Che fine ha fatto la Resistenza? Se lo chiedeva già Luigi Longo nell’omonimo pamphlet pubblicato per il trentennale del 25 aprile. Che fine ha fatto la Resistenza, oggi? Ha senso parlarne ancora?
La risposta è: sì. Sì, fino a quando ci sarà qualcuno pronto a difendere la Costituzione repubblicana, che rappresenta il respiro di una storia comune e la sintesi di tutto ciò che la Resistenza voleva essere. Sì, ha senso celebrare il 25 aprile, l’esito finale del processo di Liberazione che consentì ai figli e alle figlie migliori del Paese di difenderne l’onore infangato dal fascismo, riconquistando la libertà per se stessi e la dignità per un popolo intero. Giovani senza nome, eroi spesso involontari dei quali vanno recuperate le biografie e vivificati gli ideali.
La conservazione della memoria è essa stessa atto di resistenza: distinguere i buoni dai cattivi, il bene dal male, chi lottava per la libertà e l’indipendenza da coloro che combattevano per il nazifascismo. Verità un tempo scontate, oggi insidiate da un revisionismo indulgente e sovente strumentale.
L’ultimo lavoro di Katia Colica, Un altro metro ancora (edito da Città del Sole) è impegno civile e “politico”, perché l’arte e la cultura diventano atti politici quando scandagliano la realtà e dichiarano una scelta di campo. Un “monologo sul bordo della vita” – come recita il sottotitolo – destinato al teatro, che racconta l’eroismo inconsapevole del protagonista Aitano: un canto vigoroso da dedicare a coloro che hanno resistito, resistono e resisteranno “a tutto l’orrore del mondo”.
Capita che pagine di intensa umanità siano scritte dagli Aitano della società, anonimi viandanti che con un gesto salvano se stessi e il mondo. Il protagonista di Un altro metro ancora non aspira a diventare eroe. Lacero e sporco decide di disertare dopo avere mescolato assieme paura e coraggio, spinto dal desiderio di riabbracciare la madre sfollata. Si ritrova però nel crocevia della Storia, accanto a un’umanità in fuga dall’orrore della guerra e bloccata davanti a un campo minato: “è stato lì che ho deciso”. Ed eccolo allora mettersi in testa al “millepiedi umano” che ha nei polmoni un unico soffio di vita e nelle orecchie il suo mantra, la raccomandazione ai compagni di calpestare le sue impronte (“questi sono i miei passi, e questi saranno i vostri passi”) per non rischiare di saltare in aria.
Lì, sul bordo della vita. Tra le voci e gli sguardi di un gruppo di sfollati calabresi decisi a tornare a casa ad ogni costo. Una storia di famiglia, ascoltata dalla voce della bimba fuori campo diventata molti anni dopo la mamma dell’autrice, in pagine marchiate dall’inchiostro dell’impegno civile e del lirismo (l’addio a Mina, che ospita Aitano accogliendolo come fosse il figlio che la guerra le aveva sottratto; la fine tragica della mamma del protagonista): il tratto distintivo della scrittura di Katia Colica.
Un altro metro ancora è la storia universale di Peppino Impastato e di tutti coloro che in ogni tempo e luogo contano e camminano, lottando per regalare all’umanità “cento passi ancora” di speranza. Ma è soprattutto una storia di “fedeltà”, che parla ai ragazzi di oggi di amore nei confronti della propria terra: un “amore potente, delicato, ostinato, amore testardo” al quale aggrapparsi per rinascere dopo ogni fallimento, rimettendo assieme i cocci dei sogni andati in frantumi. Per provare a ricostruire.
Per restare.
Calabria d’autore – Incontro con Katia Colica
Il bello bisogna andare a cercarlo. Può così capitare di trovarlo in un posto impensabile come una stanza della stazione ferroviaria di Santa Caterina che i soci dell’associazione “Incontriamoci sempre” hanno trasformato in un piccolo gioiello.
Grazie alla felice intuizione di Antonio Calabrò, dall’8 novembre e fino al 20 dicembre ogni venerdì è un evento imperdibile, l’occasione per conoscere da vicino scrittori, giornalisti e artisti calabresi che onorano questa nostra regione.
Ieri è toccato a Katia Colica, scrittrice reggina che presta penna e sensibilità agli ultimi della terra, dando voce e dignità a chi, questa società, la dignità spesso non riconosce o calpesta.
