Buon anno

Niente è come sempre. Nonostante i nostri «è la solita vita», «non cambia mai nulla». Una routine sbadigliata con rassegnazione. Eppure. Eppure questa apparente quotidianità non scivola addosso senza penetrare nelle carni. Non si è impermeabili allo scorrere del tempo. Il 2018 è passato inutilmente? Non credo. Sono lo stesso uomo del 31 dicembre scorso? Non penso. Ogni avvenimento vissuto più o meno in prima persona modella la nostra personalità, rafforza antiche convinzioni o genera opinioni nuove, diverse. Quanta vita si può vivere in un anno? Tanta o poca, dipende.
Si vive ogni volta che si ama, ogni volta che ci si guarda attorno con occhi avidi di sapere, ogni volta che si dà uno schiaffo alla solitudine, ogni volta che si reagisce all’ingiustizia e si è disposti a lottare per qualcosa o qualcuno senza secondi fini.
Si muore ogni volta che il cuore si inaridisce, ogni volta che «non mi riguarda», ogni volta che si lascia correre per quieto vivere, ogni volta che l’indifferenza prende il sopravvento.
«I care» è l’insegnamento di don Lorenzo Milani: mi importa, ho a cuore. Mi importano, ho a cuore molte cose. Questi interessi fanno di me la persona che sono e mi hanno consentito di vivere il 2018 esattamente come volevo. Che è cosa diversa dall’essere stato perfetto, impeccabile. Ma mi basta. Non ho altra aspirazione che quella di riuscire a vivere secondo il mio carattere e onorando i miei valori.

Il 2019 è al momento un’ipotesi nebulosa. Porterà cambiamenti o forse no. Chi può saperlo?
Spero di continuare a leggere e a scrivere, di sorridere e di fare sorridere, di godere dell’amicizia disinteressata di tante belle persone che fanno parte della mia vita. E di coltivare ogni giorno la curiosità: la voglia di imparare è la molla che ci spinge ad essere migliori.
Buon 2019 a tutti

