Se non cinquanta, sono comunque molte le cose da fare prima dei dodici anni (e anche dopo)

È di questi giorni il risultato di una ricerca sulle abitudini dei bambini fino a dodici anni (per l’esattezza, undici anni e tre quarti) realizzata per conto del National Trust, ente senza fini di lucro, costituito nel 1895, che ha come mission la tutela e la promozione di alcuni tra i più belli e storici paesaggi inglesi. In Inghilterra, come in gran parte del mondo “civilizzato”, è ormai una rarità incontrare ragazzini che giocano all’aperto, salvo che non siano portati dai genitori o dai nonni in qualche spazio chiuso (pineta, parchi, piazze). Chi ha i capelli bianchi, ma anche soltanto sale e pepe, ha invece avuto un’infanzia e un’adolescenza vissute “on the road”. Interminabili partite di pallone per strada (altro che supplementari: un unico tempo fino al calar del sole); un genere di nascondino (“a tola”) per il quale i limiti territoriali erano dati dai confini geografici dell’intero paese; l’attraversamento del ponte e della galleria ferroviaria a piedi o con le biciclette, tenendo le orecchie ben aperte per correre a perdifiato e rifugiarsi nella “nicchia” appena si sentiva in lontananza la sbuffata della Littorina.
Le cause di questo mutamento sono molteplici, in primo luogo l’eccessiva apprensione di alcuni genitori, che a volte è terrore ingiustificato, visto che, più o meno, ce la siamo cavata tutti. Ma anche i nuovi passatempi, svolti dentro le mura di casa, con una connessione internet o una consolle. La “Playstation Generation” esce pochissimo: neanche uno su dieci gioca frequentemente in spazi aperti, addirittura il 30% non sa andare in bici. Il National Trust ha lanciato la campagna delle “50 cose da fare prima di avere undici anni e tre quarti”, selezionandole da una lista di 400 compilata da una commissione di esperti composta da volontari del proprio staff:

1. Arrampicarsi su un albero
2. Rotolare giù da una grande collina
3. Accamparsi all’aperto
4. Costruire un rifugio
5. Far rimbalzare i sassi sull’acqua
6. Correre sotto la pioggia
7. Far volare un aquilone
8. Pescare con il retino
9. Mangiare una mela appena colta dall’albero
10. Giocare a conker (un gioco tradizionale inglese)
11. Lanciare palle di neve
12. Partecipare a una caccia al tesoro sulla spiaggia
13. Fare una torta di fango
14. Costruire una diga su un ruscello
15. Andare sullo slittino
16. Seppellire qualcuno sotto la sabbia
17. Organizzare una gara di lumache
18. Stare in equilibrio su un albero caduto
19. Dondolarsi da una corda
20. Giocare a scivolare nel fango
21. Mangiare more raccolte dai rovi
22. Guardare dentro un albero
23. Esplorare un’isola
24. Correre a braccia aperte facendo l’aeroplano
25. Fischiare usando un filo d’erba
26. Andare in cerca di fossili e ossa
27. Guardare l’alba
28. Scalare un’enorme collina
29. Visitare una cascata
30. Dar da mangiare a un uccello dalla mano
31. Andare a caccia di insetti
32. Cercare uova di rana
33. Catturare una farfalla con il retino
34. Inseguire animali selvatici
35. Scoprire cosa c’è in uno stagno
36. Richiamare un gufo imitando il suo verso
37. Osservare le strane creature tra le rocce di un lago
38. Allevare una farfalla
39. Dare la caccia a un granchio
40. Fare una passeggiata nel bosco di notte
41. Piantare qualcosa, coltivarla e mangiarla
42. Nuotare in mare, in un fiume, insomma, non in piscina
43. Fare rafting
44. Accendere un fuoco senza fiammiferi
45. Trovare la strada servendosi solo di mappa e bussola
46. Arrampicarsi sui massi
47. Cucinare in campeggio
48. Fare discesa in corda doppia
49. Giocare a geocaching (una caccia al tesoro con il GPS)
50. Andare in canoa su un fiume

