Chissà se per te sarà un ricordo speciale quel pomeriggio trascorso insieme, da rinnovare con il sorriso che i grandi riservano agli episodi della propria fanciullezza; con la tenerezza che suscitano l’innocenza e la capacità di gioire per ogni apparente piccola cosa.
La tua prima volta in un campetto di calcio. Il pallone che sembra sfuggire veloce e il rettangolo verde una distesa vastissima per i tuoi pochi anni.
Tranquillo, sono qua. Il viso contro la recinzione, osservo la tua corsa inizialmente defilata rispetto agli altri. È tutto nuovo per te, giochi e bambini: è per quello, credo. Ogni tanto ti giri verso di me. Per essere guardato, per essere rassicurato dalla mia sola presenza. Mi piace la sensazione di questa tua assoluta fiducia in me, che sto fuori ma ci sono. Pronto eventualmente ad intervenire, come un supereroe invincibile.
Sono qua, e tu sei bellissimo con quelle gambette.
Sei bellissimo quando vai avanti e indietro, e ogni tanto ti fermi per prendere fiato.
Sei bellissimo quando mi corri incontro e ti aggrappi al mio collo.
Sei bellissimo quando mi racconti le tue impressioni su questa nuova scoperta.
Sei bellissimo quando ascolti le mie parole.
Perché, vedi, è vero che hai segnato “da solo”, calciando un calcio di rigore, mentre non ci sei riuscito quando giocavi con tutti gli altri.
Capita, quando il campo è troppo grande o se non ci si trova in una condizione favorevole; se ti trovi lontano dalla porta, ad esempio.
La vita dei grandi è uguale. Le difficoltà dipendono anche là dalle dimensioni del campo e dalla posizione che si occupa. Non si segna sempre. A volte si è addirittura capaci di fallirli i calci di rigore. E comunque ci sono gli altri, bisogna farci i conti: nel bene e nel male.
Eri contento per avere dato il “cinque” al compagno goleador. È una grande virtù riuscire a gioire dei successi di un amico o di una persona cara. Purtroppo non sempre è così, in futuro avrai modo di verificarlo tu stesso.
Ti sei divertito, sei stato felice: conta solo questo, ricordalo. Anche fuori dal rettangolo di gioco.
Tempo di partenze
Partono senz’allegria. Partono senza dolore. Sanno che si deve, come la medicina che va presa nonostante il suo sapore amaro. È una storia che si ripete, che si tramanda come gli occhi scuri o le spalle larghe. Sono le strade dei nostri nonni, dei nostri genitori. Di quelli rimasti a casa di Cristo e sepolti lontani. Di quelli tornati per i propri figli, perché a loro fossero risparmiati gli addii sulle banchine.
Invece no. Si parte ancora. Sui treni, con le auto, in aereo. Come un sortilegio. Giovani con i trolley imbottiti di speranza e adulti con gli occhi bassi della sconfitta. Senza rimpianti, le lacrime asciutte di chi comprende il senso dell’ineluttabilità. Anche il nodo in gola è meno acre. Per chi resta è un dolore sordo, da interpretare. Pensieri cattivi che si vogliono scacciare lontano, come nuvole spazzate dal vento; ed è inutile piangersi addosso. Non è più tempo di lamenti, né di rabbia.
Nessuno che li trattenga; nessuno che sia capace di lanciare lo sguardo al di là del proprio miserabile orizzonte. Terra persa, terra maledetta. Con i suoi tramonti mozzafiato, con il suo mare colore del vino, con i suoi alberi puntati contro il cielo. Terra bella e maledetta. Che non sa afferrare un braccio, che non sa dire “restate”.
È la sconfitta dell’amore. È una condanna ai ricordi e alle videochiamate, sul comodino i sassolini della spiaggia e le fotografie di una favola triste.
Tra poco sarà inverno, la stagione delle lunghe notti. Chissà quanto ancora durerà questo buio, se mai passerà.
Ciao, “zio” Pino
I ricordi sono increspature dell’acqua di un fiume che scorre prorompente: non so bene a quale aggrapparmi per tirarmi fuori da queste mura. O un cesto di ciliegie, fra le quali è complicato scartarne una perché sono tutte belle.