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Schegge di 2018

Non è un bilancio. Mette tristezza fare bilanci. Sanno di conclusione, di definitivo, di irreversibile. Mentre la vita è un continuo divenire e ogni esperienza si incastra nel già vissuto: obiettivi da raggiungere, incontri, situazioni che confermano o modificano l’approccio con il mondo che ci circonda proiettandoci nel futuro che auspichiamo, temiamo, inseguiamo. La vita è un affascinante percorso a tappe. Ogni tappa rivela fatica, gioia, dolore. È tutta vita, da ascoltare anche quando la subiamo.
Cosa resterà, dunque, di questo 2018? Cosa mi resterà?
Il libro, certo. Il poeta e scrittore cubano José Marti sosteneva che “ci sono tre cose che ogni persona dovrebbe fare nella propria vita: piantare un albero, avere un figlio e scrivere un libro”. Sono tre azioni che profumano di domani, di un tempo che non vivremo e che non sapremo, ma nel quale forse ci saremo ugualmente.
La ricompensa per gli anni dedicati alla ricerca è una sensazione molto soggettiva, di “utilità” per una comunità che non può essere tale senza una memoria storica da condividere e da tramandare. Si tratti del libro sui soldati eufemiesi nella Grande guerra o degli articoli per il blog su Tito Fedele, Francesco Marafioti, Francesco Antonio Colella, Nino Fedele, Mimì Occhilaudi, Vincenzo Pietropaolo, i Wood o “il custode di vite”.
La ricompensa è negli incontri e nelle parole scambiate grazie a questa attività con persone che non conoscevo, con gli amici di sempre, con i ragazzi del liceo “Fermi”.
Bisogna avere cura della memoria. Una donna straordinaria come Liliana Segre ce lo ricorda con parole che tutti dovremmo ripeterci come un mantra, per non darla vinta – nel suo caso, ma il discorso ha un carattere più generale – ai criminali che hanno staccato dal selciato di una via della capitale le pietre d’inciampo con i nomi degli ebrei deportati e gasati nei campi di sterminio nazisti. Per questo non è stata per niente una buona notizia constatare che nella Giornata dei Musei della Calabria, alla quale aveva aderito anche il Piccolo Museo della Civiltà Contadina di Sant’Eufemia, le visite si sono contate sul palmo di una mano.
Occorrerebbe essere più presenti, partecipare al di fuori dello specchio deformante di social che frequentiamo con assiduità. Siamo sempre pronti ad esprimere la nostra opinione su tutto, in un mondo che sembra racchiuso nei trenta centimetri che vanno dai nostri occhi al display di un computer o di un telefonino. Pretendiamo di possedere la verità sulla tragedia del piccolo Alfie, sul dramma di Nadia Toffa, sulle infinite occasioni di “dibattito”: politica, medicina, economia. Utilizzando spesso toni aggressivi, vergognosi, imbarazzanti, che denotano un clima di preoccupante imbarbarimento. Non c’è materia sulla quale non sentiamo di potere (e dovere, in un certo senso) esprimere la nostra opinione.
Sappiamo tutto. Sappiamo tutto e invece non sappiamo niente. Siamo persino entrati nella testa di Pietro Tripodi, qualcuno ha addirittura sentenziato che potesse essere pericoloso. Senza immaginare che nella borsa che portava sempre con sé c’era la sua felicità. Ciò che a molti è potuto sembrare incomprensibile, era la sua vita. C’è poco da capire e meno da spiegare: massimo rispetto per un uomo che è passato accanto a noi senza disturbare e che senza disturbare è andato via.
Intanto si emigra come non accadeva da tempo. Un’emorragia di forze sane, preparate, con le carte in regola per affermarsi e per fare la differenza in tutti i campi. «Ce ne andiamo – scriveva Franco Costabile nel 1964 – senza sentire più/ il nome Calabria/ il nome disperazione». Ora come allora incapaci di reagire al dramma sociale di una terra che non riesce a dare una possibilità ai propri giovani e, in definitiva, a se stessa.

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Lettera dal Quirinale

Una ventina di giorni fa avevo inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella una copia del libro “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra”. Lo ritenevo un gesto doveroso nei confronti di colui che “rappresenta idealmente la storia della nostra patria”, come scrissi nella lettera di accompagnamento.
Ieri ho ricevuto la risposta dell’Ufficio di Segreteria del Presidente della Repubblica. C’è un passaggio che mi emoziona e che voglio condividere perché in poche parole racchiude il senso di tutti i miei scritti sulla storia di Sant’Eufemia: “testimonianza dell’impegno civico con cui segue la storia del Suo territorio”.
Questa è per me la più grande gratificazione. Ed è anche un riconoscimento di quanto siano preziose le piccole case editrici come “Il Rifugio” di Reggio Calabria che permettono di tirare fuori dall’oblio vicende minime, di dare a personaggi sconosciuti dignità pari a quella dei più celebrati protagonisti della Storia grande.

