Caro Presidente

Ill. mo Presidente della Repubblica, On. le Giorgio Napolitano,
mi chiamo Domenico Forgione, sono dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea dal 2004 (titolo conseguito presso l’Università di Messina) e sono iscritto all’albo regionale dei giornalisti per la regione Calabria (elenco pubblicisti). Per sei anni ho lavorato come corrispondente locale de “Il Quotidiano della Calabria”, mentre continuo tutt’ora a fare parte del comitato di redazione della rivista di studi internazionali “Grotius” (edita dall’Università di Messina) e del comitato scientifico della rivista di studi sull’emigrazione “Neos” (edita dalla regione Sicilia). Sono stato anche negli Stati Uniti (2002), al seguito di una delegazione di studiosi che ha condotto una ricerca sugli italoamericani di terza generazione. Nel corso degli anni ho pubblicato tre monografie e diversi saggi di storia contemporanea. Seguo con passione gli avvenimenti politici e di attualità, tanto da utilizzare un blog personale (www.forgionedomenic.blogspot.com) per esporre il mio modesto pensiero su ciò che accade nella nostra società. Con soddisfazione sottolineo che molti di questi articoli sono stati pubblicati su diversi quotidiani locali (Calabria Ora, Il Quotidiano della Calabria).
Si sta chiedendo dove sta il problema? Il problema sta proprio in queste competenze, in questa mia attitudine allo studio e alla riflessione che non hanno alcuna utilità dal punto di vista materiale. La mia carriera universitaria si è praticamente arenata. I miei genitori non sono professori universitari, ma onesti e orgogliosi cittadini che hanno trascorso molti anni all’estero (io stesso sono nato in Australia), che hanno soltanto la quinta elementare e che con enormi sacrifici sono riusciti a fare laureare uno dei loro tre figli. Nei giornali o comunque nel mondo dei media vi sono difficoltà non minori. Difatti, una volta conseguito il tesserino di giornalista pubblicista, nessuno ha accettato la mia proposta – che poi era anche coerente con il mio percorso formativo – di assegnarmi un ruolo diverso da quello di corrispondente locale a 5 centesimo a rigo. Per questo motivo ho preferito non collaborare più. Paradossalmente, mentre prima mi facevano scrivere soltanto di cronaca bianca, sagre e feste di paese, ora che non ho neanche quell’avvilente contratto da co.co.co., mi pubblicano articoli di approfondimento politico che prima mi erano tassativamente vietati, perché le gerarchie della redazione vanno rispettate!
A 37 anni, sono un precario che più precario non si può. Terminato il dottorato di ricerca mi sono ritrovato con un pugno di mosche in mano e con poche possibilità di fare fruttare le mie competenze, avendo investito quasi tutto in una carriera universitaria che non riesce ad avere alcuno sbocco proficuo. I miei molteplici tentativi di cercare una qualche sistemazione sbattono contro un’amara realtà: la mia età costituisce ormai un serio ostacolo, così come il fatto che non possiedo alcuna professionalità “manuale” – quella intellettuale evidentemente non serve proprio. Cerco di coltivare i miei interessi intellettuali per quanto può una persona che, con laurea, dottorato e pubblicazioni, si ritrova a fare, ogni tanto (neanche con costanza), lavori per i quali non sarebbe stato necessario alcun titolo, né scolastico, né accademico.
Ill.mo Presidente, il mio è uno sfogo come tanti altri, presumo. Ma uno Stato che non riesce a dare una possibilità ha fallito tanto quanto chi si trova nella mia condizione.
Cordiali saluti
Domenico Forgione

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Resto perché…

Resto perché sono nato in Australia, a più di sedicimila chilometri di distanza dal mio paese;

Resto perché i miei genitori sono andati via e dopo dodici anni sono ritornati: il tempo di fare i lavori più disparati e tre figli;

Resto perché mio fratello Luigi è andato via e dopo dieci anni è ritornato: il tempo di fare anche lui i lavori più disparati e, fortunatamente, nessun figlio;

Resto perché mio fratello Mario è andato via dodici anni fa e non è ancora ritornato, né credo mai lo farà. Ma lui “è figlio unico”;

Resto perché quasi tutti i miei parenti sono andati via e non sono ritornati;

Resto perché non sopporto gli occhi gonfi di ogni partenza;

Resto perché subito dopo la laurea un mio amico mi disse: “fossi in te scapperei di notte da questo paese di merda”. A tredici anni di distanza, per lui non sarebbe neanche una soddisfazione.

Resto perché noi calabresi “avimu a testa dura”.

Resto perché sono stato due mesi a New York, e mi è bastato;

Resto perché penso che qualsiasi lavoro è dignitoso, anche fare il barista con laurea, dottorato di ricerca e un paio di libri scritti;

Resto perché spero che prima o poi finiranno le amanti dei professori universitari da sistemare all’Università;

Resto perché, se andiamo tutti via, a chi lo lasciamo questo paese?

