Calabria d’autore – Incontro con Fabio Cuzzola

La mia seconda partecipazione a uno degli appuntamenti della manifestazione ideata da Antonio Calabrò ha confermato l’impressione suscitata la settimana scorsa, quando era toccato a Katia Colica accomodarsi sul divano del salotto ricavato all’interno di una sala della stazione ferroviaria di Santa Caterina. Senza trionfalismi, qua si sta scrivendo una pagina culturale importante per Reggio Calabria, che potrebbe aprire strade nuove, tutte da esplorare, sul rapporto tra territorio e cultura, luoghi e forme di fruizione.

Non è mia intenzione fare una recensione dell’evento che ha visto protagonista Fabio Cuzzola (Lou Palanca 2), anche perché ha già provveduto ottimamente Letizia Cuzzola per il sito di informazione locale ZoomSud.

Cuzzola è la mia prima conoscenza fatta sul web circa quattro anni fa, anche se ci eravamo già sfiorati nella “vita reale”, in occasione di un’iniziativa culturale poi non andata in porto. Siamo “fratelli di blog” e mi conforta verificare che su molte cose condividiamo lo stesso sguardo. Da questo punto di vista, mi sono sentito a casa nell’ascoltare ieri canzoni che fanno parte anche della mia “costellazione musicale”. Così come, senza scomodare Popper o Sartori, sottoscrivo in toto le considerazioni sui contenuti e sulle dinamiche che governano la televisione.

Ciò che colpisce, leggendo o ascoltando Cuzzola, è l’impegno civile che impregna ogni sua parola. Una storia che viene da lontano, dallo scoutismo, e si riflette nella sua missione di docente attento alla lezione di don Milani (il libro-documentario Soli e insieme. Viaggio nel mondo della scuola andrebbe fatto leggere e vedere ai detrattori della scuola pubblica e agli arraffatori di stipendi statali imboscati in certe aule).

Una storia che vive nel presente nutrendosi di due ideali potentissimi: rivoluzione e pacifismo. Apparente contraddizione che si scioglie nell’unica sintesi possibile, la strada indicata da Gandhi e Capitini: quella della rivoluzione pacifica.
Sembra quasi di sentirgli ripetere “vigiliamo”, verbo al quale Cuzzola spesso ricorre sul suo blog “Terra è Libertà”, che ci dà la cifra di un intellettuale non certo confinato in biblioteche e archivi. E poi l’umiltà, quel suo ritrarsi per lasciare spazio a uomini e fatti che solo grazie a lui vengono tirati fuori dagli scantinati della storia. Siano i cinque anarchici del Sud, sui quali si è appuntata l’attenzione di Carlo Lucarelli e del suo “Blu Notte”, i testimoni della rivolta di Reggio, o Luigi Silipo. “Da questo momento queste storie sono vostre”, ci dice senza falsa modestia e facendo un passo indietro – che è un po’ il senso della scrittura collettiva e dello pseudonimo Lou Palanca – per lasciare il campo a quelle vite, a quei sogni infranti, a quel messaggio di speranza in un futuro migliore.

*Per chi fosse interessato, la mia recensione dell’anno scorso al libro di Lou Palanca, Blocco 52

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Blocco 52

Il cadavere di Utopia riposa dietro una lapide del “blocco 52” del cimitero di Catanzaro, sipario della vicenda umana e politica del comunista Luigi Silipo che Lou Palanca ha recuperato negli anfratti della storia, soffiando sulla polvere accumulatasi in quasi cinquant’anni di oblio. Lo pseudonimo dell’autore collettivo (ispirato a Massimo “O Rey” Palanca, idolo giallorosso specialista del gol su calcio d’angolo negli anni Settanta-Ottanta) si rifà all’esperienza avviata negli anni Novanta in Italia da Luther Blissett e proseguita da Wu Ming, culminata con l’esperienza del New Italian Epic, genere di romanzo che mescola realtà storica e finzione letteraria.
Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta, edito da Rubbettino e scritto a dieci mani (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri e Danilo Colabraro), si snoda su più piani e offre diverse chiavi di lettura. Personaggi reali, chiamati per nome e cognome, che incastrano le proprie esistenze con la trama del romanzo (“un delitto che dalla Calabria degli anni Sessanta arriva fino a Praga”), fotografie in bianco e nero di vicende da narrare perché, “se non c’è nessuno che fa memoria, è come se le storie non fossero mai esistite”.
L’assassinio dell’eretico Luigi Silipo (1 aprile 1965), dirigente di primo piano del partito comunista in Calabria che vede progressivamente incrinarsi le certezze granitiche sulla bontà del centralismo democratico e sulla prassi del comunismo internazionale, da “omicidio impunito, dimenticato o da dimenticare” assurge a metafora del bilancio amaro di una stagione politica e di una generazione costretta a tapparsi le orecchie per non sentire “il rumore che fanno i sogni che abortiscono”.

Il passato ha l’odore dell’aria ammorbata dal fumo delle sigarette nelle sezioni di partito e nelle sale cinematografiche, il colore delle palline usate come tappo per le bottigliette della gazzosa, le inquadrature della cinepresa di Pasolini in “Comizi d’amore”, la lezione sempre attuale di don Milani, le canzoni di una generazione che avrebbe voluto scalare il cielo e sognava di portare la fantasia al potere. Blocco 52 è la Catanzaro dei “bassi” invivibili e della speculazione edilizia, delle carte di Piazza Fontana incredibilmente sepolte in uno scantinato; è la Reggio degli anni Settanta, la controcultura e le bombe, l’intreccio inquietante di fascismo, ’ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Ma è anche la crisi materiale e morale della società attuale, sulla quale si posa lo sguardo ora amaro, ora ironico, di Vincenzo Dattilo, alter ego del “pendolare fisso” Fabio Cuzzola, dal quale prende in prestito anche il blog Terra è libertà.

Storia grande e piccole storie si intrecciano e si tengono assieme, seguendo il filo conduttore di un omicidio i cui possibili moventi (politico, passionale, affaristico-criminale) conducono a una lapide spoglia, abbandonata e dimenticata da tutti. Sullo sfondo, una serie di “vinti” (Nina, che mantiene i contatti con i futuri protagonisti della Primavera di Praga; Maria Grazia, che perde la verginità sotto lo sguardo corrucciato di Marx, Engels e Lenin; Caterina, vittima rassegnata di una società patriarcale) e il più “vinto” di tutti: Gavino Piras, funzionario del partito comunista mandato da Roma per gestire, all’indomani della morte del “Migliore”, lo scontro tra amendoliani e ingraiani e che sull’altare dell’ideale politico sacrifica amore e felicità personale.

La rivoluzione soffoca in tasca, come i pugni del celebre film di Marco Bellocchio, ed è amara consolazione rifugiarsi nell’illusione “che il cielo sia così vicino che lo puoi toccare con un dito”, parallelismo irriverente tra l’utopia comunista e l’esistenza della prostituta Assunta. Impegno politico e ricerca della verità si rivelano una battaglia persa, “ma le battaglie perse – ci ricorda Dattilo – sono le uniche che vanno combattute. O, perlomeno, le uniche che meritano il bacio sulle labbra che le trasforma in un libro”.

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