Il mio 2020 in otto L

LIBRI – Libri letti. Devo ad André Malraux, tratta da “La condizione umana”, la più efficace definizione di prigione: «il luogo in cui si arresta il tempo che altrove continua». Giorni sempre uguali a sé stessi, ripetitivi e interminabili. I libri sono distrazione e allenamento: ho avuto come coach Borges, Voltaire, Tabucchi, Carlo Levi, Vittorini, Sciascia, Sofri, Balestrini, Consolo, Bufalino, Hosseini e tanti altri. Libri da scrivere. Come quello interrotto il 25 febbraio, ora ripreso e quasi completato.
LASAGNE – Ricky Albertosi dichiarò di avere mangiato in cella i bucatini all’amatriciana più buoni della sua vita, probabilmente esagerando per non uscire dal suo ruolo di guascone. Io ho invece provato tanta tenerezza nel vedere l’impegno e la pazienza di chi cucina le lasagne, così come la pizza, le torte e tutto ciò che va cotto al forno… senza avere il forno, sopra un fornellino da campeggio. Lasagne che si condividono: un modo per farle viaggiare da un lato all’altro della sezione si trova sempre, se necessario anche con il metodo della canna da pesca.
LUNA – «Nei mari della luna i tuffi non si fanno»: a volte è grandissima e ti ci vorresti tuffare lo stesso, a dispetto dei Mercanti di Liquore. Ma nelle notti infinite è un puntino che forse ti guarda, forse no. Sta là, tutta compresa dentro un quadratino della rete della finestra. Stretta, stretta, come noi in sei passi avanti e sei indietro. Il blindo è un coperchio di bara fino al mattino successivo. A fendere la notte, la luce della torcia come un lampo o l’interruttore carogna, mentre dormi.
LOTTA – Lotta impari, contro un “dominio assoluto” che incredibilmente ha la faccia dello Stato. Lotta per avere riconosciuto anche il diritto di telefonare, quando ti viene negato con pretesti assurdi. Mentre le domandine vengono ignorate, oppure non si trovano e ogni giorno bisogna ripresentarle. Si aspetta, si aspetta, in una realtà nella quale nessuno è responsabile e tutti “eseguono degli ordini”. Eppure non si arretra, anche a costo di una punizione, per non perdere l’ultimo briciolo di dignità.
LUCE E LUTTO – Tra i libri letti, ho molto apprezzato “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, il cui intento è proporre emozioni, più che esporre ragioni: «Lusingandomi – precisa – che quelle sappiano non meno di queste spiegarci agli altri e, prima che agli altri, a noi stessi». A pagina 124 ho cerchiato di rosso una frase, definitiva: «Qualunque violenza inflitta a un innocente in nome d’un interesse o principio o puntiglio (uno dei tanti che volubilmente di secolo in secolo appassionano i potenti) è altrettanto empia che inutile».
LENZUOLO – Il rumore della battitura mette i brividi. Sgabelli, brande e pentole contro finestre e cancelli. Le voci sono una babilonia di rabbia: «Vergogna! Vergogna!». Vergogna per un suicidio annunciato, già tentato qualche giorno prima. Il lenzuolo come un cappio, annodato alle sbarre della finestra. Finalmente libero. Non è il primo e non sarà l’ultimo, tra questa umanità dannata, stordita da un consumo spropositato e incontrollato di psicofarmaci, purché sia sonno.
LIBERTÀ – La libertà violentata nel cuore della notte ha la voce sorda di colpi violenti sulla porta, come tonfi nell’anima. I polsi fanno male, ma non quanto gli scatti delle macchine fotografiche, schierate come un plotone d’esecuzione che mitraglia contro la scalinata della questura. Non c’era nessuno sette mesi dopo, quando le porte si sono aperte. Nessuno a fotografare la valigetta di plastica e la borsa con cerniera a quadretti rossi e neri. Nessuno nel chilometro di strada percorso a piedi come un profugo, fino al bar più vicino.
LETTERE – Lettere ricevute e lettere scritte, tantissime e provvidenziali: pacca sulle spalle e terapia. Per volare con il pensiero oltre il filo spinato. Per ingannare la routine concentrazionaria che mina quotidianamente la dignità di un detenuto attraverso il controllo del suo corpo. Per continuare a vivere, con la speranza che pulsa dentro il petto all’avvicinarsi della guardia. Per trovare nella solidarietà altrui la conferma alle parole di Camus: «Nella profondità dell’inverno, ho imparato alla fine che dentro di me c’è un’estate invincibile». La verità è un’estate invincibile.

