Ogni tanto mi viene chiesto se ha un significato particolare il pezzo di stoffa bianco, un po’ annerito dal tempo, che tengo annodato allo specchietto retrovisore della mia auto. Sì, è roba vecchia, scassata come la mia auto. Ma simboleggia la convinzione che guerra e violenza non possono mai essere una soluzione per le questioni internazionali ed umanitarie. Tutt’al più ne rappresentano la comoda, per quanto inutile, scorciatoia.
La campagna “uno straccio per la pace” fu lanciata da Emergency per protestare simbolicamente contro l’intervento militare in Afghanistan dopo l’attentato delle Torri Gemelle a New York: «Uno straccio di pace appeso alla borsetta o al balcone o all’antenna della macchina o al guinzaglio del cane per chiedere che questa guerra finisca e non ne nascano altre. Volere la pace non significa mancare di rispetto alla memoria di chi è morto negli attentati. Confidare nella pace non significa non aver pianto per le migliaia di vittime innocenti». Erano le giornate della contrapposizione feroce tra interventisti e pacifisti, in Italia riassunta negli scritti di Oriana Fallaci (La rabbia e l’orgoglio) e Tiziano Terzani (Lettere contro la guerra).
Essere per la pace non significa “parteggiare” per qualcuno. Non ho alcuna simpatia per il boia Assad, né per quell’autocrate di Putin, né per Trump che definisce “simpatici” missili che sappiamo quanto possano essere “intelligenti” e quali “effetti collaterali” siano in grado di produrre. Così come non ne avevo, ieri, per Bin Laden, Saddam Hussein e Gheddafi. Essere per la pace significa contestare l’utilizzo delle armi per la soluzione dei conflitti, privilegiare la strada della diplomazia, ma soprattutto respingere l’ipocrisia di chi – oggi come ieri – nasconde dietro il velo degli alti ideali propagandati la vera ragione dei conflitti: la difesa degli interessi economici e geopolitici da parte delle grandi potenze sullo scacchiere mediorientale.
In Siria la guerra è iniziata sette anni fa, non oggi. E a pagarne il prezzo più alto, come sempre accade nelle guerre, è il popolo siriano con le sue migliaia e migliaia di vittime, con i suoi milioni di civili allo stremo e in fuga dalle proprie case.
Pochi giorni fa i mezzi di comunicazione hanno diffuso le immagini dell’attacco chimico a Douma, con l’utilizzo del gas del regime siriano contro la popolazione inerme. Sulla base di questa informazione, basata su video prodotti da fonti locali non verificabili e riconducibili agli ambienti anti-Assad. La memoria corre veloce alla fiala di polverina bianca agitata dal sottosegretario di stato americano Colin Powell, il “casus belli” della guerra in Iraq, che poi si rivelò essere stata invenzione di un ingegnere chimico iracheno (nome in codice: Curveball). Anni prima, nella sua Lettera da Kabul (19 dicembre 2001) Tiziano Terzani aveva considerato: «Le emozioni suscitate da tutta una serie di notizie false, compresa quella delle fiale di gas nervino “trovate” in un campo di Al Qaeda vicino a Jalalabad, sono servite a rendere accettabili gli orrori della guerra, a mettere le vittime nel conto dell’inevitabile prezzo da pagare per liberare il mondo dal pericolo del terrorismo».
L’uccisione di Gheddafi e la vicenda del fermo che ha recentemente colpito Sarkozy, lautamente finanziato dal rais libico per la sua ascesa all’Eliseo prima di diventarne il carnefice, dovrebbe insegnare qualcosa sulla genuinità dell’intervento delle potenze straniere nelle questioni nazionali. Il consuntivo degli ultimi due decenni conferma l’impossibilità di esportare la democrazia “sulla punta delle baionette”; in particolare ci dice che il terrorismo internazionale è fenomeno complesso e camaleontico, capace di mutare natura e strategie: la soluzione “militare” sarà sempre inefficace, se non si riuscirà ad intervenire sulle cause del fondamentalismo.
A chi gli faceva notare che “in tutta la storia ci sono sempre state delle guerre, per cui continueranno ad esserci”, il Mahatma Gandhi obiettava: «Ma perché ripetere la vecchia storia? Perché non cercare di cominciarne una nuova?».
Emergency: venti anni in prima linea
Sono orgoglioso di essere socio, da diversi anni ormai, dell’associazione umanitaria fondata nel 1994 da Gino Strada e dalla moglie, la compianta Teresa Sarti. Di quest’ultima amo sempre ripetere una frase bellissima, una sorta di regola morale alla quale, nel mio piccolo, cerco di ispirarmi: “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.
Emergency è un’associazione italiana indipendente e neutrale, nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà.
Emergency promuove una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani.