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Bannato da Facebook

È capitato anche a me: prima o poi doveva succedere. «Questo post non rispetta i nostri standard della community, pertanto nessun altro può vederlo». Il blog è stato bannato da Facebook, per cui – al momento – non è possibile condividerne i contenuti. Me ne farò una ragione. Ora non so cosa posso fare, mettersi in contatto con Facebook è impossibile, se non rispondendo alle Faq. E tutta questa voglia onestamente non ce l’ho.
In tutti questi anni ho utilizzato quel social soprattutto per dare più visibilità ai contenuti del blog, che sinceramente non mi sembra siano così terrificanti!! In otto anni ho scritto quasi 600 articoli, che hanno avuto quasi 400.000 visualizzazioni: la maggior parte racconta la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte (il mio paese), i suoi personaggi più o meno famosi e quello che ho ritenuto bello raccontare per rafforzare l’identità collettiva della comunità eufemiese.
Non sono un genio, non mi sento migliore di altri (forse dei coglioni che hanno fatto bloccare le condivisioni un po’ sì). Sono uno che cerca di mettere a disposizione degli altri quel poco che ricerca, per saperne di più, e che ha piacere a condividere i risultati della sua curiosità con gli altri. Insomma, non proprio un terrorista.
“Messaggi nella bottiglia” non ha inserzioni commerciali: questo per dire (ma chi mi conosce lo sa bene) che dell’aspetto dei possibili ricavi che può dare la gestione di un blog non mi è mai fregato niente. Altrimenti avrei fatto altro. Che a qualcuno questa mia attività possa avere creato disturbo mi fa provare pena: viviamo un momento davvero brutto, dove le piccinerie dei nani danno la misura del livello delle persone e della società che ci circonda. Ma forse è vero che la cultura è un’arma pericolosa.
Siamo governati dagli algoritmi e le competenze, soprattutto nel campo della comunicazione, valgono sempre di meno. Così può accadere che una segnalazione, fatta da qualcuno al quale evidentemente stai sulle palle, possa limitare la tua libertà di pensiero. Un mondo superficiale governato con superficialità. Il post segnalato, per dire, raccontava le mie vicissitudini, causate da una diagnosi fortunatamente sbagliata e conclusasi con un bel lieto fine. Chissà che non sia stato proprio il lieto fine ad avere “disturbato” chi ha segnalato il blog!
Ridiamoci sopra: si continua ad andare avanti. “Messaggi nella bottiglia” è uno strumento utile principalmente a me stesso. Il fatto che io ci scriva non dipende insomma dal numero dei lettori, anche se indubbiamente fa piacere sapere di avere un seguito, composto da gente che mi stima o che è semplicemente curiosa di sapere ciò che scrivo. Una vita senza curiosità è una vita a metà.
Forse la sto facendo lunga, ma il senso di queste parole è che continuerò come sempre a scrivere sul blog, nonostante un po’ di comprensibile amarezza per il mondo incattivito nel quale viviamo. In qualche modo, cercherò lo stesso di comunicarlo a chi, tra i miei contatti Facebook, nutre interesse per quello che scrivo.

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Il mio secondo padre

Molti pensano che Nino Altavilla sia mio zio, insomma che lui o sua moglie Eufemia siano fratello o sorella di uno dei miei genitori. Non è così e la storia che lega le nostre due famiglie è la testimonianza di come a volte i rapporti di amicizia siano più forti, più profondi di quelli di sangue.
Vorrei scrivere qualcosa di bello, oggi che Nino compie settant’anni, anche se so di correre il rischio di apparire agiografico o retorico. Due aggettivi che non si conciliano con la sua personalità riservata. Non apprezzerebbe. Probabilmente un po’ di fastidio lo proverà anche se verrà a conoscenza di queste mie parole: i festeggiamenti “in suo onore” non li ha mai graditi. Comunque capirà e mi perdonerà.
Come faccio a mettere da parte sentimenti che riempiono la mia vita dal 1977, da quando con i miei genitori e fratelli tornammo dall’Australia? Ce ne innamorammo allora, con Luigi e Mario. Abbiamo giocato sulle sue ginocchia, goduto della sua simpatia e del suo affetto smisurato, della sua naturale capacità di farsi amare dai bambini: nei miei nipoti oggi rivedo noi piccoli, che stravedevamo per lui.
Nella casa dei suoi genitori, nel cortile dove anch’io sono cresciuto, ho ascoltato le storie della dura alba del Novecento. Ancora, i racconti della sua infanzia, ricordi di bambini sgualciti del secondo dopoguerra che avevano sempre mondi nuovi da scoprire e avventure da vivere in spazi sconfinati. Spericolati o forse soltanto più liberi e geniali con i loro giochi di strada, la caccia ai nidi e alle lucertole, gli orti razziati, i bagni nelle fiumare. I mille mestieri dai “mastri” più disparati. Le avventure ardimentose con mio padre (la foto sotto li ritrae in piazza municipio) e con i giovani della sua generazione, quasi tutti poi emigrati. Come Nino, che all’inizio degli anni Settanta va a finire a Cuba: e mi sembra un eroe della Frontiera in sella al suo cavallo, allacciati agli stivali gli speroni in seguito regalati a mio fratello Luigi.
Ma non voglio raccontare Nino, né la forza di questi suoi settant’anni. Mi ha insegnato l’amicizia vera, quella che non si lascia sfiorare dal dubbio se sia il caso di lanciarsi contro il fuoco; quella fatta di parole di verità e di giustizia, sempre. Non si diventa casualmente punto di riferimento per fratelli, sorelle, nipoti, amici: occorrono saggezza, generosità, rispetto dell’opinione altrui, lealtà.
Un uomo “preciso” che pretende serietà e che in ogni circostanza sa pesare le parole, trovare i modi giusti, dare i consigli più opportuni: questo è Nino, il mio secondo padre.

