Don Tonino Bello ci insegna che le ferite sono un’occasione speciale nella vita di ciascuno di noi, se siamo capaci di trasformarle in feritoie attraverso le quali farvi passare nuova luce. La bravura sta nel riuscire a cogliere il bagliore, nell’aprire i cuori al cambiamento che quelle ferite reclamano. E quale occasione più suggestiva della Natività? Vivere è rinascere ogni mattina, dare alla propria esistenza un senso, ricercare nuovi orizzonti.
Siamo all’altezza di un impegno così gravoso? Non possiamo saperlo, ma abbiamo il dovere di provarci. Il dovere di farlo guardando al bimbo della mangiatoia. Un neonato che parla a tutti, credenti e non credenti, con la potenza del suo messaggio di pace e di amore. Contro ogni violenza fisica e morale, contro ogni forma di sopraffazione, contro ogni tentativo di comprimere la personalità altrui. Contro le volgarità, le offese, le parole che diventano clave. Contro l’indifferenza, il male peggiore di questa nostra società.
La pace nasce dall’incontro con l’altro. Dalla chiusura nel recinto degli egoismi e degli interessi nasce la desertificazione dell’anima. Come in guerra: “hanno fatto il deserto e lo chiamano pace”. Le immani tragedie della storia sembrano non avere insegnato niente.
Occorre uno sforzo. Non girarsi dall’altra parte, non pensare che riguardi sempre altri distanti da noi. Sentire su di sé le ingiustizie del mondo. Ricercare i volti. Spogliarsi della propria identità e indossare i vestiti dell’altro. Riconoscere la dignità ad ogni individuo che si incontra nel proprio cammino. È aberrante l’idea che anche soltanto un membro del genere umano possa essere considerato un rifiuto della società. Purtroppo accade, oggi come ieri. Ma la cultura dell’odio e dello scarto, più volte denunciata da Papa Francesco, si può sconfiggere soltanto con la solidarietà: è lei la strada capace di condurre ad un mondo più giusto.
Non ci sono alibi. Viviamo in quest’oggi e con esso bisogna fare i conti, tenendo bene a mente le parole di Sant’Agostino: «Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi».
Auguri
Il mio albero di Natale
Il mio albero di Natale è del 1972 e arriva dall’Australia. Cinque anni dopo viaggiò verso l’Italia insieme a ciò che rimaneva degli anni vissuti nella terra “down under” dai miei genitori: tra le altre cose, tre bambini. Un alberello transoceanico, che mamma e papà avevano acquistato per festeggiare il loro secondo ed estivo Natale australiano.
Anche la gran parte dei suoi addobbi solcò l’oceano, in uno dei bauli che da Fawkner, alle porte di Melbourne, riportò in Italia pure il corredo matrimoniale della ragazza dai lunghissimi capelli neri.
Ogni anno aspetta il suo momento, certo che arriverà. Qualche volta è stato tirato fuori il 23 o addirittura il 24 dicembre. Quegli anni che non hai tanta voglia di festeggiare. Senza, sarebbe stato comunque qualcosa di definitivo e irredimibile. Meglio esserci, anche senz’allegria.
Non è soltanto un albero. È il riassunto di tante vite. Una storia della quale vado fiero, ma che è possibile rileggere negli occhi di chi, in ogni angolo della terra e in qualsiasi tempo, cerca con dignità di costruirsi la speranza di un futuro migliore. È “fare e disfare… battere e levare”: la strada fatta, le corse e le frenate. Ricorda da dove veniamo e quanto sia importante non smettere mai di inseguire un sogno o una possibilità.
Da quando ci sono i miei nipoti, tocca a loro sistemare luci, palline, nastri e qualche nuova decorazione. Un lungo filo rosso tenuto da più mani.
Si vive di gioie talmente piccole che spesso sgusciano via silenziose. E invece soltanto di quelle ci ricorderemo, come alla fine è chiaro anche a Scrooge nel Canto di Natale di Dickens. Le piccole cose che riempiono la vita.
