienza certosina. Perché esiste, Bellantone lo sa, però va cercato con quella lanterna che è il simbolo di “Disoblio” e che, in fondo, fa svolgere alla casa editrice la stessa funzione etica delle biblioteche in Marguerite Yourcenar: granai nei quali vengono ammassate le riserve contro “l’inverno dello spirito”. Un’attività che è culturale e sociale. E che pertanto va incoraggiata e sostenuta.
“Reggio è un blues”, quindi. Calabrò aveva già avuto modo di farsi apprezzare nel 2005 con Johnny Rolling. Una gioventù di musica, battaglie e amori nella Calabria degli anni ’70, un libro sulle passioni e sulle contraddizioni della generazione post-sessantottina; e nel 2010 con Un libro ci salverà, un titolo che ci dice molto sulla vera natura di Antonio Calabrò. Un ottimista irriducibile: anche quando la realtà che racconta è amara e dolorosa, Calabrò concede uno spiraglio alla speranza, alla convinzione che la strada del bello esiste e che spetta a noi cercarla e percorrerla.
Calabrò è giornalista e scrittore. La tempestività è quella del cronista di strada. Leggendo ZoomSud a volte mi chiedo: “ma come ha fatto a scrivere già un pezzo su quell’avvenimento, se si sa qualcosa da neanche un’ora?”. Antenne dritte, fiuto e penna fluida. Queste sono le doti dei grandi giornalisti. Che, ovviamente, non inficiano il giudizio sullo “scrittore”: semmai, ne arricchiscono il profilo. Perché è anche vero che Calabrò “narra” la realtà che lo circonda mettendoci tutto se stesso. Il suo non è mai un racconto asettico. La passione trasuda da ogni parola utilizzata per raccontare storie e drammi di questa martoriata e splendida città che è Reggio. Una città sempre in bilico tra salvezza e dannazione, che Calabrò racconta senza farsi prendere la mano né dalla retorica indulgente e fatua, né dal qualunquismo parolaio di chi è bravo soltanto a criticare senza mai sporcarsi le mani per migliorare la società in cui vive. Una scrittura “impegnata”, quindi, perché le parole non sono involucri vuoti, ma lo scrigno di emozioni e sentimenti che vanno tradotti in energia positiva.
Da attento osservatore, Calabrò rileva le storture, le contraddizioni, i difetti della sua città. È proprio dalla constatazione di ciò che rende Reggio brutta e invivibile che occorre ripartire: gli scempi ambientali, il malaffare, la ’ndrangheta. Ma anche dalla deriva etica di una società che sembra avere smarrito la bussola dei vecchi e sani valori. Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve. Ecco perché i racconti di Calabrò sono un costante invito alla responsabilità. Senza una collettiva assunzione di responsabilità, ogni sforzo si rivelerebbe inutile.

