In ricordo del professore Elio D’Agostino

«Tìtyre, tù patulaè/ recubàns sub tègmine fàgi». Non so se ancora nelle aule del liceo si usa studiare la metrica latina, ma se sento pronunciare il nome di Elio D’Agostino il primo pensiero corre al celeberrimo attacco della prima egloga delle “Bucoliche”, all’armonia e alla musicalità dell’esametro prediletto da Virgilio nel dialogo tra Titiro, sdraiato all’ombra dell’ampio faggio, e il povero Melibeo, in procinto di partire per l’esilio dopo essere stato privato dei suoi beni. Ricordi vecchi di trent’anni, nei quali intravedo i contorni sfocati di ragazzi armati di matita che tentano di porre gli accenti sui versi latini in maniera corretta. Mentre il professore, a volte ascoltando con gli occhi chiusi, come se si trovasse nella campagna mantovana che fa da cornice alla conversazione tra i due pastori, interviene per correggere eventuali errori.
Il professore D’Agostino ci ha insegnato che il latino non è una lingua morta: essa parla al presente, ci mette in relazione con le nostre radici perché racconta una storia della quale tutti noi siamo figli e che è sempre attuale. Ancora oggi, quanta gente come il Melibeo di Virgilio perde tutto ciò che ha ed è costretta a scappare dalla propria terra, a causa di una guerra?
In un tempo in cui tutto viene bruciato nello spazio di un secondo, nell’eterno presente che caratterizza l’attuale società, dove ogni pensiero e ogni avvenimento vengono messi in discussione con esiti drammatici sotto il profilo culturale e sociale, studiare il latino rappresenta un argine al disorientamento: non si può comprendere il presente senza conoscere il passato, né – tantomeno – si può guardare al futuro con fiducia.
La più grande lezione del professore D’Agostino va rintracciata proprio nella capacità di fare “parlare” al presente gli autori che ci presentava, fossero i classici latini o gli scrittori del libro di storia della letteratura italiana, che ci affascinava per la copertina con l’opera “Il bibliotecario” del pittore Giuseppe Arcimboldo, l’inventore delle cosiddette “teste composte”, ritratti allegorici realizzati attraverso la composizione di oggetti, animali, fiori e frutta. Libro che a lui serviva come pezza d’appoggio, poiché le sue spiegazioni pescavano a piene mani da una formazione culturale personale vastissima.
Con Dante, questo aspetto emergeva in maniera luminosa. Le lezioni sulle terzine della Divina Commedia ci tenevano incollati alle sue parole, che planavano: erano esse stesse poesia. Ci ha fatto scoprire il lato nascosto o comunque meno conosciuto delle interpretazioni dei versi danteschi. Era quasi un gioco, per noi, andare a verificare se la sua spiegazione coincideva con le note di Natalino Sapegno. Anche se non ce n’era bisogno, perché lui stesso ci avvisava che per ogni terzina le interpretazioni potevano essere molteplici. Ce le proponeva tutte collegando il vicino con il lontano, l’alto con il basso, il passato con il presente. Nel suo viaggio ultraterreno, Dante è stato accompagnato da Virgilio; noi, nella scoperta dell’opera del Sommo Poeta, dal professore D’Agostino. Per mano, tra la folla di anime che popolano le tre cantiche e che allegoricamente rappresentano vizi, virtù e stati d’animo universali: custodi di insegnamenti validi in ogni tempo, che ci ricordano – riprendendo il monito di Ulisse – che siamo stati creati “per seguir virtute e canoscenza”.
Una volta arrivato a Sant’Eufemia, D’Agostino non è più andato via. Ha messo radici in una scuola nella quale mancava tutto, tranne che la passione di docenti (altri due grandi insegnanti della mia generazione sono stati Rosario Monterosso e Adoneo Strano, anch’essi rimasti al “Fermi” per lunghi anni e fino al pensionamento) animati da spirito missionario in un liceo scientifico che non aveva laboratori, palestra e neanche i riscaldamenti, soltanto una stufa elettrica in ogni classe. Altri tempi, ovvio. Inutile precisare che ogni considerazione va contestualizzata e che la scuola di oggi non è la scuola di ieri, senza per questo volere esprimere un giudizio di valore: si tratta di una realtà in continua evoluzione come la società nel suo complesso, come noi stessi.
Un aspetto è rimasto invariato rispetto a quegli anni: la natura di scuola di frontiera del liceo di Sant’Eufemia, la sua funzione di presidio di cultura e di trincea di legalità autentica e sostanziale, non di parata. Estendendo a tutti i gradi dell’istruzione le parole di Gesualdo Bufalino, è la scuola, con il suo esercito di maestri, la risorsa più efficace nella lotta alla criminalità. Elio D’Agostino ha difeso quel fortino fino all’ultimo giorno di servizio, svolto con rigore ma anche con grande comprensione. Riuniti nel suo liceo, noi alunni di ieri non possiamo che ricordare con affetto e con gratitudine il docente, l’educatore e il padre di famiglia che ha accompagnato amorevolmente il percorso di crescita dei suoi allievi.

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Un convegno e una targa in onore del professore Elio D’Agostino

Sabato mattina, presso il liceo scientifico di Sant’Eufemia, si svolgerà un’iniziativa di assoluto rilievo, organizzata dal liceo e dal Comune e caratterizzata da due momenti significativi: il convegno di studi “La centralità del periferico. L’attualità dei classici”, con gli interventi degli autorevoli relatori presentati nella locandina, e lo scoprimento di una targa commemorativa in onore del professore Elio D’Agostino, che del nostro liceo è stato, a lungo, colonna portante.
Sarà importante esserci, per testimoniare la riconoscenza degli eufemiesi nei confronti di una personalità che tanto ha dato per la crescita culturale e sociale della nostra comunità.