Esclusi i giochi tipicamente inglesi, le attività stravaganti (caccia al tesoro con il GPS), quelle obiettivamente improbabili, soprattutto per un dodicenne (accendere il fuoco senza fiammiferi, cucinare in campeggio) e altre abbastanza pericolose (rafting, scendere in corda doppia, pagaiare sul fiume), c’è poco di clamoroso: nuotare, correre, osservare la natura e interagire con essa. Cose del tutto normali, fino a qualche decennio fa. Per molti di noi, gli alberi della vecchia piazza Matteotti erano una seconda casa. Ci trascorrevamo ore e ore, ognuno sul proprio ramo, personalizzato dalla firma incisa sulla corteccia. Senza contare le scorribande su quelli da frutto, qualche volta concluse con fughe spericolate per sfuggire al cane che il proprietario ci sguinzagliava contro, quando non ci rincorreva ascia in pugno.
Nella mia adolescenza ho partecipato alla costruzione di due rifugi. Il nostro mondo in due metri per tre di tavole e lamiere sottratte da qualche cantiere e inchiodate in un posto sicuro: un rifugio, appunto. Ci è capitato spesso di correre sotto la pioggia, non per scelta, ma perché, essendo sempre in giro, il temporale ci poteva sorprendere per strada. Pulcini da spogliare e asciugare col phon. La gioia dell’aquilone (“a pianeta”), realizzato con le canne e la carta dell’uovo di Pasqua, che facevamo volare al campo sportivo, e quella della gara a chi faceva rimbalzare più a lungo i sassi sul mare di Favazzina, quando le labbra viola e le mani rattrappite ammonivano che non si poteva più stare in acqua. È un’età in cui basta poco per divertirsi. Ma forse un tempo bastava ancor meno.

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Da “mastru” Nino Spanto

C’è stata un’epoca in cui gli adolescenti non “andavano” a danza, a musica, a scuola calcio, a pallavolo, a inglese e a chi più ne ha più ne metta. Tutte quelle attività che assorbono quasi interamente le ore pomeridiane dei ragazzi, fino a non molto tempo fa, erano pressoché sconosciute. Tutt’al più, giocavano a calcio, ma nelle strade e nelle piazze. Pagare per giocare è un costume in voga soltanto da un decennio a questa parte. Un tempo, si andava dal “mastru”, che era “un artigiano esperto e abile” (Giuseppe Pentimalli, Vocabolario ragionato del dialetto femijotu). Falegname, sarto, calzolaio, barbiere, panettiere, imbianchino, impagliatore di sedie (“seggiaru”), fabbro, fabbricante di basti (“vardaru”), cestaio, stagnino, tornitore erano le professioni che contavano più “discipuli” (apprendisti). Le botteghe degli artigiani erano una seconda scuola e anche chi, alla fine, non imparava l’arte, ne usciva in qualche modo “formato”. La maggior parte dei ragazzi “girava” due, tre, anche quattro mestieri, fino all’età del servizio militare. Famiglia, scuola, luogo di lavoro e infine la caserma, di fatto, hanno contribuito all’educazione di intere generazioni.

La bottega del “mastro scarparo” Nino Spanto si trovava in via Carusa, l’ex “calata” del cinema, in un tempo in cui (1957) il cinema ancora non esisteva. Era però in costruzione e da lì a poco sarebbe stato aperto al pubblico, gestito dai fratelli Domenico e Vincenzo (“u vichingu”) Luppino, rientrati in paese dall’Eritrea alla fine della seconda guerra mondiale. Dal calzolaio, i ragazzini imparavano a fare una scarpa dal nulla. Appena presa confidenza con trincetti e lesine, tagliavano il cuoio, cucivano la tomaia e i “petti” (le suole) con lo spago incerato e alla fine estraevano dalle forme inchiodate il prodotto finito. Il primo impatto con il lavoro consisteva in mansioni semplici: i più piccoli dovevano infatti raccogliere con una calamita “simiggi” e “zippe”, i chiodini che restavano per terra a fine giornata e che dovevano poi raddrizzare in modo da renderli riutilizzabili. Non era previsto alcun compenso. Erano anzi i ragazzi a omaggiare il “mastro” (feste comandate, onomastico e compleanno), il quale si sostituiva all’autorità paterna, grazie alla delega conferitagli (“se faci u malu, minati”) ed esercitata con schiaffi e nerbate generosamente distribuiti.