La denuncia si accompagna quindi alla proposizione di esempi di bellezza pescati nell’attualità o nel passato della storia della città. Il ricordo diventa resistenza, ribellione e speranza. Anche quando racconta il disastro materiale e morale di Reggio, l’autore lo fa offrendo la possibilità di un’altra città. Non tutto è perduto, ma solo se ci rendiamo conto di ciò che siamo diventati possiamo darci un orizzonte di speranza e confidare in un futuro migliore.
Calabrò utilizza diversi registri di scrittura: l’arma sottile dell’ironia, quella romantica della nostalgia per i bei tempi andati, quella asciutta della fedeltà a una rappresentazione mai edulcorata. La sua sensibilità è attratta da storie dimenticate che hanno spesso come protagonisti i “vinti”: storie che racconta con “compassione”, che è la capacità di “patire con”, di sentire cioè sulla propria pelle la sofferenza altrui. Il dramma delle vite stentate degli ultimi, la crisi economica e quella etica del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo.
Come un vecchio menestrello Calabrò racconta storie ascoltate chissà dove e chissà quando. Il suo rapporto con Reggio Calabria rimanda a quello tra Jorge Luis Borges e Buenos Aires, alla profondità e alla magia di un’affermazione ripresa da Leonardo Sciascia in riferimento alla sua amata Racalmuto: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”.
Storie dimenticate e una città che purtroppo non esiste più. La Reggio non ancora violentata da una cementificazione selvaggia; la Reggio non ancora umiliata da due terrificanti guerre di ’ndrangheta; la Reggio non ancora saccheggiata da una classe dirigente inadeguata e truffaldina, la Reggio dei mestieri; la Reggio dei “rioni”: il “Pescatori”, il “Ferrovieri”, il confine geografico del Calopinace, sorta di “via Emilia” nell’accezione gucciniana di limite estremo nella Modena del secondo dopoguerra, al di là del quale c’era il “West”.
Ricomporre le tessere di questo antico mosaico non è ginnastica per la mente, bensì corrisponde ad un maturo impegno civile. Nella ossessiva ricerca di conferme di un passato diverso da questo triste presente emerge il tema principale dei racconti di Calabrò: l’amore incondizionato per la propria città, che l’autore dichiara senza giri di parole: “è la potenza dell’amore che mi spinge a criticare Reggio e perfino ad odiarla”.

Perché amare non significa coprirsi gli occhi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino; significa grattare il passato per togliere la polvere dell’oblio da avvenimenti e persone, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche.

Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è soprattutto un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.

Un riscatto nel quale Antonio Calabrò, nonostante tutto, continua a credere. E noi con lui.

Condividi

Reggio è un blues… a Bagnara

Antonio Calabrò e Salvatore Bellantone hanno voluto farmi questo bel regalo, che ho accettato con molto piacere. E quindi sabato 29 marzo, a partire dalle ore 19:00, avrò l’onore di presentare a Bagnara l’ultimo libro di Calabrò, Reggio è un blues (Disoblio Edizioni).

Insieme all’autore e all’editore, ci ritroveremo presso la sede della Società operaia di mutuo soccorso, in via Antonio De Leo, con Mimma Garoffolo (presidente della Soms di Bagnara), Giuseppe Spoleti (assessore alla Cultura di Bagnara), Domenico Canale e Rodolfo Megale, i due musicisti che daranno all’evento quel tocco di originalità che da dicembre contraddistingue la tournée di presentazione del libro.

Condividi

Reggio è un blues

Reggio, “per noi che stiamo in fondo alla campagna”, è il terminale di un cantiere sempiterno, il luogo in cui si arriva o dal quale si parte, ospedali, un gelato sul lungomare, le vetrine del corso, i film al cinema, l’impossibilità di trovare un parcheggio. Non riusciamo a definirla una volta per tutte, perché tende a sfuggirci e perché una diffidenza reciproca crea distanze e pregiudizi.

Soltanto l’epopea della Reggina in serie A è riuscita a farci sentire un unico popolo. Per il resto, noi della provincia siamo quelli che vengono a Reggio e fanno casino: il volume della radio anticipa il nostro arrivo, rimbomba talmente forte dentro gli abitacoli che ci impedisce di ascoltare l’anima più profonda della città. E se anche ci riuscissimo, non capiremmo. Perché noi siamo spremuntari. Voi invece avete la puzza sotto il naso e non ci date confidenza, però per una cassa di patate o una pezza di formaggio vendereste anche le vostre madri. Perché siete riggitani, che è cosa ben diversa dall’essere “reggini”. Stereotipi, naturalmente: durissimi da estirpare.
Per comprendere una città, bisogna farsela raccontare da chi la ama, anche quando è dispettosa o, addirittura, fedifraga.
Di Reggio “bella e dannata” è intrisa ogni parola di Antonio Calabrò, scrittore e punta di diamante del giornale online “ZoomSud”, sul quale negli ultimi due anni sono apparse le trenta storie di Reggio è un blues (Disoblio edizioni).