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Camerotto 1

[Fonte Immagine: Il Riformista]

Dalla finestra a rete
entra un cielo affannato,
manto silenzioso
di un tempo senza ore.
Lontano
tace il sole
nuvole distratte
rincorrono i pensieri muti,
stanchi.
Siamo ali spezzate
e ansia di volo,
il petto ammaccato
dai battiti dell’attesa.

[HH192000011 – Marzo 2020]

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2 novembre 2020

Quanto siamo cambiati da marzo ad oggi? Quanto le nostre vite sono state stravolte dal Covid? A quante abitudini abbiamo dovuto rinunciare? Ci pensavo oggi, mentre il pensiero andava ai “miei” defunti. Parenti e amici che non ho potuto salutare come facevo ogni anno, lasciando sulle loro tombe un fiore o un lumino. Ho ripercorso mentalmente il percorso che faccio quando entro nel cimitero, in una sorta di appello degli assenti. Ci sono tutti.

La pandemia ci ha rinchiusi nelle nostre case, costringendoci ad una solitudine che diventa più acuta in occasione di una ricorrenza. Avvertiamo lontana e rimpiangiamo la tradizione dei “morti”, quando da piccoli andavamo a bussare alle porte delle case per ricevere qualche soldino, frutta e dolcini. In quelle castagne, in quei cioccolatini si realizzava il miracolo dell’incontro simbolico con l’aldilà, poiché i questuanti – sostiene l’antropologo Vito Teti – non erano altro che “vicari” dei defunti. I bambini rappresentavano le anime dei propri cari, che avrebbero sofferto molto in caso di rifiuto.
Nelle fotografie delle lapidi cerchiamo occhi e lineamenti che ci riconducano ad una storia ininterrotta, nonostante la morte: “le tessere giganti di un domino che non avrà mai fine” (De Andrè). Cerchiamo il calore di parole che abbiamo ascoltato, di gesti che ci hanno fatto sentire amati. Oggi, tutto questo non c’è stato: sono mancate le visite e, con esse, un aspetto profondo del rapporto con la morte nella nostra cultura religiosa e popolare.
Non potendomi recare al cimitero, ho deposto un lumino ai piedi del Crocifisso del monumento dei caduti. A quel Cristo che, per chi crede, è risorto dalla morte e, per chi non crede, è comunque il simbolo della lotta non violenta contro gli abusi del potere e delle autorità. Il predicatore dell’egualitarismo e della fratellanza universale. Il volto degli “ultimi” della Terra, di tutti coloro che soffrono nel fisico o portano sul cuore cicatrici impresse come solchi.

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Parole

Parole come in un sogno ora vivace ora dai
contorni sfumati, dimenticate all’alba, quando si rintanano nella cuccia
onirica dei fantasmi della mente.

Parole da appuntare sul bloc notes del
comodino sforzando la vista, disegnando nel buio il gancio al quale rimanere sospesi
per non precipitare nel gorgo.

Parole di un matto, intrappolate nel cuore.

Parole dure come il silenzio, come le urla.

Parole altre, osservate dal molo mentre
scivolano nella tasca dell’orizzonte, come le stagioni.

Parole come sirene che violentano la notte.

Parole a tutta pagina, definitive come
fede incrollabile.

Parole impastate dalla frana che va a
valle.

Parole conficcate come chiodi sulla bara.

