5 luglio 1914, il giorno della pacificazione eufemiese

Quando si parla di “data storica” per una comunità, il rischio di scadere nella retorica è sempre in agguato. Non è il caso del 5 luglio 1914, che nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte segnò la fine delle aspre divisioni sulla ricostruzione del paese seguite al terremoto del 28 dicembre 1908. Il terribile sisma – che aveva provocato circa 700 vittime e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio – ripropose la questione, già vissuta dopo il “fracello” del 5 febbraio 1783, del trasferimento dell’abitato nell’area denominata Pezza Grande. Nel 1783 prevalsero i fautori della ricostruzione nelle aree allora edificate (Paese Vecchio e Petto). Dopo il 1908 le cose andarono diversamente, determinando l’odierno assetto urbanistico del paese con i suoi tre grandi rioni: Paese Vecchio, Petto e, appunto, Pezza Grande. Anche nella riedizione di quel drammatico scontro la polemica tra i sostenitori delle due contrapposte tesi fu violentissima. Da un lato si trovarono gli ex sindaci Francesco Capoferro, Antonino Condina-Occhiuto e il medico condotto nonché grande oratore Bruno Gioffré, che incendiava gli animi degli eufemiesi invitandoli alla resistenza. Nel campo opposto svettava la prestigiosa figura dell’anziano commendatore Michele Fimmanò, per oltre sessant’anni dominatore assoluto della scena politica eufemiese e regista delle elezioni comunali che a maggio 1910 incoronarono sindaco il notaio Pietro Pentimalli.
Il 14 ottobre 1911 la giunta guidata da Pentimalli inviò al presidente del consiglio Giovanni Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Ettore Sacchi un promemoria (“Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte”) a sostegno del trasferimento del paese nel nuovo sito, che andava a confutare le ragioni del fronte opposto, compendiate nel parere espresso due anni prima dal geografo Mario Baratta (“Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 28 dicembre 1908”). Il governo nazionale sposò la linea di Fimmanò e di Pentimalli, il quale aveva comunque accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore. Ma nonostante l’apertura del sindaco, la tensione tra gli schieramenti in campo raggiunse livelli di guardia così alti che più volte rischiò di scapparci addirittura il morto.
Il pericolo di una deriva drammatica convinse “i migliori elementi delle due parti” a sedersi attorno ad un tavolo per trovare una sintesi, che fu concordata con il deputato reggino Giuseppe De Nava, garante ministeriale di un’operazione che teneva insieme tutto: rielezione di Pentimalli nelle elezioni comunali del 1914, edificazione del paese nella nuova area e abrogazione del divieto di ricostruzione nelle aree distrutte dal terremoto.
Probabilmente mai più gli eufemiesi sono riusciti a fornire una lezione così alta di unità di intenti. Gli individualismi furono messi al bando da una generazione responsabile che trovò nel sindaco Pentimalli una guida illuminata (il quale meriterebbe un approfondito e specifico studio biografico), capace di portare fuori dalle tenebre un popolo distrutto moralmente e materialmente. Esempio fulgido di come, di fronte alle avversità, occorre fare quadrato se si vuole dare prova di maturità e di una visione nobile, non condizionata da interessi e ambizioni personali.
Ecco perché la chiusura del discorso pronunciato da Pentimalli il 5 luglio 1914, giorno della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale, rappresenta un inno alla concordia e all’amore per il superiore bene comune che sempre dovrebbero animare chi ha l’onore di rappresentare la comunità nelle istituzioni: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908