Belle come te, “zio” Pino. Ti chiamo come ti ho sempre chiamato, come ti abbiamo sempre chiamato noi che casa tua è stata anche la nostra.
Quella casa con la porta sempre aperta per chi ha voluto entrarci per scambiare due parole, guardare la televisione, fare una partita a carte, trascorrervi piacevoli serate attorno alla tavola imbandita come per una festa.
Quella casa riecheggiante di racconti antichi e delle tante voci che facevano da corona ai tuoi anziani genitori: anche gli occhi del bambino che ero molti anni fa, quando ti conobbi, percepivano la grandezza della semplicità dei sentimenti più autentici. L’amicizia vera è capace di regalare alle giornate grigie i colori dell’arcobaleno. La tua è stato un riparo nel quale abbiamo ristorato le nostre anime, a volte stanche di giorni pesanti.
Ricordavi spesso il senso dell’accoglienza di tua mamma, la generosità che illuminava quell’uscio e che apparteneva a un’altra epoca. Meno egoista di questa, meno ripiegata su se stessa e sulle tante cose di nessun valore se confrontate all’affetto e alla vicinanza delle donne e degli uomini delle rughe di un tempo. A quel nobile insegnamento sei rimasto fedele fino alla fine. Ed io, Diego e Pasquale siamo stati fortunati di poterne godere.
Ora un dolore acuto ci punge il petto, un senso di smarrimento profondo ci ammanta. Nella nebbia che avvolge la tua elegante e impeccabile figura intravediamo il tuo sorriso. Perché sono stati i sorrisi nostri ed i tuoi a impreziosire le ore accanto al caminetto o seduti sul divano.
Ci mancherai. Ci farà stringere il cuore vedere chiusa quella porta che ci attendeva la sera, alla fine delle nostre giornate.
Ma quando di te parleremo, racconteremo del conforto e della ricchezza dell’amicizia. Nonostante la solitudine, nonostante la tristezza, nonostante le lacrime di oggi.
Ciao, “zio” Pino
*Nei giorni trascorsi al di là del vetro della Rianimazione, avevo scritto per lui Chissà che pensieri fai:
Chissà che pensieri fai
se hai pensieri
nella bolla di sonno senza sogni
discorsi senza parole
viaggi senza passi.
Non è più la tua
quest’attesa di vetro
che ci separa,
di qua e di là della barriera
vita e morte.
Un sussurrare stanco
ferisce
dei giorni lenti
la quiete
e il muto presagio.
Chissà che pensieri fai
Chissà che pensieri fai
se hai pensieri
nella bolla di sonno senza sogni
discorsi senza parole
viaggi senza passi.
Non è più la tua
quest’attesa di vetro
che ci separa,
di qua e di là della barriera
vita e morte.
Un sussurrare stanco
ferisce
dei giorni lenti
la quiete
e il muto presagio.
*Photo @marioforgione
Vita da venire
Sorridono al sole scompigliati dalla brezza di primavera, irriverenti, fregandosene delle erbacce alte intorno. I papaveri sanno sfidare il vento e allontanare il presagio della sconfitta: resistono, senza temere la resa del gambo esile e dei petali sottili.
Stretti nelle mani di una bimba non sono un trofeo da innalzare. Si intonano con le labbra avide di parole nuove, di miele da mangiare, di fragole da baciare.
Rosso è sangue e orgoglio. E vita da venire.
«Rosso è il colore dell’amore», ce l’ha insegnato Pierangelo Bertoli.
Rosso è il sacro fuoco che tutto muove.
Ci facciamo cullare dal vento, con loro.
Danziamo, la mente rapita dalle macchie di porpora che si inseguono lungo i binari.
Una dietro l’altra, sogni o fole che si mescolano alla realtà e mettono i brividi.