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L’ultimo saluto al professore Elio D’Agostino

Ci siamo ritrovati in tanti a Santo Stefano, stamattina, per porgere l’ultimo saluto al professore Elio D’Agostino. In una sorta di appello intergenerazionale, molti ex studenti del liceo scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte si sono stretti alla moglie Elvira, ai figli Linuccia, Rocco, Cristian e Simone, con le rispettive famiglie. E se, mentre si svolgeva la funzione religiosa, la malinconia dei ricordi inevitabilmente strappava le ragnatele del tempo, l’affetto per il nostro vecchio professore di italiano e latino ha riportato tutti sul piano confortante dell’eredità culturale e morale da raccogliere e custodire come una gemma preziosa.
La mente è corsa velocemente a Dante. Le lezioni del professore D’Agostino sulle terzine della Divina Commedia ci tenevano incollati alla parola. Ci ha fatto scoprire il lato nascosto o comunque meno conosciuto delle interpretazioni dei versi danteschi. Era quasi un gioco andare a verificare se la sua spiegazione coincideva con le note del Sapegno. Anche se non ce n’era bisogno, perché lui stesso ci avvisava che per ogni terzina le spiegazioni potevano essere molteplici. Ce le proponeva tutte collegando il vicino con il lontano, l’alto con il basso, l’antico con il recente. Grazie a lui abbiamo amato il Sommo Poeta e sopportato la metrica latina.
Per tre decenni è stato un solido punto di riferimento all’interno della comunità eufemiese. Ha continuato ad esserlo anche dopo il pensionamento, quando non era infrequente vederlo partecipare ad iniziative culturali, in particolare quelle organizzate dall’Associazione “Terzo Millennio”. Seduto tra il pubblico, gli occhi semichiusi come a cercare il filo di un intervento che avrebbe messo tutti d’accordo, ognuno di noi attendeva che prendesse il microfono. Il silenzio che circondava le sue parole era la prova più evidente del riconoscimento di un’autorevolezza culturale assoluta.
Sono stati diversi gli allievi che andavano a trovarlo a casa, specialmente chi dopo la maturità aveva intrapreso un percorso universitario umanistico o chi aveva bisogno di consigli per la preparazione dei concorsi per docenti nelle scuole. È stato generoso con tutti, a dispetto della fama che lo dipingeva come un po’ avaro nella valutazione degli studenti. In realtà, D’Agostino non era severo nei giudizi. Era giusto, come dovrebbe essere ogni insegnante che abbia veramente a cuore il bene dei suoi ragazzi. La sua integrità morale garantiva l’accettazione di qualsiasi voto da parte di studenti e genitori. I voti bassi non erano un giudizio divino, ma un pungolo a fare di più e meglio. Traevano origine da un profondo senso del dovere, contro il quale imprecavamo quando, seppure leggermente in ritardo, arrivava a scuola nonostante la neve caduta nella notte lungo la strada che da Santo Stefano portava a Sant’Eufemia.
La mia generazione ha avuto la fortuna di trovare nel liceo di Sant’Eufemia docenti preparati ed educatori straordinari (Elio D’Agostino, Rosario Monterosso, Adoneo Strano), entrati nel cuore degli studenti e delle famiglie con la forza dell’esempio, dell’empatia, dell’umanità e dell’umiltà. Nel suo intervento sul sagrato della chiesa Francesco Luppino, allievo del “Fermi” e oggi primo collaboratore del dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Don Bosco”, ha sottolineato l’importanza di D’Agostino nella formazione di intere generazioni di eufemiesi: «Ha dedicato la sua vita alla scuola non come un lavoro, ma come un dovere, sentendo profondamente la sua missione di educatore nel senso socratico, cercando di far emergere dagli alunni le loro singole potenzialità, incoraggiandoli ma nello stesso tempo con la sua fermezza, la sua serietà e il rigore morale richiamandoli al senso del dovere, aiutandoli, aiutandoci a maturare come uomini in mezzo agli uomini, con la responsabilità del sentirsi tali».
Il mio ultimo ricordo da liceale è legato alla prova orale dell’esame di maturità. Nel 1992 la commissione era composta da docenti esterni e da un solo rappresentante interno, che per la mia classe fu il professore Monterosso. La mattina in cui dovetti sostenere l’esame era però presente anche il professore D’Agostino, che aveva accompagnato la figlia Linuccia, mia compagna di classe. Mi vide vicino ad una finestra, mentre cercavo di concentrarmi e di tenere a bada la tensione. Si avvicinò e con la sua consueta calma mi disse: «Come va? Stai tranquillo. Vedrai che andrà tutto bene», con lo sguardo e il tono di voce del genitore, non del docente.
La comunità eufemiese piange insieme a quella di Santo Stefano la perdita di un grande figlio. In un pubblico manifesto affisso per iniziativa di Carmela Cutrì, allieva ed erede della cattedra che fu di D’Agostino, gli alunni transitati dal “Fermi” hanno preso in prestito le parole di Seneca («Da un uomo grande c’è qualcosa da imparare anche quando tace») per rivolgere al loro professore un saluto riverente: «Ha lasciato un segno indelebile in ognuno di noi, PROFESSORE. Grazie per i suoi insegnamenti, la sua grande umanità, la sua fermezza, la sua immensa cultura, il suo irreprensibile senso del dovere. Grazie per quanto ci ha donato».

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