Il terremoto del 1908 costituisce l’evento più sconvolgente della storia di Sant’Eufemia e il suo snodo cruciale: c’è un “prima” e un “dopo” che va oltre la cronaca di quegli avvenimenti, perché la ricostruzione consegnò ai sopravvissuti un paese radicalmente diverso, a partire dalla sua disposizione geografica. Un tema – la ricostruzione in un nuovo sito di un paese distrutto – ancora attuale e non di facile soluzione, che si scontra con la caparbia di chi non vuole allontanarsi dai posti in cui ha sempre vissuto per una questione affettiva, ma anche di identità. Siamo tutti il prodotto della vita vissuta da altri prima di noi nelle nostre stesse strade, piazze e campagne, per cui la perdita dei “propri” luoghi disorienta e provoca una sensazione di sradicamento che sgomenta.
La Sant’Eufemia rasa al suolo all’alba del 28 dicembre 1908 – che coincideva per lo più con i rioni Paese Vecchio e Petto – era già un paese ferito, le sue abitazioni rese precarie da sismi più o meno recenti. Il terremoto del 16 novembre 1894 aveva infatti provocato sette morti, il crollo totale di 212 abitazioni e quello parziale di 326 (oltre a danni gravi in 432 case e lievi in 188); dopo quello dell’8 settembre 1905 erano state gravemente danneggiate 383 costruzioni, 41 dichiarate inagibili e demolite; 181 infine, gli edifici lesionati il 23 ottobre 1907. Anche per questo la scossa del 1908 ebbe effetti catastrofici: 530 le vittime dell’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato (ma i documenti prodotti dalla giunta comunale fanno salire la cifra a circa 700), più di 2.000 feriti e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio. L’area circostante la fontana Nucarabella riportò i danni minori, con il macello comunale che rimase quasi intatto. Le poche case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894 nell’area denominata “Piazzetta”. Le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie; nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate in alto (piazza Vittorio Emanuele II). Un dato anch’esso significativo: su circa cinquanta lampioni della pubblica illuminazione, ne restarono in piedi nove.
Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, che già ospitava quello sorto dopo il terremoto del 1894 e che contava anche alcune casette costruite dopo il 1907, ora distrutte. Furono espropriate diciotto proprietà, costruite strade, realizzati un ospedale, una chiesa, l’acquedotto e 1.300 baracche capaci di dare alloggio a circa 5.000 persone.
Un regio decreto del 15 luglio 1909 proibì la costruzione nelle aree distrutte dal terremoto, ad eccezione delle zone pianeggianti del rione Petto, ma il provvedimento governativo non fu accolto favorevolmente da tutta la popolazione e scatenò reazioni violentissime.
L’amministrazione comunale eletta il 22 maggio e guidata dal notaio Pietro Pentimalli era però favorevole al trasferimento nella nuova area, così come il vecchio ma ancora molto influente Michele Fimmanò; di avviso contrario, invece, un consistente numero di famiglie storiche: Capoferro, Gioffré, Condina-Occhiuto. Un fronte agguerritissimo, che non si diede per vinto neanche a lavori ultimati (fine 1910) e che promosse una raccolta di firme da allegare al parere del geografo Mario Baratta, specializzato in sismologia storica, il quale – nell’opuscolo Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 1908 – sostenne che, in realtà, il suolo sottostante alla Pezza Grande era “il peggiore di tutti” e quello del Paese Vecchio “relativamente migliore” in rapporto alla stabilità sismica delle costruzioni.
La giunta e il sindaco risposero indirizzando al presidente del consiglio Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Sacchi un memorandum (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte) sottoscritto da oltre duemila firmatari: in premessa venivano avanzati pesanti dubbi sull’onestà intellettuale di Baratta; nel merito della polemica si sosteneva invece che, poiché non era possibile riunire tutta la popolazione nella vecchia area, sarebbe stato più saggio farlo nell’area nuova, che era “separata” e “lontana” dal vecchio abitato: mantenerle entrambe rischiava di innescare un pericoloso dualismo. Nonostante il governo avesse dato ragione all’amministrazione comunale (maggio 1912), non cessarono le pressioni per modificare il provvedimento legislativo che aveva dichiarato inedificabile l’area del vecchio abitato, per la quale comunque il sindaco Pentimalli aveva accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore.
Le deroghe concesse, in realtà, rappresentavano la quadratura del cerchio e aprirono le porte alla soluzione definitiva della vicenda, che fu concordata in occasione delle elezioni comunali del 1914 nel salotto dell’avvocato Gabriele Fimmanò (figlio di Michele, da un anno passato a miglior vita). Grazie al sostegno del deputato reggino De Nava, Fimmanò riuscì a fare sedere attorno allo stesso tavolo “i migliori elementi delle due parti”, i quali siglarono un accordo elettorale che poneva fine alle ostilità in cambio – su questo punto garantiva De Nava – della revisione della legge che demandava al Genio civile di Reggio l’ultima parola sulla definizione delle zone edificabili: in concreto, ciò significava l’abolizione del divieto di costruire nelle aree maggiormente colpite dal terremoto, che fu di fatto decretata dal governo il 3 settembre 1916. Il volto di Sant’Eufemia cambiava definitivamente e assumeva quello attuale caratterizzato dalla suddivisione nei tre popolosi rioni di Paese Vecchio, Petto e Pezza Grande.

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