Ciao, Franco
Ciao Franco, in questi giorni ho riguardato le fotografie dei momenti che abbiamo trascorso insieme grazie all’Agape. I tuoi sorrisi, i tuoi abbracci. Ti abbiamo ricordato tra di noi, ognuno raccontando un aneddoto, qualcosa che ci riportasse indietro a quei giorni di allegria. La magia del mondo del volontariato è questa bolla sospesa che si crea nelle vite di ciascuno di noi. Il tempo ha un ritmo suo, particolare: le lancette dell’orologio battono in maniera diversa che nelle nostre affannate giornate di routine.
Non c’è fretta, non c’è ansia, non ci sono preoccupazioni. Si sta insieme per il piacere di stare insieme, per godere della genuinità di sentimenti semplici e naturali che i pensieri della vita quotidiana tendono a comprimere, a tenere rilegati in un angolo nascosto.
Amavi il mare. I nostri ricordi più belli sono legati alle colonie estive. Abbiamo giocato come bambini; siamo stati allegri come bambini: noi, una ciambella e gli spruzzi dell’acqua. Niente altro, in un tempo sospeso e profumato di felicità.
La tua compagnia è stata un dono. La tua risata così forte e irrefrenabile la sento anche oggi. Mi piace pensare che sia il tuo saluto speciale e fragoroso: non un addio, ma un arrivederci a quando ci incontreremo e faremo ancora una volta festa.
Ci chiederai come stiamo e come stanno i nostri parenti. Troverai una ragione per chiedere “scusa”: lo facevi sempre quando qualcuno ti aiutava in qualcosa che non riuscivi a fare da solo. Quella parola, pronunciata da te, ha interrogato le nostre anime e le interroga ancora.
Ci hai insegnato che un volontario deve avere quattro, sei, otto occhi, leggere gli sguardi e possedere un alto senso di responsabilità. Non dobbiamo concederci neanche un secondo di distrazione, perché persone speciali come te ci vengono affidate dalle famiglie e tutto deve andare per il meglio.
È stato bello sentire addosso la fiducia di tua sorella e la tua: è stato tutto quando eravamo più giovani e lo è ora che siamo diventati adulti, con altri amici come te che rendono le nostre estati uniche.
Siamo gli incontri che facciamo, quelli che cerchiamo e quelli che arrivano inaspettati, come una benedizione.
Ti ringraziamo perché con la tua presenza hai reso le nostre vite più ricche di significato.
Buon viaggio, Franco
Il pane calpestato
Mi ha turbato molto vedere gente inferocita prendere a calci e calpestare il pane. Sono coltellate quelle parole piene di rabbia: «Devono morire di fame!».
Non voglio fare nessun ragionamento che possa apparire di parte, né utilizzare trenta bambini innocenti come scudi umani. Quale parte poi? Quella dell’umanità? Siamo arrivati al punto di dovere giustificare il gesto più nobile che un uomo possa compiere nei confronti di un suo simile?
I calci al pane, il piede che schiaccia la vita e la dignità dell’uomo: su questo bisognerebbe riflettere.
Ho ascoltato storie antiche che si perdono nella notte dei tempi. Quella notte che noi abbiamo voluto buia, per non pensare che accadevano pochi decenni fa; per non ricordare da dove veniamo; per cancellarle dal nostro album di famiglia.
Le storie dei contadini che scalavano a piedi i sentieri dell’Aspromonte con un tozzo di pane in tasca. Le storie di chi pranzava con pane e olive, di chi leccava una sarda e dava un morso a pezzo di pane, di chi ci sfregava sopra un tocco consunto di formaggio. Le storie di chi a 8-10 anni era già un uomo abile al lavoro: e proprio un chilo di pane era la sua paga giornaliera.
Ho visto mia nonna raccogliere il pane caduto a terra e baciarlo. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio anch’io. Ho visto mia nonna girare dal “lato giusto” il pane poggiato sulla tavola “a faccia in giù”: perché il pane è il volto di Cristo, diceva. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio pure io. Anche se non sono sicuro che il pane sia il volto e il corpo di Cristo. Ma so che il pane è il volto e il corpo dell’uomo, il suo sudore, la sua fatica, la sua dignità.