A partire da sinistra, in alto: Cosimo Surace (“u Patru”), ’Ntoni Saccà (“u Casettotu”), “mastro” Nino Spanto, Vincenzo Gabrotti, Nino Villari (“u Zoppareddu”, “Ngaiò”). In basso: Rocco Polimeni, Gaetano Comandè (“u Gattu”), Diego Forgione (“Mario”, “u Tornaru”), Franco Tripodi, Carmelo Pentimalli.

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Occhiali rotti

Nella prossima vita indagherò l’inconscio. Mi intrigano il mistero e il miracolo della psiche umana, la logicità e l’illogicità di taluni passaggi, i salti incomprensibili a una prima e a una seconda lettura, le associazioni mentali spericolate e inspiegabili. Siamo carne, è vero. Siamo ciò che ci circonda, ci plasma, ci indirizza verso vite che a volte prendiamo in prestito, spacciandole per nostre. Ma siamo soprattutto intelletto, ragione capace di sopravvivere mentre tutto sfiorisce, nel deserto che attorno a noi si rivela quotidianamente. Siamo spirito imprigionato dentro la corazza dei nostri corpi, leggerezza che fluttua nell’indecifrabile nostro andare.
Ho visto un bimbo piangere e correre inutilmente dietro al padre. Ho pensato che, in quel preciso istante, il dolore del mondo avesse quel volto, quelle lacrime, quel singhiozzo disperato. Poi è iniziato “il viaggio”. Tanti altri bimbi piangenti, ovunque vi sia una guerra, una sporca guerra con le sue cluster bombs, i “pappagalli verdi” di un gioco per ragazzini senza infanzia che gioco non è, mani e piedi scaraventati a decine di metri dai corpi. Ovunque l’uomo tenti di sopraffare un altro uomo. Medio Oriente. La guerra in Iraq e un giornalista freelance, Enzo Baldoni, che racconta quel che vede (2004). Che non si limita al ruolo di testimone scomodo e che, per molte vittime dilaniate nel corpo e nell’anima, diventa una possibile ancora di salvezza. Il suo rapimento e la sua esecuzione. L’ignominia del titolo di un giornale (“Libero”), che spara in prima pagina l’articolo di Renato “Betulla” Farina, agente dei servizi: “Vacanze intelligenti”. Proprio così. Che vuoi, Enzo? In fondo, te la sei cercata. La prossima volta, stai a Milano, invece di fare l’alternativo.
Siamo materia leggerissima, che vola nello spazio immenso della nostra fantasia e corre dal pianto di un bimbo al messaggio di pace della foto dei “piedi spaiati di Mohammed” (all’epoca, Baldoni scrisse a Emergency per chiedere se si potesse fare qualcosa per l’amico iracheno che durante un bombardamento americano a Falluja aveva perso entrambe le gambe e aveva ricevuto due piedi “spaiati”, un 37 e un 38). E allora buona Pasqua, con le parole dedicate da Samuele Bersani a Baldoni in Occhiali rotti.

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Tipi da bar

In un piccolo centro, il bar è un microcosmo rassicurante perché frequentato sempre dalla stessa gente, tranne i casi in cui un quattro di bastoni calato al momento sbagliato, una donna di quadri scartata con troppa leggerezza o una “bevuta” colossale a biliardo non provocano fratture insanabili che poi ognuno si porta fin dentro la tomba. In quel caso, uno dei contendenti difficilmente vi metterà più piede, o se lo farà, niente sarà più come prima.
Anche chi manca per molti anni dal paese, una volta ritornato non avrà grosse difficoltà a risintonizzarsi coi ritmi lenti dei frequentatori di un bar. Un mondo pressoché immutabile. Difatti, alla domanda “che si dice?”, la risposta è inevitabile: “la solita” (o “la solita vita”, quando l’interlocutore è particolarmente loquace). Passano gli anni e si succedono i clienti (fisiologia), ma i “tipi” di avventori rimangono – più o meno – gli stessi.