Parole da tenere in tasca per farsi
compagnia.

Parole come la carezza di un’eco lontana.

Parole incastonate negli occhi.

Parole come unguento per medicare l’anima.

Parole come un diritto per il quale vivere
e morire.

Parole come una liberazione.

Parole da affidare al vento, come il bacio
di Pablo Neruda.    

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Deve passare la nottata

Niente sarà più come prima o tornerà tutto come prima? Me lo chiedo spesso in queste giornate a volte lunghe, a volte corte: in fondo uguali. Vuote. Ma è questa la domanda da porsi o, piuttosto, dovremmo chiederci cosa si potrebbe fare per soffiare lontano l’aria da Bisanzio che opprime i polmoni di noi che viviamo “sospesi tra due mondi e tra due ere”?

Siamo soli, impauriti, smarriti. L’uomo è per definizione un animale sociale, tende naturalmente a rapportarsi con gli altri, a instaurare rapporti empatici. Si esprime con un linguaggio che non è soltanto verbale, ma è fatto di tanti altri strumenti di comunicazione, oggi dolorosamente compressi. Viviamo nel chiuso delle nostre case, abbiamo quasi azzerato le nostre uscite: ed è giusto così. Però ci manca “la vita di prima”: gli incontri, la spensieratezza di una partita a calcetto, gli abbracci per manifestare l’adesione alla gioia e al dolore altrui. Matrimoni e feste senza invitati, funerali senza partecipanti. Piccoli momenti di una vita quotidiana vissuta in maniera corale dalla comunità che oggi, per il forzato disimpegno dai propri doveri, per il distacco dalla propria natura, appare sfilacciata.
Tutt’intorno si avverte un deprimente tanfo di decadenza, accompagnato dall’apatica rassegnazione ad una realtà che si immagina asfittica per chissà quanto ancora. In queste condizioni, serve molto coraggio per puntare una fiche sul tavolo verde del futuro, per fare progetti, per coltivare una visione di lungo periodo, per tirare fuori dai cassetti i sogni e farli volare.
Siamo diventati fragili e precari, la paura del domani è un freno a mano tirato che pietrifica. Tutto sembra essere stato messo in pausa. Si vive ripiegati su sé stessi: in attesa di tempi migliori, si dice quasi giustificandosi. Ma i tempi migliori arriveranno mai, se non saremo noi a creare le condizioni affinché possano maturare, invece di restare inerti? La rassegnazione e la demotivazione sono patologie degenerative, che vanno combattute con forti dosi di passione e di creatività.
Deve passare la nottata. Eppure l’alba arriva prima, o almeno se ne ha questa incoraggiante percezione, se si corre incontro al sole. Se si ricomincerà dalla bellezza della vita, che è sempre a portata di mano e che può dare un indirizzo anche a questo tempo in bilico.
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Ciro Meravigliao

Mi chiamo Ciro e dei miei sessant’anni ho poco da salvare. Nel posto dove vivo da quattro anni c’è gente che va e gente che viene. Con i nuovi arrivati costruisco un fragile castello di amicizia, che crollerà quando andranno via. Ci ricorderemo per qualche tempo, poi i nostri cuori precari continueranno a battere ognuno per conto proprio, come se non ci fossimo mai conosciuti. E pensare che trascorriamo diverse ore insieme, quelle che ogni giorno ci vengono concesse al di fuori delle nostre celle, nel cortile o nella saletta. Un paio, quattro o anche cinque, in base all’umore. Ché a volte non hai tutta questa gran voglia di parlare, di ascoltare sempre le stesse parole. Già, le parole. Alla fine le dimentichi: a forza di discutere continuamente di processi e di procedure, i vocaboli della quotidianità familiare diventano un’immagine sfocata, che si fa fatica a recuperare dal pozzo scuro dell’anima.