Questo mi basta per comprendere il sacrilegio di un gesto così disumano.
Seicento messaggi nella bottiglia
E pensare che tutto iniziò sotto la doccia. Si sa: sotto la doccia si canta e si pensa. A me capitava spesso di “voler dire delle cose” e di immaginare anche come le avrei scritte. Da qualche anno avevo smesso di scrivere per “Il Quotidiano della Calabria”, ma sentivo dentro di me parole che volevano uscire. Parole che non avevo mai scritto, anche perché da corrispondente locale del giornale avevo pochi margini sia come temi da trattare, che come spazi a me riservati per ogni articolo. Più o meno nello stesso tempo aveva pure chiuso i battenti la rivista “Incontri”, periodico eufemiese edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, sulla quale mi dilettavo a scrivere degli argomenti più disparati.
Sotto il flusso dell’acqua calda, tra aggettivi, verbi e sostantivi che si accavallano dentro la mia testa, decisi di ricavarmi sul web uno spazio dove potere esprimere i miei pensieri. Nacque così prima “Santeufemiaonline” e, da quell’idea, il 24 marzo 2010 “Messaggi nella bottiglia”. Al primo post del blog diedi un titolo che più personale non sarebbe stato possibile: “Minita”, come io stesso mi presentavo da bambino, quando ancora non riuscivo a pronunciare bene il mio nome. Perché sostanzialmente sono rimasto un bimbo curioso di scoprire il mondo che lo circonda.
Oggi i messaggi nella bottiglia sono seicento: fa effetto questo traguardo, perché l’esperienza del blog è stata per me fondamentale. Qui ho avuto la possibilità di continuare a coltivare la mia passione per la storia, con ricerche che poi sono finite sui libri dedicati alla storia di Sant’Eufemia. Qui ho scritto del mio paese e, a volte, inciso nel suo tessuto sociale e culturale con iniziative partite da alcuni articoli. In sintesi sono queste due ragioni a dare linfa al blog stesso, che considero un efficace strumento di comunicazione.
C’è poi l’aspetto umano, che non è affatto secondario perché la gratificazione alla fine è esclusivamente quella: e ovviamente fa piacere essere apprezzati per ciò che si scrive. Ogni tanto mi arrivano messaggi privati che considero medaglie: sono il più bel riconoscimento.
“Messaggi nella bottiglia” è il diario pubblico dei miei ultimi nove anni. Niente di più, niente di meno. Il post “Minita” si chiudeva con la considerazione che “può risultare utile affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria”. Ci penso sempre quando (è capitato proprio ieri) vengo contattato da qualcuno che ha scovato per caso sul web un mio articolo.
Adoro questa casualità, che nasce anche dalla volontà di non essere “invadente”. Sia chiaro: a me fa piacere che gli articoli vengano condivisi se altri decidono che vale la pena condividerli. Ci mancherebbe. Però mi affascina l’idea che sia l’articolo stesso a “chiedere” di essere diffuso perché ha contenuti interessanti; non che lo chieda il suo autore mediante una richiesta esplicita di condivisione, l’uso indiscriminato del tag dei propri contatti Facebook o la richiesta del “like”, l’intasamento delle chat di Whatsapp.
Scrivo assecondando interessi e gusti miei personali. Cerco di porre all’attenzione di chi legge avvenimenti e personaggi che mi sembrano significativi. Lo faccio con una libertà assoluta, nella scelta degli argomenti e nel modo di trattarli. Non è fantastico?
Un paese dormitorio
Provate a fare un giro per le strade del paese anche soltanto dopo le 21.00, non a mezzanotte. Un deserto. Incrocerete qualche rara macchina, a volte neanche quella. A me mette tristezza questo lento spegnersi di candela. Nell’ultimo decennio Sant’Eufemia ha avuto un crollo, è inutile girarci attorno. Come una persona anziana che di colpo si sveglia pieno di acciacchi e, a un certo punto, si lascia andare. I segnali c’erano già, anche prima di dieci anni fa. Perché l’emorragia di giovani prima o poi la paghi in termini di vitalità, di voglia di cambiare le cose, di spirito combattivo. Di dire: «Ci provo, comunque vada ci provo».