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Il segnalibro

Mi prendo la libertà di darti del tu, anche se mi viene da sorridere: è proprio vero che la rete ci rende tutti più disinibiti, sfacciati se si vuole. Il prossimo sei novembre saranno sei anni senza di te. Sei lunghissimi anni, sei brevissimi anni.
Mi piace questa fotografia che ci ritrae nell’estate del 2009, alla presentazione del mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Era la “tua” Sant’Eufemia, io uno dei tuoi tanti ragazzi. Uomini e donne ormai, che ti fanno vivere nei ricordi scambiati ogni volta che il discorso cade su di te, il professore Rosario Monterosso. Un miracolo che ci fa sentire tutti compagni di banco, in barba alle rispettive appartenenze generazionali. Vento in faccia che non sferza, profumo di prati e di speranza: i nostri vent’anni. Ma forse sto divagando.
Mi piace questa immagine scolpita nel tempo, per sempre: tu guardi qualcosa, cerco di arrivarci pure io. Come nell’aula, incantato dalle tue spiegazioni. Tutt’orecchi. Rivedo il ragazzo che è cresciuto inseguendo il tuo sguardo, per capire dove si sarebbe posato, per cercare di vedere con i tuoi occhi.
La dea della memoria è figlia del cielo e della terra. Le vette del pensiero e la materialità dei bisogni degli uomini nei due luoghi che hai frequentato per tutta la vita, dove ci hai accompagnato tenendoci per mano. Divago ancora.
Ora è diverso. Cerco i sassolini che hai fatto cadere dalle tue tasche per trovare la strada, come nella fiaba. Tento di saltare dentro le tue grandi orme, un passo dietro l’altro, provo a seguirle nel bosco per riuscire ad uscirne. Chissà.
Ti vedo sui tuoi libri, che oggi continuano a vivere nella mia libreria e che spero un giorno possano continuare a respirare altrove, ancora. Sei nel tuo studio, dietro c’è il tuo amato orto. L’orto del professore contadino: il pomodoro da legare, le erbacce da pulire. Nella curva che ancora oggi mi fa rallentare per vedere se sei là, come un tempo.
Tra le parole lette e meditate nel tuo paradiso borgesiano c’è la tua firma: un’annotazione a margine, una sottolineatura, un segnalibro. Come la striscetta di cartone trovata nei racconti di Mario Rigoni Stern (Tra due guerre e altre storie), che conforta una mia antica consuetudine e che là resterà, dove l’hai messa tu:

Ora siamo sazi, abbiamo le nostre case, anche le nostre ferie, eppure mi pare manchi qualcosa. Così in questi giorni sono andato al cimitero. È un posto davvero tranquillo e sereno; senza chiasso. Si sentono il canto degli uccelli e il ronzio delle api. È lì che ritrovo la mia Antologia di Spoon River, dove «tutti, tutti dormono, dormono; dormono sulla collina». È lì che ritrovo parenti stretti, prossimi e lontani, gli amici, le amiche, le storie di tanta gente che ho conosciuto, storie buone e non buone. Non è che pianga o sospiri; a volte mi viene anche da ridere. Rivedo in quei nomi, in quelle date tanto della mia vita, della vita del paese, la storia grande e quella piccola. Avevano ragione i greci quando dicevano che le muse sono le figlie della Memoria.