Per i miei compagni sono Ciro Meravigliao. Una vita fa, con il pallone me la cavavo bene. Anche oggi, nel giorno in cui ci portano nel campo di gioco, faccio la differenza. In quelle due ore, con la testa voliamo altrove: corriamo come ragazzini spensierati, sbattiamo le nostre ali ferite come farfalle gaie nello spazio libero. Poi, è andata male: cioè, non lo so se è andata male o se sono stato io a farla andare male. Fatto sta che, da questi posti, entro ed esco da quando avevo quindici anni. A Napoli diciamo “magnate o’ limone” ed io ne ho mangiati tanti nella mia vita. Ormai non mi fanno più effetto. Quel sapore aspro è parte di me, smorfia nascosta di una vita consumata, come gli occhi chiari o i capelli che mi ostino a tenere lunghi, nonostante siano diventati grigi e radi.
Ho talmente tante cose da fare, che a volte il tempo non mi basta, anche se non rinuncio mai alla partita di Burraco e alla soap opera “Un posto al sole”. Sono infatti un lavorante, una figura che non ha il prestigio degli addetti alla cucina o dello spesino, ma che vale più del barbiere e del bibliotecario ed è pur sempre una spanna sopra il resto della massa indistinta. Lavo per terra, nella sezione e negli uffici; carico la lavatrice; faccio il “postino” da una cella all’altra quando ci si divide il cibo o il giornale. Insomma, mi sposto per la sezione con una certa libertà e resto fuori dalla mia cella più degli altri. Tutti mi vogliono bene e mi porgono un caffè o qualcosa da mangiare. Quando mi è possibile, ricambio con i guanti monouso che qua non si possono acquistare, anche se devo stare attento. Se vengo beccato da qualche guardia, mi tocca un rapporto disciplinare, quindici giorni di isolamento e la perdita del lavoro. Perché per loro è normale che si debba utilizzare la candeggina e lavare il cesso a mani nude. Per me, non lo è. Come tante altre cose, che accadono e sulle quali ho smesso di farmi domande dopo il consiglio di un anziano, decenni fa: «Non chiederti dov’è la logica, perché qua dentro niente ha una logica». Se ce l’ha, è sadica come le parole riportate sul quadrante dell’unico modello di orologio che ci è consentito tenere, dopo averlo acquistato dalla lista della spesa: “Libero” e “Tutto passa”.
Da pochi giorni ho come dirimpettaio di cella un ingegnere che si è subito dimostrato molto gentile. Gli ho chiesto se era disposto a darmi ripetizioni di matematica ed ha accettato ben volentieri. Quando mia figlia frequentava la scuola elementare, spesso mi chiedeva di aiutarla a fare i compiti, ma io non ne ero capace perché non sapevo fare nemmeno una “O” con il bicchiere. Ora ho una nipotina che, quando finirò di scontare la pena, andrà a scuola: ecco, non vorrei ritrovarmi nella stessa situazione e credo che l’ingegnere potrà darmi una grossa mano. Imparo le tabelline e il giorno dopo le dimentico, ma lui ha molta pazienza. Ricominciamo daccapo e già riesco a svolgere benino qualche operazione, espressioni semplici. Lui stesso mi ha detto che c’è un suo amico bravo a scrivere e ne ho approfittato per prendere pure lezioni di grammatica, sintassi e ortografia. Vorrei essere in grado di mandare a mia moglie una lettera appena appena corretta, ma non so se mai ce la farò. Ho capito quando la “e” va accentata, quando mettere l’acca e quando no, però con il dettato ancora non ci siamo. I miei due professori stanno sempre insieme, nel cortile e nella saletta, dove per mezz’ora a testa si dedicano a me. Chi arriva per primo attende l’altro, come vecchi compagni di liceo naufragati e aggrappati allo stesso legno. Chissà se resteranno qua per tutto il tempo che mi sarà necessario.

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Forza Peppe

Perché proprio a te, Peppe? Perché? Me lo sono chiesto dentro quella chiesa vuota di te. Di te che c’eri sempre, ogni anno, per la ricorrenza dei santi Cosma e Damiano: i santi medici, i santi delle guarigioni. Non sono riuscito a darmi una risposta, come mi succede con tante altre domande ultimamente. È un 2020 di interrogativi angoscianti e dentro ci sei finito pure tu, tuo malgrado.

