Quando in spiaggia giocavi a pallone con gli altri bambini, non sapevo se essere felice o piangere mentre osservavo la tua determinazione nel calciare con tutta la forza che avevi. Ancora riuscivi a muovere qualche passo, se qualcuno ti sorreggeva da dietro. Alzami tu, dicevi. La più bella dichiarazione di fiducia mai ascoltata. Ripetuta negli anni. Sulle rampe delle scale con le tue braccia attorno al collo, sull’altalena che non avevi mai provato e della quale volesti fare esperienza, al largo, in mare, per raggiungere la boa diventata tua personale conquista: gli occhi sorridenti e le mani che si agitavano per richiamare l’attenzione degli altri volontari dell’Agape sulla riva. Avrei voluto piantarci una bandierina su quella boa: «Giuseppe è arrivato fin qui».
Nell’acqua ti sentivi libero, come se avessi lasciato sulla terraferma la gabbia della malattia che ti inchiodava ad una sedia a rotelle. Per questo volevi essere lasciato solo e allontanavi le nostre mani dalla ciambella.
La felicità aveva il colore del mare e della sabbia, e il suono della tua voce che inseguiva la boccia lanciata e caduta pochi centimetri davanti ai tuoi piedi. Vincevi lo stesso tu. Vincevi sempre tu. Come nella playstation: sullo schermo correvi e segnavi al pari di tutti gli altri bambini, ti lanciavi in tackle oppure ti tuffavi per parare il rigore di un incredulo Higuain, rassegnato e con le mani tra i capelli al cospetto della tua prodezza.
Abbiamo inventato tanti giochi e ne abbiamo cambiato i regolamenti, ogni volta che l’abbiamo voluto. In questo siamo stati liberi, nessuno poteva decidere per noi.
Sapevamo che il tempo ci era nemico. Ma chissà poi se è stato così. Non si può accettare la morte di un ragazzo. Non la possono accettare i genitori, non la possiamo accettare noi che ti abbiamo voluto bene. Se il tempo ha un inizio e una fine, se il dolore ha un inizio e una fine. Ma se ora e allora sono un tutt’uno, se riusciamo a confondere e a confonderci nell’unicità delle nostre esperienze: cosa sono stati i tuoi diciott’anni? Cosa il fuoco della tua lotta?
Il tempo scandito dal tuo orologio azzurro era diverso dal nostro. Tu lo sapevi, per questo hai detto ad Assunta, tua madre, di tenerlo al polso lei, quando non ci saresti più stato. Perché il tempo dell’amore non ha tempo, non ha scadenza. Come il pupazzo di Winnie the Pooh, che ti accompagnò con noi a Lourdes e che è con te oggi, in questo tuo ultimo viaggio.
Ho letto l’esperienza di un padre distrutto di fronte alla fragilità del figlio disabile, eppure capace di cogliere il senso più profondo della vita. Ciò che importa – diceva – non è capire fin dove potrà arrivare un figlio disabile, se riuscirà ad acquisire competenze e abilità, se sarà un minimo autosufficiente, o se non lo sarà per niente. Ciò che importa è cosa i genitori e coloro che gli vogliono bene saranno “capaci di fare”, cosa saranno “disposti a diventare”. Se saranno capaci di arrivare alla sua altezza.
Non lo so se siamo stati alla tua altezza. So però che hai cambiato in molti di noi il modo di vedere le cose, la prospettiva del mondo. Ci hai fatto capire cosa è importante e cosa è invece superfluo, coreografico, privo di sostanza. Ci sei stato maestro.
Ho un ricordo di molti anni fa, un saggio di musica nel teatro della scuola media. L’insegnante che ti aiuta ad alzarti, la tua fatica nello spingere in avanti le gambe per giungere alla pianola. Un passo dopo l’altro, un rallenty sospinto dagli occhi di tutti e poi “Jingle Bells”. Sorretto dalle mani sicure della docente, tra il silenzio e l’emozione della sala, tutta concentrata sulle tue dita che battono i tasti bianchi e neri: «Suonate campane, suonate tutto il tempo».
Continua a suonare, Giuseppe. Per te, per noi, per la vita che ci hai insegnato.