L’ALLENATORE. Ogni bar che si rispetti ha un buon 90% di clienti in grado di far giocare divinamente qualsiasi squadra di calcio, di operare la sostituzione giusta al momento opportuno, di vincere a mani basse tutte le competizioni, nazionali e internazionali. A queste latitudini, il triplete sarebbe all’ordine del giorno; il campionato del mondo di calcio, poco più di una gita di piacere.

IL CUBISTA. Spara, spara, spara. Ma non è un violento. Le sue pistole – come ne Il signor Hood – sono “caricate a salve”, anzi a balle. Il cacciatore non torna a casa con meno di 20-30 tordi o due cinghiali grandi quanto un elefante. Il cercatore di funghi spiana la montagna, palmo per palmo, e riempie il cofano dell’auto di porcini. Il pilota di Formula Uno va a Reggio in quindici minuti, anche ora che l’autostrada è un interminabile doppio senso di marcia. Dalle sue dichiarazioni, occorre estrarre la radice cubica.

IL REDUCE. Generalmente è pensionato, o comunque ha un’età che prima della stretta montiana dava diritto a un meritato e retribuito riposo. Ora riposa soltanto, gratis. Inizia tutti i suoi discorsi con “ai miei tempi” e ti fa capire di avere vissuto e di conoscere il mondo meglio di chiunque altro. Mica è come te, che non hai mai fatto alcunché di memorabile. Le sue gesta meritano di essere tramandate ai posteri, affinché si sappia che il paese può vantare tra i concittadini un supereroe.

LA FAINA. Quando porta appresso il borsello, bisogna aprire gli occhi. Probabile che, in un paio di minuti, scompaia il giornale. L’informazione è importante, specie quella locale, l’unica che realmente interessi. Una particolare convenzione con l’edicolante preserva infatti dal rischio di ritrovarsi senza quotidiano nei giorni di retate importanti o fatti di cronaca nera in zona. C’è anche quello che, se ti distrai un attimo, sfila dall’espositore sul bancone un pacco di caramelle o di gomme da masticare. Ed è convinto che ti abbia fregato, solo perché tu lo lasci perdere.

IL POLITICO. Da quando sono in auge i tecnici, è stato soppiantato da un’altra figura: l’economista. In ogni caso, ha la ricetta pronta per ogni tipo di problema. Dal comune al Parlamento europeo, siamo rappresentati da una manica di incompetenti e di ladri, feccia da mettere al muro. Al loro posto farebbe però lo stesso, perché tanto “se non rubi tu, ruba un altro”. Una logica impeccabile, che giustifica il livello infimo del suo senso etico (“lo fanno tutti”; “tutti colpevoli, nessun colpevole”).

IL SOPRAMMOBILE. Non consuma, non partecipa a nessun gioco, non fa niente. Al massimo, guarda la televisione, senza neanche capirci molto. Però è sempre presente. In un mondo senza più punti di riferimento, costituisce una rara certezza. Lo alzi, togli la polvere e lo risistemi al suo posto. Ormai fa parte dell’arredamento, come il frigorifero dei gelati o l’espositore delle patatine.

LO SCROCCONE. Passa e ripassa tremila volte davanti al bar, aspettando l’attimo in cui individua la potenziale vittima. In realtà, con quello che costa la benzina, gli converrebbe fare da sé, e magari offrire lui. Il piano B è invece più temerario e spinge il nostro fino ai tavoli di gioco per salutare, nella speranza che qualcuno gli chieda “prendi qualcosa?”. Fatica sprecata, con gente ormai scafatissima.

IL LATIN LOVER. Quando ancora esisteva il telefono a gettoni, passava ore e ore a bisbigliare parole incomprensibili, coprendosi la bocca con la mano (molto prima di Fabio Capello e Antonio Cassano), sempre sul punto di strangolarsi col filo della cornetta. Oggi è diverso. Quando gli parte la suoneria di “ai se eu ti pegu”, cerca la complicità del tuo sguardo per comunicarti la fatica di essere Casanova.