Penso che sia ingiusto, ma poi chi lo sa più cos’è che non dovrebbe mai accadere. Accade e basta, come un fulmine scagliato da un dio malvagio che brucia ogni cosa, anche le scarne convinzioni di un tempo. E quando colpisce, la vita cambia in un attimo.
Viviamo insieme a te questo tempo sospeso, in apnea, accostandoci al mistero della vita in punta di piedi, senza fare rumore. Come te, che hai sempre vissuto delle tue piccole e semplici cose: quelle che, in fondo, sono le uniche a contare qualcosa in questo caravanserraglio. Passi silenziosi che fanno rumore proprio quando si bloccano.
Il Paese Vecchio è un microcosmo dentro un microcosmo. Lo era in particolare negli anni della tua infanzia: concentrato tra il Calvario, la piazza e la Matrice, l’orfanotrofio e la chiesa, la scuola elementare. Già, la scuola elementare con i suoi mitici maestri, dei quali ancora si parla con affetto e riverenza. Gli anni del maestro unico e del saluto della classe in piedi, della preghiera e dei giochi dei mimi o dell’elastico, del pigiama indossato sotto la tuta per stare più caldi, delle merende divise con i compagni di classe, del refettorio e del dolce preparato per i bambini dalla moglie del bidello, della condivisione di gioie e dolori, come in un’unica grande famiglia. Dove sono finiti tutti quei bambini? Dove siamo finiti?
E cosa fai ora, tu che macinavi chilometri a piedi o in bicicletta? Eppure “c’è un’altra salita da fare”, ci sono “cento e più chilometri alle spalle e cento da fare”. Ci sono i tuoi genitori da assistere, come hai sempre fatto. Ricordi? Ti chiamavamo “Peppe due chilometri”, perché la distanza della tua abitazione dal liceo era tanta: tu la percorrevi ogni mattina a piedi ed eri il più puntuale di tutti.
Sai, tempo fa avevo deciso di intervistare tuo padre, uno dei pochi che ricorda la Varia che si organizzava a Sant’Eufemia. Grazie ad un amico comune ero riuscito a fissare un incontro che poi non c’è stato. La vita è così: quando ti sembra che vada da una parte, svolta all’improvviso.
Però spero di riuscire a raccoglierla questa testimonianza, a patto che tu sia presente.
Ad ogni notte segue il giorno, ad ogni temporale la schiarita: ti aspetto.

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Buon 2020

Buon anno
a chi non ci sperava
a chi vede il bicchiere mezzo pieno
a chi stringe forte quando abbraccia
a chi si prende cura degli altri
a chi rispetta la natura
a chi non odia
a chi fa collezione di attimi
a chi canta sotto la doccia
a chi singhiozza nel buio di un cinema
a chi ripensa al finale di un romanzo
a chi crede in qualcosa
a chi non smette di cercare
a chi ama
a chi corre per strada
a chi danza sotto la pioggia
a chi si commuove guardando le stelle
a chi si fa cullare dal silenzio
a chi trattiene il fiato
a chi fa sogni colorati
a chi tenta la giocata di tacco
a chi beve in compagnia
a chi si ribella
a chi trova una ragione per sorridere
a chi pianta un seme
a chi resiste e vive, vive e resiste.