Antonio Calabrò è a suo agio e scandisce con sapienza e leggerezza i ritmi dell’intervista: cambia registro di frequente, riuscendo così a tenere viva l’attenzione di un pubblico comunque concentratissimo. Si passa dai brani musicali alle citazioni cinematografiche, ai riferimenti letterari che Letizia Cuzzola utilizza come un passe-partout dell’anima. La formula è convincente, Katia Colica è gentile e generosa.
Novanta minuti volano in un soffio, aggrappati a “una scusa” da trovare ogni giorno “per restare” e continuare a lottare, tra i ricordi e le speranze di una confessione che ci ha fatto sorridere, riflettere, commuovere.
Ancora una scusa per restare
Il respiro di ogni città ha il colore della notte, quando si ripongono nell’armadio gli abiti della quotidianità e si procede nudi per le sue vie, finalmente in grado di sentire sulla propria pelle le ferite delle molte solitudini che la popolano. Spesso invisibili. Ma non per gli occhi sensibili di Katia Colica, che della vita raccattata ai bordi delle strade di Reggio Calabria ha tratto i racconti-reportage di Ancora una scusa per restare (Città del Sole edizioni, 2012): “storie di ordinaria invisibilità in una notte metropolitana”, strappate dall’autrice alle tenebre del cuore, allo sguardo distratto di quella “maggioranza” che – con Fabrizio De André – immaginiamo alla guida della “colonna di dolore e di fumo che lascia le infinite battaglie al calar della sera”.
Nei protagonisti del libro non c’è rabbia, neanche di fronte alle ingiustizie e alle inefficienze di un sistema attento più alla propaganda di eventi inutili, che al reale miglioramento della qualità della vita della comunità. Un sistema che invece di includere, tende all’espulsione, presentandosi con la faccia matrigna della “città-prigione” che non dà al diversamente abile Lorenzo “una buona ragione per restare”. Una città in cui uno straniero può sentirsi “lontano” dagli stessi vicini di casa, perché i discorsi (e le politiche) sull’integrazione durano lo spazio del finanziamento di un progetto, ma poi – nella realtà di tutti i giorni – la società è ulcerata da persistenti sacche di diffidenza e pregiudizi. “Io non conosco nessuno in questa città”: è l’amara considerazione di Milka, ventitré anni, due figli e neanche il tempo per piangere. Un destino che accomuna la ragazza serba a Rosa, che rischia l’infarto per inerpicarsi lungo la salita del “Riuniti”, trascinando sulle spalle la sdraio per “fare la notte” al marito malato; a Livio, clochard invisibile con un solo grande desiderio: consumare un caffè dentro al bar; a Rosario, venditore di rose bangladese che attraversa la città come un fantasma; a Mariya, che preferisce ascoltare il silenzio del mare o i fischi del treno che – spera – un giorno la salverà dalla prostituzione.
Solitudine è la triste condizione di molti adolescenti, nonostante le uscite in gruppo e le serate trascorse nei locali più à la page della città. Giovani permeati dall’insana subcultura dello sballo, file di chupitos trangugiati secondo le regole del binge drinking, “l’unico oggetto di interazione tra ragazzi che non si guardano, non si parlano” e “stanno lì, ognuno col proprio cellulare a scorrere chissà cosa col dito indice sullo schermo”.
Con le sue storie pescate ai margini della società, Katia Colica tocca le corde dell’emozione, dopo avere sbattuto in faccia al lettore i dati impietosi delle statistiche ufficiali su povertà, prostituzione minorile, alcolismo, condizione dei migranti, disagio giovanile e precarietà: siamo tutti Milena, una laurea inservibile inchiodata al muro e i sogni riposti nel cassetto, fregati dalla filosofia del “meglio che niente” cui ci si piega per non ribellarsi a lavori da co.co.pro che sono puro sfruttamento.
Per non cedere alla rassegnazione, occorre cercare dentro se stessi la via del riscatto. Una redenzione che ha il volto dei ragazzi con le ramazze, impegnati a pulire gli spazi all’aperto utilizzati per ballare la break dance. Gli unici, forse, ad avere ancora la forza di “credere” nella città e che ispirano il monologo finale in cui la stessa Reggio Calabria, rivolgendosi ai suoi figli, indica nella gentilezza l’àncora alla quale aggrapparsi per non affondare e per trovare, ogni giorno, un motivo per non scappare via.