IL TUTTOLOGO. È l’evoluzione del “politico”. Altrimenti noto come “la Treccani”, è in grado di guidare le conversazioni più disparate, dalla fotosintesi clorofilliana ai fiumi dell’Asia. Ha però fortemente accusato il colpo dell’avvento di internet. Con la possibilità di verificare in tempo reale ogni sua “pillola di saggezza”, l’autorevolezza è andata a farsi benedire, soppiantata da irriverenti sghignazzate.

IL MESSICANO [amarcord]. Amante della siesta pomeridiana, l’abbiocco post-prandiale sempre in agguato. Una specie ormai in via di estinzione, che ha goduto del massimo splendore negli anni Ottanta. Ne contammo fino a nove, in un caldo pomeriggio di quasi estate, ronfanti sulle sedie, a bocca aperta.

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Oggi è così

Avrei un miliardo di cose da dire, ma con quel miliardo non riempirei neanche una minima parte del buco che ho dentro.
Magari un’altra volta, oggi è così.

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8 marzo

L’ammetto: l’8 marzo è una ricorrenza che abolirei. Nonostante la storia di emancipazione che impregna tale data, non ha molto senso perché è sotto gli occhi di tutti che le donne sono discriminate quotidianamente, sui luoghi di lavoro e altrove; sono le principali vittime nei casi di violenza familiare; devono sudare il doppio per avere la metà di un maschio.
Abolirei l’8 marzo perché ogni giorno dovrebbe essere festa della donna. Per lo stesso motivo sono contrario alle quote rosa, che mi sanno di attrazione da circo Barnum. In una società moderna, dovrebbe andare avanti chi ha merito, indipendentemente dal sesso. Come la gran parte delle ricorrenze, l’8 marzo è il festival dell’ipocrisia, un lavarsi la coscienza per ricominciare, il 9, a prendere a calci in culo le donne, metaforicamente e non.
Ho avuto (e ho) la fortuna di avere a che fare con donne straordinarie. E ho potuto constatare che le donne generalmente hanno una marcia in più rispetto agli uomini. Sanno essere un treno, non si fermano di fronte a niente e a nessuno, hanno un’energia incredibile. Forse per questo sento particolarmente il tema e mi intrigano le storie che hanno come protagoniste le donne, siano esse mamme, nonne, sorelle, amiche, compagne, mogli, figlie, nipoti. Si chiamino “Roger” o “Martina”. Ce la facciano o meno ad ottenere quello che desiderano.
Come nella canzone di Francesco De Gregori Compagni di viaggio, tratta dall’album Prendere e lasciare (1996). La storia di un uomo e di una donna che non riescono a stare insieme nonostante l’amore che li lega e che Enrico Deregibus (Francesco De Gregori. Quello che non so, lo so cantare, Giunti editore, 2003) ha paragonato a “una Rimmel vent’anni dopo […], frammenti, poco definiti e molto definitivi di una storia, cocci difficili da riattaccare. […] Sgoccioli di un rapporto di coppia, lividi che si sovrappongono sull’anima”. Forse sto andando “fuori traccia”. O forse no, perché quel “sarà sempre tardi per me quando ritornerai” dice molto sulle donne e difficilmente avrebbe potuto pronunciarlo un uomo.