Sul mio albero ci attacco i miei anni. Uno dopo l’altro. Ci appendo gli sprazzi di gioia e le nuvole di tristezza, le carezze di chi c’è e quelle di chi non c’è più.
Le sue lucine sono desideri che si accendono e si spengono. Tanti inseguiti e altrettanti abbandonati, seguendo l’umore dei momenti vissuti o lasciati andare. Vicini o lontani. Vicini e lontani.
Corri, divertiti, sii felice
Chissà se per te sarà un ricordo speciale quel pomeriggio trascorso insieme, da rinnovare con il sorriso che i grandi riservano agli episodi della propria fanciullezza; con la tenerezza che suscitano l’innocenza e la capacità di gioire per ogni apparente piccola cosa.
La tua prima volta in un campetto di calcio. Il pallone che sembra sfuggire veloce e il rettangolo verde una distesa vastissima per i tuoi pochi anni.
Tranquillo, sono qua. Il viso contro la recinzione, osservo la tua corsa inizialmente defilata rispetto agli altri. È tutto nuovo per te, giochi e bambini: è per quello, credo. Ogni tanto ti giri verso di me. Per essere guardato, per essere rassicurato dalla mia sola presenza. Mi piace la sensazione di questa tua assoluta fiducia in me, che sto fuori ma ci sono. Pronto eventualmente ad intervenire, come un supereroe invincibile.
Sono qua, e tu sei bellissimo con quelle gambette.
Sei bellissimo quando vai avanti e indietro, e ogni tanto ti fermi per prendere fiato.
Sei bellissimo quando mi corri incontro e ti aggrappi al mio collo.
Sei bellissimo quando mi racconti le tue impressioni su questa nuova scoperta.
Sei bellissimo quando ascolti le mie parole.
Perché, vedi, è vero che hai segnato “da solo”, calciando un calcio di rigore, mentre non ci sei riuscito quando giocavi con tutti gli altri.
Capita, quando il campo è troppo grande o se non ci si trova in una condizione favorevole; se ti trovi lontano dalla porta, ad esempio.
La vita dei grandi è uguale. Le difficoltà dipendono anche là dalle dimensioni del campo e dalla posizione che si occupa. Non si segna sempre. A volte si è addirittura capaci di fallirli i calci di rigore. E comunque ci sono gli altri, bisogna farci i conti: nel bene e nel male.
Eri contento per avere dato il “cinque” al compagno goleador. È una grande virtù riuscire a gioire dei successi di un amico o di una persona cara. Purtroppo non sempre è così, in futuro avrai modo di verificarlo tu stesso.
Ti sei divertito, sei stato felice: conta solo questo, ricordalo. Anche fuori dal rettangolo di gioco.
Tempo di partenze
Partono senz’allegria. Partono senza dolore. Sanno che si deve, come la medicina che va presa nonostante il suo sapore amaro. È una storia che si ripete, che si tramanda come gli occhi scuri o le spalle larghe. Sono le strade dei nostri nonni, dei nostri genitori. Di quelli rimasti a casa di Cristo e sepolti lontani. Di quelli tornati per i propri figli, perché a loro fossero risparmiati gli addii sulle banchine.
Invece no. Si parte ancora. Sui treni, con le auto, in aereo. Come un sortilegio. Giovani con i trolley imbottiti di speranza e adulti con gli occhi bassi della sconfitta. Senza rimpianti, le lacrime asciutte di chi comprende il senso dell’ineluttabilità. Anche il nodo in gola è meno acre. Per chi resta è un dolore sordo, da interpretare. Pensieri cattivi che si vogliono scacciare lontano, come nuvole spazzate dal vento; ed è inutile piangersi addosso. Non è più tempo di lamenti, né di rabbia.
Nessuno che li trattenga; nessuno che sia capace di lanciare lo sguardo al di là del proprio miserabile orizzonte. Terra persa, terra maledetta. Con i suoi tramonti mozzafiato, con il suo mare colore del vino, con i suoi alberi puntati contro il cielo. Terra bella e maledetta. Che non sa afferrare un braccio, che non sa dire “restate”.