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La presentazione del libro come l’ho vista e sentita

Cosa mi rimane della presentazione del libro? Se riavvolgo il nastro e riparto dalla fine, dalla composizione floreale che il giorno dopo ho portato al monumento dei caduti, la prima cosa che penso è che non l’avevo preparata. Non ci avevo pensato prima, ma a ben vedere è stata la cosa più naturale dopo un pomeriggio dedicato alla memoria dei soldati di Sant’Eufemia.
Tutto l’evento si è svolto con una linearità sorprendente, come se un regista ne avesse scritto la sceneggiatura. Ogni cosa al suo posto, ogni parola misurata, incastonata nel quadro di un pomeriggio per me indimenticabile. Eppure gli interventi non erano stati “studiati”. Nessuno di noi sapeva cosa avrebbero detto gli altri, al massimo ne intuiva il tema per grandi linee, in base al profilo dei relatori. Io stesso avevo un foglio con degli appunti da sviluppare, ma credo di averlo fatto soltanto per metà: alla fine, mi mancavano ancora parecchie cose da dire. Un pomeriggio volato via leggero, tra tantissime persone rimaste fino all’ultimo. Attente, coinvolte, emozionate.
Mi interessava legare la piccola storia a quella grande, come con la lettura della poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”, un luogo che per gli studenti è il simbolo delle atrocità della guerra. Ma anche il luogo dove, nella stessa giornata (29 giugno 1916), morirono sei soldati di Sant’Eufemia, asfissiati dal fosgene e dal cloro dell’attacco chimico degli austroungarici. Corre una grandissima differenza tra “un” e “il”.
Ripenso alle notti trascorse al computer, spesso “ai computer” perché a lungo ho avuto bisogno di lavorare su due monitor. Sono soddisfatto perché ritengo di avere anche compiuto un atto di giustizia: tirando fuori dall’oblio due vittime della guerra i cui nomi non sono presenti nell’albo dei caduti, né tantomeno sono incisi sul monumento dei caduti (Giuseppe Ierico, Giuseppe Sofo); oppure “consegnando” alle rispettive famiglie le cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, scritte cento anni fa e mai giunte ai propri cari.
È stato toccante leggere l’emozione nei volti degli adulti intervenuti alla fine della presentazione per condividere con il pubblico i propri ricordi familiari. E mi ha riempito il cuore di speranza constatare l’attenzione dei giovani per quelle storie lontane che tanto hanno ancora da raccontare e da insegnare. C’è bisogno di sentirsi comunità e di poterlo rivendicare; di farlo pizzicando le corde giuste, sforzandosi di elevarsi dalla gretta quotidianità. Non esiste altra strada, se vogliamo sopravvivere a questi tempi così tristi.
Ripenso agli incoraggiamenti e all’attesa suscitati dagli “aggiornamenti” che ogni tanto pubblicavo sul mio profilo facebook: mi sono stati di grande aiuto. Non perché temessi di non farcela. La ricerca è stata lunga ma non pesante: niente è pesante quando si fa ciò che si ama. Ma è stato importante avvertire l’interesse di tante persone nei confronti del lavoro che stavo portando avanti.
I tanti messaggi ricevuti dopo la presentazione mi lusingano come uomo e come cittadino del mio paese, ancor prima che come studioso.
Tutto si tiene. Bisogna riuscire ad assecondare la propria indole, a coltivare le proprie passioni: scrivere, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, praticare sport o qualsiasi altra attività. Se si fa del bene a se stessi, ci sono buone probabilità di fare del bene anche alla comunità nella quale si vive.