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E le abitudini cambiano

Due settimane fa sono state sessanta primavere per Vasco Rossi, l’unica vera leggenda rock italiana. E con questo incipit mi gioco la simpatia dei fans di Ligabue, anche se sinceramente ho sempre pensato che la rivalità tra i due sia un’invenzione giornalistica. Comunque sia, rispetto per il lavoro del Liga, ma Blasco è Blasco. Ho avuto modo di assistere a concerti di entrambi. Non c’è partita. L’adrenalina che trasmette l’artista di Zocca ti rimane in corpo per una settimana. L’unica similitudine possibile riguarda semmai la rispettiva recente produzione, che non mi sembra all’altezza degli anni d’oro. Ma questa è un’impressione personale, alimentata forse anche dall’età, che non è più quella in cui Ogni volta e Canzone (la mia preferita) accompagnavano le mie giornate. Non so dire se sono io ad essere invecchiato, se Vasco si è imbolsito, o se siamo tutti e due da rottamare. Fatto sta che mi sono fermato all’album Nessun pericolo per te (1996). Da lì in avanti, credo sia diventato un altro Vasco, un po’ monumento di se stesso, al quale non sono più riuscito a stare dietro. Nonostante diverse altre belle canzoni e una presenza scenica sempre in grado di suscitare intense emozioni.
L’ho “conosciuto” attorno ai 12 anni. Me lo “presentò” alla sala biliardi di mio padre un ventenne, tirando fuori dal taschino del giubbotto di jeans la musicassetta di Non siamo mica gli americani, album inciso almeno cinque anni prima e celebre per Albachiara. Aveva già fatto in tempo a classificarsi penultimo (!) al Festival di Sanremo con Vita spericolata (1983), ad essere arrestato per droga (1984) e ad accrescere a dismisura la fama di esempio da non imitare. Con Luis cominciammo a comprare le sue musicassette (Carosello, dalla caratteristica custodia arancione), ma poi acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita. Nella nostra classifica “rossiana” del tempo, per me al primo posto c’era Albachiara; per mio fratello, che è sempre stato molto più rock di me, Siamo solo noi, compreso il dito medio sbattuto in faccia al mondo. In camera avevamo un poster che lo ritraeva nella sua classica posa, con una mano appoggiata sull’asta del microfono. Non chiedetevi quante locandine ci fossero nella nostra stanzetta. Tanti. Pink Floyd, James Dean, Rambo, Bruce Springsteen, Rummenigge, un boxer (che anticipò l’arrivo di Eros) e altre che “ruotavano”: Maradona, per esempio, che adoravo nonostante la mia fede nerazzurra. A differenza della Juve di Platini e Boniek (mamma) e del Milan di Sacchi (Mario), che pure ho dovuto tollerare, attaccati accanto allo sguardo triste di Ayrton Senna. E fortuna che avevamo la possibilità di dirottare nella sala biliardi tutto il resto: l’Italia Mundial ’82 (in cornice), l’Inter dei record, Ivan Lendl, Gianni Bugno e molti altri miti dello sport.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Andava bene quando eravamo innamorati, delusi, incazzati (quante volte ho urlato Portatemi Dio); quando volevamo fare i pazzi (Sensazioni forti) o gli strafottenti, perché la vita è questa e bisogna viverla andando “al massimo”; quando tutto sembrava congiurare contro di noi (Lunedì) e cedevamo al fatalismo (Anima fragile). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: “e intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano”. Quella scritta non c’è più, come la panchina e la pavimentazione, sostituite quando la piazza fu ampliata e completamente rifatta. E come quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere.

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Dai ricordi di un ex fumatore

“Nel pacchetto ci sono due sigarette, una per te e una per me. Io da domani non fumo”. Con queste parole, due anni fa attaccai la sigaretta al chiodo, dopo quindici anni di onorata carriera. Qualcosa in più se contiamo anche le esperienze “giovanili”. Una terrificante N80 a quindici anni, di ritorno da Palmi sulla Littorina; un pacchetto di Merit divorato in tre alla Pineta, in non più di venti minuti; quelle scroccate a mio fratello e a Nino. Ma il “vizio” (lo spartiacque è dato dall’acquisto personale) risale al terzo anno di università. Quando ormai stavo per passare indenne dal periodo statisticamente più rischioso. L’università, si diventa grandi, si vive lontano da casa. E si fuma. Per darsi un tono, perché lo fanno gli altri, per sentirsi figo, per assumere la posa da “maledetto”.

Come James Dean nel poster alla parete della mia cameretta. O il tenebroso Humphrey Bogart che in Casablanca avrà fumato minimo due stecche di “bionde”. Gli esempi negativi, da questo punto di vista, sono infiniti.