Amare non significa essere ciechi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino e al facile qualunquismo, grattare la storia per togliere la polvere dell’oblio da fatti, sentimenti, uomini e donne, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche. Un lavoro che è una dichiarazione d’amore sia quando Calabrò, da “indagatore della storia”, riporta alla luce vicende dimenticate o sconosciute: il corteo antifascista in piena crisi Matteotti, alla diffusione della falsa notizia della caduta di Mussolini; l’episodio dell’affondamento dell’incrociatore “Pola” al largo di Capo Matapan, nel 1941; il racconto picaresco di Antonio “Gabba Dio” e l’irriverente aneddoto con protagonista Riccardo Cuor di Leone, il “re ladro di polli” . Sia quando usa l’arma dell’ironia per mettere in guardia del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo. Sia quando la cronaca prende il sopravvento, con il dramma quotidiano della crisi economica, le vite stentate degli ultimi, l’orrore della morte.

Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è anche un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 16 gennaio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/62543-recensione-reggio-e-un-blues-di-antonio-calabro.html

Condividi

Calabria d’autore – Incontro con Fabio Cuzzola

La mia seconda partecipazione a uno degli appuntamenti della manifestazione ideata da Antonio Calabrò ha confermato l’impressione suscitata la settimana scorsa, quando era toccato a Katia Colica accomodarsi sul divano del salotto ricavato all’interno di una sala della stazione ferroviaria di Santa Caterina. Senza trionfalismi, qua si sta scrivendo una pagina culturale importante per Reggio Calabria, che potrebbe aprire strade nuove, tutte da esplorare, sul rapporto tra territorio e cultura, luoghi e forme di fruizione.

Non è mia intenzione fare una recensione dell’evento che ha visto protagonista Fabio Cuzzola (Lou Palanca 2), anche perché ha già provveduto ottimamente Letizia Cuzzola per il sito di informazione locale ZoomSud.

Cuzzola è la mia prima conoscenza fatta sul web circa quattro anni fa, anche se ci eravamo già sfiorati nella “vita reale”, in occasione di un’iniziativa culturale poi non andata in porto. Siamo “fratelli di blog” e mi conforta verificare che su molte cose condividiamo lo stesso sguardo. Da questo punto di vista, mi sono sentito a casa nell’ascoltare ieri canzoni che fanno parte anche della mia “costellazione musicale”. Così come, senza scomodare Popper o Sartori, sottoscrivo in toto le considerazioni sui contenuti e sulle dinamiche che governano la televisione.

Ciò che colpisce, leggendo o ascoltando Cuzzola, è l’impegno civile che impregna ogni sua parola. Una storia che viene da lontano, dallo scoutismo, e si riflette nella sua missione di docente attento alla lezione di don Milani (il libro-documentario Soli e insieme. Viaggio nel mondo della scuola andrebbe fatto leggere e vedere ai detrattori della scuola pubblica e agli arraffatori di stipendi statali imboscati in certe aule).

Una storia che vive nel presente nutrendosi di due ideali potentissimi: rivoluzione e pacifismo. Apparente contraddizione che si scioglie nell’unica sintesi possibile, la strada indicata da Gandhi e Capitini: quella della rivoluzione pacifica.
Sembra quasi di sentirgli ripetere “vigiliamo”, verbo al quale Cuzzola spesso ricorre sul suo blog “Terra è Libertà”, che ci dà la cifra di un intellettuale non certo confinato in biblioteche e archivi. E poi l’umiltà, quel suo ritrarsi per lasciare spazio a uomini e fatti che solo grazie a lui vengono tirati fuori dagli scantinati della storia. Siano i cinque anarchici del Sud, sui quali si è appuntata l’attenzione di Carlo Lucarelli e del suo “Blu Notte”, i testimoni della rivolta di Reggio, o Luigi Silipo. “Da questo momento queste storie sono vostre”, ci dice senza falsa modestia e facendo un passo indietro – che è un po’ il senso della scrittura collettiva e dello pseudonimo Lou Palanca – per lasciare il campo a quelle vite, a quei sogni infranti, a quel messaggio di speranza in un futuro migliore.