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Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – La recensione di StrettoWeb

SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE E LA GRANDE GUERRA: LA COLOSSALE RICERCA CHE RESTITUISCE UNA STORIA E UN’IDENTITÀ AI CADUTI.
In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia d’Aspromonte offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli – Articolo di Monia Sangermano per StrettoWeb

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, un tema ostico e complesso, ma sempre attuale quello trattato da Domenico Forgione nel suo ultimo lavoro di ricerca, tramutato in un libro che a breve sarà dato alle stampe. Ciò che è accaduto in un periodo storico tra i più caldi che la storia italiana ricordi ha cambiato la conformazione umana e sociale di quasi i tutti i comuni della nostra penisola, andando a rivoluzionare soprattutto le regioni del sud. In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli. Forgione, esperto e appassionato di storia, ha voluto raccogliere in un volume tutte le vite di questi eufemiesi, “accompagnandoli” nel loro percorso di guerra e di vita, che li ha portati in alcuni casi a tornare dalle loro famiglie e in molti altri a trovare la morte in terra straniera. Una morte che ha dunque privato la comunità di un consistente patrimonio umano e che oggi, dopo un secolo, può essere ricostruito e fatto conoscere a tutti grazie a questa approfondita ricerca.
“Le fonti che ho utilizzato – spiega Forgione che ha portato a termine una minuziosa e certosina ricerca durata oltre 4 anni – sono diverse: i ruoli matricolari, ovvero 256 volumi con tutte le classi dal 1875 fino al 1900; l’Ufficio notizie, creato nel 1915 con sede centrale a Bologna (per i militari di terra e di mare); l’ufficio anagrafe del Comune. Alcuni dei documenti che ho avuto modo di analizzare, in particolare quelli dell’Ufficio notizie, erano lacunosi, mancavano dei dati, ma incrociandoli sono riuscito a venire a capo di tante storie, tante vite che da Sant’Eufemia sono partite e in alcuni casi purtroppo non sono più tornate. Complessivamente le schede dell’Ufficio notizie sono sessantamila e io ne ho utilizzate circa 1.500. L’Ufficio anagrafe del comune mi è stato molto utile per lo stato civile e in particolare per il nome delle mamme di questi ragazzi: ci tenevo molto, per un senso di giustizia anche nei confronti di queste madri che hanno sofferto in silenzio e con grande dignità subendo il dolore più devastante che un essere umano possa subire”. In totale i soldati censiti dal ricercatore eufemiese sono 580, ma probabilmente i suoi compaesani che hanno combattuto la prima guerra mondiale sono di più, di molti però si è purtroppo persa traccia.
“Il libro – racconta ancora Domenico Forgione – è costituito da una prima parte di introduzione generale, dove spiego che cos’è l’ufficio notizie, quali campi di prigionia hanno “ospitato” i nostri militari, quali sono state le principali malattie veicolate da e per la guerra, racconto la vita della trincea e descrivo i soldati, uno per uno, indicando nome, altezza e altri dati che potranno sicuramente interessare. Inoltre ho inserito un’appendice che contiene qualche cartolina dal fronte, qualche foto e soprattutto i grafici con le statistiche.”. Un tuffo nel passato, dunque, quello di Forgione che aiuterà molti suoi concittadini a comprendere il loro stesso presente, anche solo ricercando, tra quei 580 nomi, un cognome familiare, un “marchio” di famiglia, una storia già sentita dai racconti dei nonni.