È la sconfitta dell’amore. È una condanna ai ricordi e alle videochiamate, sul comodino i sassolini della spiaggia e le fotografie di una favola triste.
Tra poco sarà inverno, la stagione delle lunghe notti. Chissà quanto ancora durerà questo buio, se mai passerà.
Ciao, “zio” Pino
I ricordi sono increspature dell’acqua di un fiume che scorre prorompente: non so bene a quale aggrapparmi per tirarmi fuori da queste mura. O un cesto di ciliegie, fra le quali è complicato scartarne una perché sono tutte belle.
Belle come te, “zio” Pino. Ti chiamo come ti ho sempre chiamato, come ti abbiamo sempre chiamato noi che casa tua è stata anche la nostra.
Quella casa con la porta sempre aperta per chi ha voluto entrarci per scambiare due parole, guardare la televisione, fare una partita a carte, trascorrervi piacevoli serate attorno alla tavola imbandita come per una festa.
Quella casa riecheggiante di racconti antichi e delle tante voci che facevano da corona ai tuoi anziani genitori: anche gli occhi del bambino che ero molti anni fa, quando ti conobbi, percepivano la grandezza della semplicità dei sentimenti più autentici. L’amicizia vera è capace di regalare alle giornate grigie i colori dell’arcobaleno. La tua è stato un riparo nel quale abbiamo ristorato le nostre anime, a volte stanche di giorni pesanti.
Ricordavi spesso il senso dell’accoglienza di tua mamma, la generosità che illuminava quell’uscio e che apparteneva a un’altra epoca. Meno egoista di questa, meno ripiegata su se stessa e sulle tante cose di nessun valore se confrontate all’affetto e alla vicinanza delle donne e degli uomini delle rughe di un tempo. A quel nobile insegnamento sei rimasto fedele fino alla fine. Ed io, Diego e Pasquale siamo stati fortunati di poterne godere.
Ora un dolore acuto ci punge il petto, un senso di smarrimento profondo ci ammanta. Nella nebbia che avvolge la tua elegante e impeccabile figura intravediamo il tuo sorriso. Perché sono stati i sorrisi nostri ed i tuoi a impreziosire le ore accanto al caminetto o seduti sul divano.
Ci mancherai. Ci farà stringere il cuore vedere chiusa quella porta che ci attendeva la sera, alla fine delle nostre giornate.
Ma quando di te parleremo, racconteremo del conforto e della ricchezza dell’amicizia. Nonostante la solitudine, nonostante la tristezza, nonostante le lacrime di oggi.
Ciao, “zio” Pino
*Nei giorni trascorsi al di là del vetro della Rianimazione, avevo scritto per lui Chissà che pensieri fai:
Chissà che pensieri fai
se hai pensieri
nella bolla di sonno senza sogni
discorsi senza parole
viaggi senza passi.
Non è più la tua
quest’attesa di vetro
che ci separa,
di qua e di là della barriera
vita e morte.
Un sussurrare stanco
ferisce
dei giorni lenti
la quiete
e il muto presagio.
Chissà che pensieri fai
Chissà che pensieri fai
se hai pensieri
nella bolla di sonno senza sogni
discorsi senza parole
viaggi senza passi.
Non è più la tua
quest’attesa di vetro
che ci separa,
di qua e di là della barriera
vita e morte.
Un sussurrare stanco
ferisce
dei giorni lenti
la quiete
e il muto presagio.
*Photo @marioforgione
Vita da venire
Sorridono al sole scompigliati dalla brezza di primavera, irriverenti, fregandosene delle erbacce alte intorno. I papaveri sanno sfidare il vento e allontanare il presagio della sconfitta: resistono, senza temere la resa del gambo esile e dei petali sottili.
Stretti nelle mani di una bimba non sono un trofeo da innalzare. Si intonano con le labbra avide di parole nuove, di miele da mangiare, di fragole da baciare.
Rosso è sangue e orgoglio. E vita da venire.