*Per chi fosse interessato, la mia recensione dell’anno scorso al libro di Lou Palanca, Blocco 52

Condividi

Calabria d’autore – Incontro con Katia Colica

Il bello bisogna andare a cercarlo. Può così capitare di trovarlo in un posto impensabile come una stanza della stazione ferroviaria di Santa Caterina che i soci dell’associazione “Incontriamoci sempre” hanno trasformato in un piccolo gioiello.
Grazie alla felice intuizione di Antonio Calabrò, dall’8 novembre e fino al 20 dicembre ogni venerdì è un evento imperdibile, l’occasione per conoscere da vicino scrittori, giornalisti e artisti calabresi che onorano questa nostra regione.

Ieri è toccato a Katia Colica, scrittrice reggina che presta penna e sensibilità agli ultimi della terra, dando voce e dignità a chi, questa società, la dignità spesso non riconosce o calpesta.
Antonio Calabrò è a suo agio e scandisce con sapienza e leggerezza i ritmi dell’intervista: cambia registro di frequente, riuscendo così a tenere viva l’attenzione di un pubblico comunque concentratissimo. Si passa dai brani musicali alle citazioni cinematografiche, ai riferimenti letterari che Letizia Cuzzola utilizza come un passe-partout dell’anima. La formula è convincente, Katia Colica è gentile e generosa.
Novanta minuti volano in un soffio, aggrappati a “una scusa” da trovare ogni giorno “per restare” e continuare a lottare, tra i ricordi e le speranze di una confessione che ci ha fatto sorridere, riflettere, commuovere.

Condividi

Via Roma (u Carvariu)

Mi sono ritrovato nella casella di posta elettronica una email che mi ha molto gratificato. Mi ha scritto Cosimo Oliverio, un nostro concittadino (che non conosco personalmente) emigrato in Germania a quattordici anni, nel 1969. Poche righe per ringraziarmi e per dirmi che aspetta “sempre con ansia” qualche articolo su “Sant’Eufemia D’Aspromonte e dintorni”: “Quando leggo il suo blog mi sembra di essere di nuovo ragazzino e correre per le vie del paese vecchio. Abitavo a Via Roma e a via Telesio”.

Gli attestati di stima fanno sempre piacere, soprattutto quando sono inaspettati ed espressi con la semplicità di chi quasi chiede comprensione perché, “dopo 44 anni di emigrazione”, ha “dimenticato purtroppo la nostra bella lingua”. In questo caso, ciò che conta sono i sentimenti, non la perfezione stilistica delle frasi.

Complimenti del genere danno davvero un senso alle cose che scrivo. E quindi sono io a sentirmi in dovere di ringraziare il signor Oliverio e, con lui, tutti gli amici che vivono fuori Sant’Eufemia.
Riporto dal mio libro Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (p. 136) un brano della voce “via Roma”, donandolo idealmente al signor Oliverio, che là ha trascorso la sua infanzia:

“Via Roma è anche conosciuta come “Il Calvario”, per via del monumento raffigurante la scena delle tre croci collocato quasi in cima alla ripidissima salita che dal Vecchio Abitato porta al Petto. Dalla relazione dell’ingegnere Gaetano Oliverio, autore nel 1846 del progetto originale su incarico dell’allora sindaco Paolo Capoferro, si apprende che un’opera simile, preesistente, era andata distrutta nel corso degli anni […]”.

Al numero uno della via, in alto, si trovava la residenza di Michele Fimmanò, uno degli amministratori più longevi e influenti della storia comunale. Ma altre famiglie eufemiesi importanti avevano in via Roma le proprie dimore, ridotte oggi a ruderi irriconoscibili. Come Palazzo Greco, in origine proprietà dei Capoferro che Rosaria portò in dote a Saverio Greco e che fu ereditato dal figlio Domenico, nato a Delianuova e podestà di Sant’Eufemia nella metà degli anni Trenta, prima di essere assassinato il 19 settembre 1936.