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Sant'Eufemia oggi

Magari è soltanto una mia impressione, una percezione temporanea destinata a svanire con le nuvole dei pensieri tristi. Forse è proprio così, vorrei che fosse così. Una visione amara dovuta ai cicli naturali della vita, che portano via figure di riferimento per un’intera comunità mentre l’orizzonte appare confuso: tempo di mezzo, tra un’epoca che sta per finire e un’altra che stenta ad iniziare.
Mi chiedo come sarà domani, se ci saranno giovani pronti a raccogliere il testimone e a proseguire il cammino dei tanti che ci hanno preceduto. Avverto una malinconica sensazione di riflusso, di ripiegamento su se stessi. Come se la visione d’insieme non conti nella formazione e nell’esaltazione dell’anima di un paese. Come se trama e ordito non abbiano bisogno di tenersi stretti per dare vita a un tessuto. Quel tessuto sociale oggi sempre più sfilacciato, debole.
Non si fa un buon servizio se si dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non si è onesti con gli altri, né con se stessi. Sant’Eufemia si sta impoverendo, nonostante la caparbia di quanti si oppongono a un declino che è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta di politica, no. Quello semmai è l’effetto, non la causa. Le ragioni sono più profonde, strutturali: è un declino figlio della congiuntura storica contemporanea, della crisi economica ed etica che scava la roccia, giorno dopo giorno.
Un paese impoverito dai troppi salassi dell’emigrazione, chiuso anche fisicamente: che non prende aria, che non respira, che non vola. Negli ultimi anni sono scomparse associazioni storiche: l’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, anni fa; la Pro Loco, più di recente. Neanche la squadra di calcio esiste più. C’è l’isola felice del “Terzo Millennio”, ma è un’eccezione: una vitale eccezione. Il resto è fatica e caparbia di chi non vuole arrendersi, encomiabili e da incoraggiare. Ma il pluralismo associazionistico è ricchezza e carburante prezioso per la crescita culturale e sociale di una comunità, anche quando mostra la faccia della sana competizione.
Il liceo scientifico ad ogni inizio di anno scolastico fatica a comporre la prima classe: e fortuna che ancora ci soccorrono i paesi vicini. I nostri figli sono per lo più fuori. Le strade e le piazze deserte sono una pugnalata al cuore, il certificato di morte che accomuna i piccoli centri interni dell’Aspromonte.
Non ho la soluzione in tasca: osservo, considero. Nel mio piccolo cerco di fare il mio “pezzettino”, come altri, perché aveva ragione Robert Kennedy: «Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione».
Credo che si dovrebbe cercare di amare un po’ di più il proprio paese (tutti: chi ci vive, chi ci torna ogni tanto, chi guarda da lontano). Chissà che non sia questo l’antidoto giusto.

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Il ritorno del Bikini

Correvano i favolosi anni ’80: giocavo a calcio (of course), a tennis, pedalavo sulla bici da corsa. E divoravo un numero spropositato di Bikini, un gelato prodotto dall’Algida che ho adorato. In teoria avrebbe dovuto fare concorrenza al Maxibon Motta, anche se era molto diverso. Metà biscotto, come bordo una cornice di cioccolato, la parte superiore bigusto (vaniglia e cioccolato), ricoperto di cioccolato croccante e granella di nocciole. Negli anni ’90 fu ritirato dal commercio e sostituito dal Magnum Sandwich (buono, ma tutta un’altra cosa): un trauma dal quale ho faticato non poco per riprendermi.
Ad ogni inizio di stagione (che ora in realtà non ha soluzione di continuità, mentre al tempo iniziava in maniera “istituzionale” in vista della ricorrenza di San Giuseppe) rivolgo al mitico Tonino, che da 35 anni fornisce il bar di mio padre, la stessa angosciata domanda: «Perché non mettono nuovamente in produzione il Bikini?». Una preghiera finalmente esaudita quest’anno, per la gioia di un bambino un po’ cresciuto.
A questo punto e visto che sognare non costa nulla, consiglierei all’Algida di riproporre il Magnifico (ignominiosamente ritirato dal commercio qualche anno fa), ma soprattutto il tartufo nella coppa di plastica marrone scuro: gelato al tartufo e nocciole tritate (e il cuore cremoso di cioccolato con un non so che di liquoroso). Sulle pareti della coppetta restava attaccato cioccolato duro, sul fondo un paio di millimetri spessi e spaventosamente squisiti. In assoluto, il mio preferito e il mio rimpianto più grande. Una nostalgia lacerante.
Se poi qualcuno volesse completare il sogno, ridatemi pure il Vasco di “C’è chi dice no”, Altobelli e Rummenigge all’Inter, Pertini al Quirinale, Goldrake e Shingo Tamai, Bud Spencer, i giochi di piazza e i muretti sempre occupati da decine e decine di ragazzi felici solo per quello stare insieme.

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