Si vive rannicchiati sulle proprie piccole certezze, che danno un minimo di tranquillità a chi le possiede. Ma per lo più si sopravvive, in tutti i sensi. Non è soltanto questione di economia, anche se i soldi sono oggi purtroppo al vertice della scala dei valori. È proprio apatia, come se niente potesse avere importanza al di là del proprio superbo deretano. Un paese rassegnato al declino, che ha subito una sorta di mutazione genetica. Che si indigna poco o niente, che ha fatto del quieto vivere la propria filosofia di vita. E che aspetta a bocca aperta. «Chi me lo fa fare?»: tutto ruota attorno a queste cinque miserabili parole. Non eravamo così. No, non eravamo così. Timidi, impauriti, servili.
E mentre una sorta di mutazione genetica sta stravolgendo il nostro stesso carattere, la nave affonda. Non basta ordinare all’orchestra di continuare a suonare. La nave affonda e là sopra ci stiamo più o meno tutti.
A Sant’Eufemia c’erano due filiali di banca: chiuse entrambe. Il centro di riabilitazione “Chirico” dava lavoro e forniva un servizio di assistenza fondamentale per i disabili del comprensorio: chiuso. L’associazione turistica Pro loco, dopo vent’anni, ha chiuso i battenti, preceduta dall’associazione culturale Sant’Ambrogio. Non ci è rimasta nemmeno la squadra di calcio, sparita; mentre il tennis aveva tirato le cuoia già da tempo. Ogni tanto ne ricordano funzione e gloria qualche lavoro di ristrutturazione del campo sportivo o la ritinteggiatura di quello da tennis, dovesse un giorno succedere un miracolo. Per chi crede nei miracoli.
Ricordi di un passato che sembra lontanissimo, mentre dietro gli scuri di questo moderno e triste dormitorio ognuno coltiva la propria solitudine.
Mila chilometri, mila attimi
Si fa presto a dire: «Era solo una macchina». Lo so che era solo una macchina. Però ci pensi. Pensi a quanta vita, in diciassette anni e 413.000 chilometri. Ero da poco tornato dagli Stati Uniti, dove con un team di ricercatori universitari conducevamo uno studio sugli italo-americani di terza generazione: New York era ancora sotto shock per l’attacco alle Torri Gemelle del settembre precedente. Dall’altra parte dell’Atlantico avevo assistito all’anatema scagliato da Nanni Moretti, a piazza Navona, contro l’intera classe politica della sinistra: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Mi sentivo un po’ girotondino pure io, lo ammetto.
Il mondo sembrava comunque andare secondo i miei progetti. Probabilmente proprio per questo arrivò lei, la Saxo: per affrontare meglio la discesa. Nonostante la stroncatura, vergata su carta da lettera (preistoria), di un mio carissimo amico: «Non ti posso lasciare un attimo che combini danni. Hai comprato una macchina a tre porte e senza aria climatizzata. Male, molto male».
Più tardi sarebbe arrivato il tempo del disincanto, la Saxo unica superstite di un sogno infranto. Ma anche testimone di una seconda vita.
Diciassette anni sono un tempo lunghissimo, soffiato sul palmo di una mano come polline.
Pensi all’allegria e alle lacrime. Alla felicità condivisa con chi ha voluto salirci, sulle note di una canzone. A quel viaggio di dolore fino in Francia. Ai libri nelle scatole chiuse con il nastro adesivo. Alla sabbia delle colonie estive. Alla neve che diventa acqua. Alle partite di calcio a cinque. A matrimoni, funerali, lauree. A fiocchi rosa o azzurri. Alle griglie e alle buste di carne. Alle birre di notte. Ai fogliettini volanti e al bloc notes nel cruscotto. Alle parole pensate, da dire, non dette. A chi c’era e a chi non c’è più. Collezioni di attimi.
Era solo una macchina. Eppure, prima di consegnarla allo sfasciacarrozze, non ho potuto fare a meno di darle un bacio sul vetro.