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Buon Natale

Don Tonino Bello ci insegna che le ferite sono un’occasione speciale nella vita di ciascuno di noi, se siamo capaci di trasformarle in feritoie attraverso le quali farvi passare nuova luce. La bravura sta nel riuscire a cogliere il bagliore, nell’aprire i cuori al cambiamento che quelle ferite reclamano. E quale occasione più suggestiva della Natività? Vivere è rinascere ogni mattina, dare alla propria esistenza un senso, ricercare nuovi orizzonti.
Siamo all’altezza di un impegno così gravoso? Non possiamo saperlo, ma abbiamo il dovere di provarci. Il dovere di farlo guardando al bimbo della mangiatoia. Un neonato che parla a tutti, credenti e non credenti, con la potenza del suo messaggio di pace e di amore. Contro ogni violenza fisica e morale, contro ogni forma di sopraffazione, contro ogni tentativo di comprimere la personalità altrui. Contro le volgarità, le offese, le parole che diventano clave. Contro l’indifferenza, il male peggiore di questa nostra società.
La pace nasce dall’incontro con l’altro. Dalla chiusura nel recinto degli egoismi e degli interessi nasce la desertificazione dell’anima. Come in guerra: “hanno fatto il deserto e lo chiamano pace”. Le immani tragedie della storia sembrano non avere insegnato niente.
Occorre uno sforzo. Non girarsi dall’altra parte, non pensare che riguardi sempre altri distanti da noi. Sentire su di sé le ingiustizie del mondo. Ricercare i volti. Spogliarsi della propria identità e indossare i vestiti dell’altro. Riconoscere la dignità ad ogni individuo che si incontra nel proprio cammino. È aberrante l’idea che anche soltanto un membro del genere umano possa essere considerato un rifiuto della società. Purtroppo accade, oggi come ieri. Ma la cultura dell’odio e dello scarto, più volte denunciata da Papa Francesco, si può sconfiggere soltanto con la solidarietà: è lei la strada capace di condurre ad un mondo più giusto.
Non ci sono alibi. Viviamo in quest’oggi e con esso bisogna fare i conti, tenendo bene a mente le parole di Sant’Agostino: «Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi».
Auguri

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Il mio albero di Natale

Il mio albero di Natale è del 1972 e arriva dall’Australia. Cinque anni dopo viaggiò verso l’Italia insieme a ciò che rimaneva degli anni vissuti nella terra “down under” dai miei genitori: tra le altre cose, tre bambini. Un alberello transoceanico, che mamma e papà avevano acquistato per festeggiare il loro secondo ed estivo Natale australiano.
Anche la gran parte dei suoi addobbi solcò l’oceano, in uno dei bauli che da Fawkner, alle porte di Melbourne, riportò in Italia pure il corredo matrimoniale della ragazza dai lunghissimi capelli neri.
Ogni anno aspetta il suo momento, certo che arriverà. Qualche volta è stato tirato fuori il 23 o addirittura il 24 dicembre. Quegli anni che non hai tanta voglia di festeggiare. Senza, sarebbe stato comunque qualcosa di definitivo e irredimibile. Meglio esserci, anche senz’allegria.
Non è soltanto un albero. È il riassunto di tante vite. Una storia della quale vado fiero, ma che è possibile rileggere negli occhi di chi, in ogni angolo della terra e in qualsiasi tempo, cerca con dignità di costruirsi la speranza di un futuro migliore. È “fare e disfare… battere e levare”: la strada fatta, le corse e le frenate. Ricorda da dove veniamo e quanto sia importante non smettere mai di inseguire un sogno o una possibilità.
Da quando ci sono i miei nipoti, tocca a loro sistemare luci, palline, nastri e qualche nuova decorazione. Un lungo filo rosso tenuto da più mani.
Si vive di gioie talmente piccole che spesso sgusciano via silenziose. E invece soltanto di quelle ci ricorderemo, come alla fine è chiaro anche a Scrooge nel Canto di Natale di Dickens. Le piccole cose che riempiono la vita.
Sul mio albero ci attacco i miei anni. Uno dopo l’altro. Ci appendo gli sprazzi di gioia e le nuvole di tristezza, le carezze di chi c’è e quelle di chi non c’è più.
Le sue lucine sono desideri che si accendono e si spengono. Tanti inseguiti e altrettanti abbandonati, seguendo l’umore dei momenti vissuti o lasciati andare. Vicini o lontani. Vicini e lontani.

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