L’impegno umanitario di Emergency è possibile grazie al contributo di migliaia di volontari e di sostenitori.
Dalla sua nascita a oggi, Emergency ha curato oltre 5 milioni e mezzo di persone in 16 Paesi.
(dal sito: www.emergency.it)
Nella prefazione a Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra (Feltrinelli, 1999), Moni Ovadia sostiene che “i tempi delle palingenesi rivoluzionarie assolute e totalizzanti sono finiti, ma ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati: uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada”.
Strada è un chirurgo di guerra che “arriva quando tutti scappano, e mette in piedi ospedali di fortuna, spesso senza l’attrezzatura e le medicine necessarie, quando la guerra esplode nella sua lucida follia. Guerre che per lo più hanno un lungo strascico di sangue dopo la fine ufficiale dei conflitti: quando pastori, bambini e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi. I vecchi afgani li chiamano Pappagalli verdi” (dalla quarta di copertina).
Ogni tanto qualcuno mi domanda cosa sia quel piccolo pezzo di stoffa bianco annodato allo specchietto retrovisore della mia auto. Sta là dal 2002, da quando Emergency invitò i cittadini ad esprimere la contrarietà all’ingresso dell’Italia nella guerra contro l’Iraq attaccando un pezzo di stoffa bianco alla porta di casa, al balcone, al guinzaglio del cane, all’antenna della macchina o altrove.
D’altronde, l’articolo 11 della Costituzione non ammette equivoci: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Buon compleanno e lunga vita ad Emergency!
Occhiali rotti
Nella prossima vita indagherò l’inconscio. Mi intrigano il mistero e il miracolo della psiche umana, la logicità e l’illogicità di taluni passaggi, i salti incomprensibili a una prima e a una seconda lettura, le associazioni mentali spericolate e inspiegabili. Siamo carne, è vero. Siamo ciò che ci circonda, ci plasma, ci indirizza verso vite che a volte prendiamo in prestito, spacciandole per nostre. Ma siamo soprattutto intelletto, ragione capace di sopravvivere mentre tutto sfiorisce, nel deserto che attorno a noi si rivela quotidianamente. Siamo spirito imprigionato dentro la corazza dei nostri corpi, leggerezza che fluttua nell’indecifrabile nostro andare.
Ho visto un bimbo piangere e correre inutilmente dietro al padre. Ho pensato che, in quel preciso istante, il dolore del mondo avesse quel volto, quelle lacrime, quel singhiozzo disperato. Poi è iniziato “il viaggio”. Tanti altri bimbi piangenti, ovunque vi sia una guerra, una sporca guerra con le sue cluster bombs, i “pappagalli verdi” di un gioco per ragazzini senza infanzia che gioco non è, mani e piedi scaraventati a decine di metri dai corpi. Ovunque l’uomo tenti di sopraffare un altro uomo. Medio Oriente. La guerra in Iraq e un giornalista freelance, Enzo Baldoni, che racconta quel che vede (2004). Che non si limita al ruolo di testimone scomodo e che, per molte vittime dilaniate nel corpo e nell’anima, diventa una possibile ancora di salvezza. Il suo rapimento e la sua esecuzione. L’ignominia del titolo di un giornale (“Libero”), che spara in prima pagina l’articolo di Renato “Betulla” Farina, agente dei servizi: “Vacanze intelligenti”. Proprio così. Che vuoi, Enzo? In fondo, te la sei cercata. La prossima volta, stai a Milano, invece di fare l’alternativo.
Siamo materia leggerissima, che vola nello spazio immenso della nostra fantasia e corre dal pianto di un bimbo al messaggio di pace della foto dei “piedi spaiati di Mohammed” (all’epoca, Baldoni scrisse a Emergency per chiedere se si potesse fare qualcosa per l’amico iracheno che durante un bombardamento americano a Falluja aveva perso entrambe le gambe e aveva ricevuto due piedi “spaiati”, un 37 e un 38). E allora buona Pasqua, con le parole dedicate da Samuele Bersani a Baldoni in Occhiali rotti.
Finalmente libero Francesco Azzarà
La notizia è stata lanciata da Emergency su Twitter, alle 15.47:
Gino Strada: “Alte autorità del #Sudan ci hanno comunicato l’avvenuta liberazione di Francesco. Aspettiamo le conferme” #freefrancesco
Attendiamo ulteriori aggiornamenti, ma sembra proprio che stavolta ci siamo. Una bella notizia per Francesco, per Emergency, per l’Italia, per la Calabria, per Reggio, per i suoi familiari e amici, per chi, come me, prima di questa sua disavventura, non sapeva niente di lui.