A questa strada, che collega il “Paese Vecchio” con il rione “Petto”, sorto dopo il terremoto del 1783, il poeta Domenico Cutrì (al quale è intitolata la biblioteca comunale) ha dedicato due poesie, la prima in lingua dialettale.

“Lu Carvariu” è contenuta nella raccolta Cascami (1965):

Quantu voti passandu di sta via
m’indinucchiai vicinu a stu carvariu
sgranandu cu la menti nu rusariu
’nsuffraggiu di la morta mamma mia.

E mentri ch’iu pregava cu fervuri,

ogni divotu chi di ccà passava

cu fidi na candila ci ddumava

sutta li pedi di nostru Signuri.

St’artari misu ’mmenzu a ddù paisi

d’ogni fidili canusci li peni,

pari ca dici: «vulitivi beni

senz’odiu, senza chianti, ma surrisi».

O vecchiaredda cu la testa janca

chi ’nchiani pe la strata purvirusa,

avvicinati, o matri dulurusa,

dammi la manu si ti senti stanca…

… e quandu simu ni lu crucivia

ogn’unu pigghia pe lu so’ caminu,

s’abbrazza lu so’ pallidu Destinu,

lu bagagghiu pisanti e… Cusì sia!

“Sulla strada del Calvario” è invece tratta da L’eterno sentire (1974):

Lasciatemi salire,

arrancare ancora una volta

per questa pietraia.

Lasciatemi baciare ancora

la croce arrugginita
dell’icona.

Sarà l’ultima volta.

Condividi

La Costituzione nel cassonetto della differenziata

Molti ricorderanno l’appello “Un libro per Lampedusa”, lanciato a fine luglio dal sindaco dell’isola delle Pelagie Giusi Nicolini e ispirato da un’amara constatazione: “Lampedusa non ha una biblioteca e neppure un negozio dove potere acquistare libri. Voi ci vivreste mai in una città dove non è possibile comprare libri? Io non ci credo! Quindi se in giro per casa avete libri, di qualsiasi genere, che non leggete o avete già letto e di cui volete sbarazzarvi, aderite all’iniziativa”.

Grazie al tam tam su Facebook e Twitter, all’iniziativa aderirono sin da subito centinaia di cittadini privati, associazioni, case editrici, università ed enti pubblici. Una partecipazione massiccia, che l’ultimo aggiornamento quantifica in oltre 400 scatole, contenenti migliaia di libri, già arrivate sull’isola.

Dicevamo, molti ricorderanno questa bella iniziativa.

Di sicuro, non ne era a conoscenza chi ha riempito il cassonetto della differenziata per la carta, posizionato davanti alla Pineta comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, con vecchi libri “sfrattati” dalla confinante scuola elementare “Don Bosco”.

A una prima sbirciata si tratta per lo più di vecchi testi didattici, ma dalla piccola fessura si intravede anche qualche libro per ragazzi. Per cui – anche a ignorare la lodevole iniziativa di Lampedusa – sarebbe stata cosa buona e giusta fare un sondaggio e, eventualmente, donare alla biblioteca comunale i volumi di una qualche utilità. Come quello che faceva capolino dalla fessura, una pubblicazione distribuita dal ministero della Pubblica Istruzione agli alunni in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia (Figure ed episodi del Risorgimento italiano), che ho subito riconosciuto perché nella mia biblioteca conservo la copia data nel 1961 alla bimba che dodici anni dopo mi avrebbe messo al mondo.

Non ce l’ho fatta: ho tirato fuori il volume e l’ho regalato a un mio amico. In appendice al libro c’è il testo della Costituzione italiana, che già soffre parecchio e non merita certo ulteriori umiliazioni.

Condividi