«Rosso è il colore dell’amore», ce l’ha insegnato Pierangelo Bertoli.
Rosso è il sacro fuoco che tutto muove.
Ci facciamo cullare dal vento, con loro.
Danziamo, la mente rapita dalle macchie di porpora che si inseguono lungo i binari.
Una dietro l’altra, sogni o fole che si mescolano alla realtà e mettono i brividi.
Ciao, Franco
Ciao Franco, in questi giorni ho riguardato le fotografie dei momenti che abbiamo trascorso insieme grazie all’Agape. I tuoi sorrisi, i tuoi abbracci. Ti abbiamo ricordato tra di noi, ognuno raccontando un aneddoto, qualcosa che ci riportasse indietro a quei giorni di allegria. La magia del mondo del volontariato è questa bolla sospesa che si crea nelle vite di ciascuno di noi. Il tempo ha un ritmo suo, particolare: le lancette dell’orologio battono in maniera diversa che nelle nostre affannate giornate di routine.
Non c’è fretta, non c’è ansia, non ci sono preoccupazioni. Si sta insieme per il piacere di stare insieme, per godere della genuinità di sentimenti semplici e naturali che i pensieri della vita quotidiana tendono a comprimere, a tenere rilegati in un angolo nascosto.
Amavi il mare. I nostri ricordi più belli sono legati alle colonie estive. Abbiamo giocato come bambini; siamo stati allegri come bambini: noi, una ciambella e gli spruzzi dell’acqua. Niente altro, in un tempo sospeso e profumato di felicità.
La tua compagnia è stata un dono. La tua risata così forte e irrefrenabile la sento anche oggi. Mi piace pensare che sia il tuo saluto speciale e fragoroso: non un addio, ma un arrivederci a quando ci incontreremo e faremo ancora una volta festa.
Ci chiederai come stiamo e come stanno i nostri parenti. Troverai una ragione per chiedere “scusa”: lo facevi sempre quando qualcuno ti aiutava in qualcosa che non riuscivi a fare da solo. Quella parola, pronunciata da te, ha interrogato le nostre anime e le interroga ancora.
Ci hai insegnato che un volontario deve avere quattro, sei, otto occhi, leggere gli sguardi e possedere un alto senso di responsabilità. Non dobbiamo concederci neanche un secondo di distrazione, perché persone speciali come te ci vengono affidate dalle famiglie e tutto deve andare per il meglio.
È stato bello sentire addosso la fiducia di tua sorella e la tua: è stato tutto quando eravamo più giovani e lo è ora che siamo diventati adulti, con altri amici come te che rendono le nostre estati uniche.
Siamo gli incontri che facciamo, quelli che cerchiamo e quelli che arrivano inaspettati, come una benedizione.
Ti ringraziamo perché con la tua presenza hai reso le nostre vite più ricche di significato.
Buon viaggio, Franco
Il pane calpestato
Mi ha turbato molto vedere gente inferocita prendere a calci e calpestare il pane. Sono coltellate quelle parole piene di rabbia: «Devono morire di fame!».
Non voglio fare nessun ragionamento che possa apparire di parte, né utilizzare trenta bambini innocenti come scudi umani. Quale parte poi? Quella dell’umanità? Siamo arrivati al punto di dovere giustificare il gesto più nobile che un uomo possa compiere nei confronti di un suo simile?
I calci al pane, il piede che schiaccia la vita e la dignità dell’uomo: su questo bisognerebbe riflettere.
Ho ascoltato storie antiche che si perdono nella notte dei tempi. Quella notte che noi abbiamo voluto buia, per non pensare che accadevano pochi decenni fa; per non ricordare da dove veniamo; per cancellarle dal nostro album di famiglia.
Le storie dei contadini che scalavano a piedi i sentieri dell’Aspromonte con un tozzo di pane in tasca. Le storie di chi pranzava con pane e olive, di chi leccava una sarda e dava un morso a pezzo di pane, di chi ci sfregava sopra un tocco consunto di formaggio. Le storie di chi a 8-10 anni era già un uomo abile al lavoro: e proprio un chilo di pane era la sua paga giornaliera.