Poco più di una settimana fa, sul blog, ero tornato per la seconda volta sulla sua vicenda e, sarà stata una coincidenza, dopo che l’articolo è apparso anche sul “Quotidiano della Calabria”, è stato un susseguirsi di altri interventi pubblici, tra cui quello del sindaco di Motta San Giovanni, che aveva preannunciato una grande iniziativa per chiedere nuovamente la liberazione di Francesco. Coincidenza o meno, sono felice per avere dato il mio piccolo contributo di sensibilizzazione attorno alla vicenda di Azzarà.
Buon Natale Francesco
I silenzi sul rapimento di Francesco Azzarà
C’è un preoccupante silenzio attorno alla vicenda di Francesco Azzarà, l’operatore di Emergency rapito il 14 agosto a Nyala, nel Darfur, regione del Sudan dove dal luglio del 2010 è attivo un centro pediatrico messo in piedi dall’organizzazione fondata da Gino Strada. La Farnesina tace, mantenendo la linea inaugurata da Franco Frattini nei giorni successivi al sequestro. Siamo fermi alla dichiarazione del deputato Pdl Lella Golfo, che riprendeva fonti diplomatiche: “Francesco è in ottime condizioni e sarebbe stato individuato il luogo in cui è tenuto prigioniero”. Da quattro mesi è un “non possiamo parlarne per motivi di sicurezza”, per “problemi di intelligence” e per “non mettere a repentaglio l’incolumità del prigioniero”.
La mobilitazione iniziale è stata imponente, in Calabria e in tutta Italia. L’immagine di Azzarà sugli edifici pubblici di moltissime città, negli stadi, portata alla Marcia per la pace di Assisi dal comitato “Francesco Libero”. Poi è sceso il silenzio. Le uniche informazioni al di fuori del burocratese del ministero degli esteri sono venute da Cecilia Strada, che davanti alla Commissione straordinaria dei diritti umani del Senato, a metà settembre, dichiarò che Emergency era riuscita a stabilire un contatto diretto con Azzarà (“resiste bene, per quanto possibile nella situazione in cui si trova. Mangia e beve e tiene duro”) e, qualche settimana dopo, da Gino Strada, intervenuto telefonicamente a Che tempo che fa per annunciare che “ci sono buoni motivi per dire che molto presto potremo riabbracciare Francesco”.
Quando si immaginava imminente la soluzione, qualcosa si è però inceppato, facendo saltare tutto. Da allora, non è più filtrato nulla. Sui giornali e sulle televisioni nazionali la notizia non ha ormai alcuna risonanza. A tenere alta l’attenzione sembra essere rimasto soltanto il deputato del Pd Franco Laratta, che già nei mesi passati aveva ripetutamente esortato l’ex ministro degli esteri Franco Frattini ad intervenire in Aula sulla questione. Una nuova interrogazione, presentata insieme al collega di partito Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, chiede ora al neoministro Giulio Terzi di riferire “se il governo segue con costanza il sequestro di Francesco Azzarà; se vi sono stati contatti con i rapitori; se si hanno notizie sulla condizioni e sullo stato di salute del rapito”.
A chi su twitter gli ha posto domande sulla sorte del volontario di Motta San Giovanni, il ministro Terzi (più verosimilmente, il suo ufficio stampa) ha risposto: “seguiamo costantemente, con massima attenzione. Il riserbo è nell’interesse di Azzarà”. Per cui difficilmente se ne saprà di più. Qualcosa però non torna in una vicenda che, data per risolta nello spazio di un mese, si è rivelata complessa e, per l’opinione pubblica, indecifrabile. Proprio per questo, sul caso Azzarà occorre tenere accesi i riflettori.
Liberate Francesco!
Francesco Azzarà è un operatore di Emergency, logista nell’ospedale pediatrico che l’Organizzazione di Gino Strada ha aperto a Nyala, Darfur. Dal 14 agosto è prigioniero di un gruppo di terroristi, o forse di una banda di criminali, come ce ne sono tante nei luoghi di guerra, che si autofinanziano attraverso i rapimenti degli occidentali, preferibilmente volontari di Organizzazioni Non Governative. Sulla questione, i punti oscuri sono ancora maggiori rispetto alle certezze. La Farnesina sta facendo il suo lavoro, ma non lascia trapelare nulla, probabilmente per non compromettere la riuscita della trattativa. Insieme ai reporter, i volontari sono, incredibilmente, gli obiettivi più facili di una guerra: in genere non sono armati e sono sempre sovraesposti rispetto a chi assiste comodamente seduto nei divani degli alberghi, in attesa delle veline dei governi. Emergency, poi, ha fatto della presenza sul campo la propria ragione di vita. Ed è davvero vigliacco attaccare chi dedica la propria vita per curare persone che altrimenti non avrebbero alcuna assistenza sanitaria, nei teatri di guerra più difficili.