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Il burattinaio di parole

Francesco Guccini è entrato a casa mia e nella mia vita ai tempi del liceo, saltando fuori dallo zaino di mio fratello – lui al terzo anno, io al secondo – “copiato” (preistoria, a ripensarci) in tre musicassette: Radici; L’isola non trovata; Quasi come Dumas.
Il 14 giugno l’eterno studente e burattinaio di parole (come si è autodefinito, rispettivamente in Addio e in Samantha) ha compiuto settanta anni e, come si conviene per un artista che ha segnato la storia della musica italiana, le rievocazioni da giorni occupano le pagine dei giornali.
Guccini è un cantautore coltissimo, paragonato da Umberto Eco a Walt Whitman, capace di rime e assonanze ricercatissime, di citazioni dotte e riferimenti letterari eruditi (dal profeta Isaia a Borges), ma anche di temi “bassi”, di sberleffo puro, come sa chiunque abbia ascoltato l’album Opera buffa o la canzone I fichi nel disco non a caso intitolato D’amore, di morte e di altre sciocchezze. Un anarchico “perso dietro le nuvole e la poesia”, attaccato alle proprie radici, ad un mondo in via di estinzione riproposto sotto forma di mito (l’infanzia, la saggezza dei montanari dell’Appennino). E poi i temi del tempo che passa e l’intimismo di certe situazioni raccontate come con una cinepresa, della rivolta e della lotta contro le ingiustizie, dei miti della sua gioventù (l’America, Hemingway, Bob Dylan, la Beat generation), dei vinti e dei “piccoli eroi delle occasioni perse”, del rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato (per dirlo con le parole di Gozzano, cui Guccini spesso rimanda).
Per me Guccini è un caldo giugno di tanti anni fa. È il profumo di una ragazza, due corpi sudati sotto un sole cocente alle tre del pomeriggio. Sono tanti viaggi, i finestrini della macchina abbassati e l’aria che entra scompigliando i capelli, Eskimo cantata a squarciagola, quando ancora il futuro era una mela acerba e non c’era tempo per farla maturare. È un concerto al Palapentimele, tutti seduti a terra, un rito inderogabile nei concerti di Guccini: una via di mezzo tra un’assemblea del sessantotto o i collettivi degli anni Settanta e una scampagnata fuori porta, con il più bravo della compagnia che tira fuori la chitarra e suona e canta per tutti. Sono di nuovo due corpi stretti stretti, mentre la scaletta delle canzoni scorre via, iniziando (Canzone per un’amica) e finendo (La locomotiva) con le stesse due canzoni da sempre.
E poi quel dialogare con il pubblico, la sua “r” che si arrota, l’esclamazione “non sono mica un juke-box” rivolta ad un gruppo di ragazzi che chiede insistentemente Incontro, i rimproveri a quelli che ogni tanto provano ad alzarsi da terra. Non si può. Bisogna attendere le ultime tre canzoni: quando attacca Dio è morto scattiamo tutti in piedi e non smettiamo di saltare e di urlare fino ai saluti finali. Dopo è soltanto nostalgia struggente e Farewell che ronza nella testa.

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Minita

Più o meno 35 anni fa, quando ho cominciato ad articolare qualche frase, a chi mi chiedeva quale fosse il mio nome rispondevo “Minita”. Di quell’età ho conservato, negli anni, soprattutto la curiosità, il piacere della ricerca e la capacità di stupirmi per le scoperte che la vita riserva a ciascuno di noi. Ma ogni scoperta, ogni pensiero, per avere vita hanno bisogno di essere condivisi, altrimenti si rivelano soltanto un esercizio sterile. È quello che mi auguro di poter fare grazie a questo blog con coloro che troveranno interessanti e degni di discussione gli argomenti che di volta in volta proporrò o verranno da altri suggeriti.
Devo ammettere che non provo molta simpatia per chi, bardato da una solidissima e inattaccabile armatura concettuale, ha sempre pronta la risposta per ogni interrogativo. Non credo che esista una verità valida sempre e ovunque, ma infinite verità. A volte è difficile riuscire a sostenere con sicurezza cosa sia giusto e cosa sia sbagliato: oggi riteniamo esecrabili comportamenti e convinzioni che i nostri avi consideravano legittimi ed eticamente corretti. Dipende tutto dal contesto storico, culturale e sociale cui facciamo riferimento. Per questi motivi mi trovo più a mio agio con chi è ben disposto al confronto e a rivedere, se necessario, le proprie certezze per trovare, nel rapporto dialettico, le risposte alle tante domande che chiunque abbia un minimo di sensibilità quotidianamente si pone.
“Quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo?”. È la domanda con cui Bob Dylan, quasi cinquant’anni fa, cambiò non solo il modo di fare musica, ma anche la vita di milioni e milioni di giovani, consegnando alla storia un interrogativo che rimane di straordinaria attualità.
Quando il senso di vuoto e la solitudine del pensiero diventano insopportabili, in una società in cui sembra paradossale l’isolamento, può risultare utile anche affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria.

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