Ho visto mia nonna raccogliere il pane caduto a terra e baciarlo. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio anch’io. Ho visto mia nonna girare dal “lato giusto” il pane poggiato sulla tavola “a faccia in giù”: perché il pane è il volto di Cristo, diceva. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio pure io. Anche se non sono sicuro che il pane sia il volto e il corpo di Cristo. Ma so che il pane è il volto e il corpo dell’uomo, il suo sudore, la sua fatica, la sua dignità.
Questo mi basta per comprendere il sacrilegio di un gesto così disumano.
Seicento messaggi nella bottiglia
E pensare che tutto iniziò sotto la doccia. Si sa: sotto la doccia si canta e si pensa. A me capitava spesso di “voler dire delle cose” e di immaginare anche come le avrei scritte. Da qualche anno avevo smesso di scrivere per “Il Quotidiano della Calabria”, ma sentivo dentro di me parole che volevano uscire. Parole che non avevo mai scritto, anche perché da corrispondente locale del giornale avevo pochi margini sia come temi da trattare, che come spazi a me riservati per ogni articolo. Più o meno nello stesso tempo aveva pure chiuso i battenti la rivista “Incontri”, periodico eufemiese edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, sulla quale mi dilettavo a scrivere degli argomenti più disparati.
Sotto il flusso dell’acqua calda, tra aggettivi, verbi e sostantivi che si accavallano dentro la mia testa, decisi di ricavarmi sul web uno spazio dove potere esprimere i miei pensieri. Nacque così prima “Santeufemiaonline” e, da quell’idea, il 24 marzo 2010 “Messaggi nella bottiglia”. Al primo post del blog diedi un titolo che più personale non sarebbe stato possibile: “Minita”, come io stesso mi presentavo da bambino, quando ancora non riuscivo a pronunciare bene il mio nome. Perché sostanzialmente sono rimasto un bimbo curioso di scoprire il mondo che lo circonda.
Oggi i messaggi nella bottiglia sono seicento: fa effetto questo traguardo, perché l’esperienza del blog è stata per me fondamentale. Qui ho avuto la possibilità di continuare a coltivare la mia passione per la storia, con ricerche che poi sono finite sui libri dedicati alla storia di Sant’Eufemia. Qui ho scritto del mio paese e, a volte, inciso nel suo tessuto sociale e culturale con iniziative partite da alcuni articoli. In sintesi sono queste due ragioni a dare linfa al blog stesso, che considero un efficace strumento di comunicazione.
C’è poi l’aspetto umano, che non è affatto secondario perché la gratificazione alla fine è esclusivamente quella: e ovviamente fa piacere essere apprezzati per ciò che si scrive. Ogni tanto mi arrivano messaggi privati che considero medaglie: sono il più bel riconoscimento.
“Messaggi nella bottiglia” è il diario pubblico dei miei ultimi nove anni. Niente di più, niente di meno. Il post “Minita” si chiudeva con la considerazione che “può risultare utile affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria”. Ci penso sempre quando (è capitato proprio ieri) vengo contattato da qualcuno che ha scovato per caso sul web un mio articolo.
Adoro questa casualità, che nasce anche dalla volontà di non essere “invadente”. Sia chiaro: a me fa piacere che gli articoli vengano condivisi se altri decidono che vale la pena condividerli. Ci mancherebbe. Però mi affascina l’idea che sia l’articolo stesso a “chiedere” di essere diffuso perché ha contenuti interessanti; non che lo chieda il suo autore mediante una richiesta esplicita di condivisione, l’uso indiscriminato del tag dei propri contatti Facebook o la richiesta del “like”, l’intasamento delle chat di Whatsapp.
Scrivo assecondando interessi e gusti miei personali. Cerco di porre all’attenzione di chi legge avvenimenti e personaggi che mi sembrano significativi. Lo faccio con una libertà assoluta, nella scelta degli argomenti e nel modo di trattarli. Non è fantastico?