Nell’ultima settimana, la mobilitazione per chiederne la liberazione, iniziata quattro giorni dopo il rapimento con la fiaccolata svolta a Motta San Giovanni (RC), paese natale di Azzarà, è cresciuta e ha coinvolto anche le istituzioni politiche. Diversi Comuni (per primo quello Firenze), la Provincia di Reggio Calabria e la Regione Calabria, hanno srotolato dalle finestre l’immagine di Francesco, le iniziative si susseguono una dopo l’altra e il tam tam, approdato sul web, si sta diffondendo velocemente.
Francesco Azzarà è un calabrese che fa onore alla nostra regione. Speriamo che la sua vicenda si possa risolvere al più presto. Nel frattempo, teniamo accesa la fiammella della speranza.
Dalla parte di Gino
“Non sono colpevoli”: con questa motivazione sono stati rilasciati Matteo Pagani, Marco Garatti e Matteo Dell’Aira, i tre volontari di Emergency che erano stati arrestati dalle autorità afghane il 10 aprile a Lashkar-gah (dove sorge un ospedale dell’organizzazione fondata da Gino Strada), con l’accusa gravissima di essere tra gli organizzatori di un attentato contro il governatore della provincia di Helmand.
Per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la liberazione dei tre volontari è “un sollievo per tutti”. Forse lo è di meno per quelli che sin dal primo momento avevano gettato benzina sul fuoco, avallando acriticamente un’accusa inverosimile e infamante sulla base di un pregiudizio ideologico molto diffuso a destra: Strada è un irregolare, dogmatico nel suo ripudio della guerra “senza se e senza ma”; Emergency non fa distinzione nel prestare soccorso ai feriti, siano essi civili, militari o terroristi. Per questi motivi, ha abbastanza credito in certi ambienti la deduzione di relazioni pericolose con i fondamentalisti islamici.
I primi ad avvalorare la tesi di “Strada terrorista” erano stati i giornali del Gran Capo, con il ritratto a tutta pagina del fondatore di Emergency vestito da talebano o con alcuni titoli (“Terroristi, vittime o pirla”) che insinuavano il dubbio di una complicità quasi necessaria, a meno che i volontari non fossero davvero degli sprovveduti.
Anche qualche politico con responsabilità di primo piano ha sentito il bisogno di esternare e non ha fatto di certo una figura leggendaria.
Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri: “Il governo italiano deve accertare la verità, mi auguro che la verità dia ragione a Gino Strada, ma ho delle perplessità”. Parole non esattamente improntate alla cautela, tanto per usare un eufemismo, condite dalla stoccata finale: l’accusa a Strada e ad Emergency di fare “un po’ troppa politica” a dispetto della vocazione umanitaria. Anche le dichiarazioni di Larussa e Capezzone sono apparse quasi compiaciute per l’imbarazzo e la difficoltà in cui si è trovata Emergency. Segno che non deve essere la simpatia il sentimento più diffuso negli ambienti governativi e che a qualcuno non sarebbe affatto dispiaciuto approfittare dell’incidente per screditare e distruggere mediaticamente il detestato Strada. D’altronde, ONG e cooperanti, ma anche giornalisti e freelance (come Enzo Baldoni o Giuliana Sgrena) sono spesso dipinti come quelli che, in fondo “se la cercano”, alla stregua degli incoscienti che vanno in vacanza in Yemen nonostante le raccomandazioni contrarie del governo.
Su cosa possa celarsi dietro la scoperta dell’arsenale trovato all’interno dell’ospedale (due cinture da kamikaze, cinque pistole, nove bombe a mano) non ci sono molte certezze. È stato rievocato il rapimento di Daniele Mastrogiacomo (2007), una vicenda che lasciò strascichi a causa del ruolo decisivo svolto da Emergency nella trattativa per la liberazione del giornalista di Repubblica. In particolare, i fratelli dell’autista di Mastrogiacomo, che fu barbaramente sgozzato dai talebani, hanno accusato l’ospedale di essere una “centrale” del terrorismo.
Per Strada si tratta invece di un complotto ordito dai servizi di sicurezza afghani e dalle stesse truppe britanniche Isaf per togliere da quell’area un testimone scomodo (Emergency) nel momento in cui si profila l’offensiva di primavera contro i talebani di quella provincia, che presumibilmente verrà condotta senza tanti riguardi per la popolazione civile. Gli arcinoti “effetti collaterali” delle guerre, ma anche di quell’ossimoro che è la missione di pace condotta da soldati armati fino ai denti.
Se fosse davvero questo l’obiettivo, purtroppo è stato raggiunto, dato che l’ospedale è stato momentaneamente chiuso e tutto il personale trasferito a Kabul.