Ho fumato Lucky Strike, per sentirmi un po’ Vasco. Avrei voluto essere De André, bellissimo con la sigaretta tra le dita. Me lo immaginavo pensoso, ubriaco e incazzatissimo, una-boccata-un-bicchiere-un-verso, una-boccata-un-bicchiere-un-verso: “evaporato in una nuvola rossa”.
Oppure Guccini: “E ho ancora la forza di guardarmi attorno/ mischiando le parole con due pacchetti al giorno”.
Non un fumatore incallito, però le mie dieci-quindici sigarette al giorno le fumavo. Anche se non sono mai stato riconosciuto come un top smoker, soprattutto in famiglia. Quando offrii a mio padre (un fuoriclasse) una Marlboro “light”, l’unica volta in cui era rimasto senza le sue “rosse”, quasi mi umiliò: “come fai a fumare questa roba? Puzza!”. Per non dire di mio fratello Luis, definitivo: “o fumi Marlboro rosse, o è meglio lasciare stare”.
Avevo provato altre volte a smettere, con scarsi risultati. Al massimo, un paio di mesi. Dopo ho sempre ripreso. Come fare, d’altronde? Metti che hai un problema che non ti fa dormire la notte. Ci vuole la sigaretta. Se devi prendere una decisione importante, ci vogliono un paio di boccate vigorose per non fare la scelta sbagliata.
“Ora ho troppe preoccupazioni” è il più comodo e infantile degli alibi. Perché motivi per non essere sereni, purtroppo, se ne presentano tutti i giorni. E poi, chi non fuma, allora come fa a sopravvivere ai propri guai? Smettere è una questione di testa. Perché, spesso, la sigaretta è un gesto istintivo. Un riflesso pavloviano. Subito dopo il caffè, appena metti in moto la macchina, all’uscita dal cinema. Proprio per questo, i primi giorni sono davvero duri. Corsi online, prodotti omeopatici, agopuntura, ipnosi, psicoterapia comportamentale, sostituti nicotinici (cerotti, gomme e pastiglie, sigarette elettroniche o senza tabacco, inalatori) sono però una perdita di tempo e di soldi. Addirittura, esistono “centri antifumo”, suppongo strutture simili alla clinica per dimagrire del dottor Birkenmayer (Il secondo tragico Fantozzi).
Questione di testa. Altrimenti si finisce come lo studente universitario che durante uno sciopero dei tabaccai, dopo avere esaurito le scorte racimolate al mercato nero, acquistò in farmacia una sigaretta senza tabacco pur di fumare qualcosa. Un mito.

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Ho scritto al ministro Profumo. E mi ha risposto

Qualche giorno fa avevo scritto al ministro della Pubblica Istruzione. Ho abbastanza esperienza per sapere come vanno queste cose. Mi ero detto: “Qualche collaboratore del ministro Profumo leggerà (forse) e cestinerà”. Nella migliore delle ipotesi, lo stesso collaboratore invierà un paio di righe di risposta, le solite frasi di circostanza. Insomma, non mi aspettavo chissà cosa, tanto che non avevo neanche intenzione di rendere pubblica la mia lettera. E invece la risposta mi è arrivata, una email della segreteria del ministero:

“Gent.mo dr. Forgione, apprendo dalla sua lettera lo sconforto che sta vivendo. La invito però a non demotivarsi nonostante le difficoltà del momento e a continuare a credere nel suo impegno. Cordiali saluti”.

Mi è sembrata un’inaccettabile presa per i fondelli. Cioè, sono io che non devo demotivarmi?! Io non mi sono mai demotivato, altrimenti avrei gettato la spugna prima di oggi!
Ho quindi deciso di pubblicare la lettera e di cercare di diffonderla per quanto mi è possibile. Vi chiedo di fare lo stesso, con tutti i mezzi che avete a disposizione (email, facebook, twitter). Probabilmente, non cambierà nulla. Ma è giunto il momento di gridare, per dire almeno che non siamo più disposti a sopportare in silenzio.

27 gennaio 2012
Ch.mo prof. Profumo,
chi le scrive è un dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea che ormai non sa più quanti bocconi amari ha ingoiato da quando ha avuto la disgrazia – perché tale si è rivelata – di vincere il concorso all’Università di Messina, nell’ormai lontano 2001.
A conti fatti, è stata una vera sciagura, che mi ha precluso opportunità lavorative che non si ripresenteranno mai più. Altrove (si pensi al PhD anglosassone) il dottorato è un passe-partout che apre le porte all’eccellenza, ai posti di lavoro più prestigiosi, tanto da costituire un requisito quasi indispensabile per chi aspira a diventare classe dirigente. In Italia, il dottorato non solo non dà niente, se non una precarizzazione infinita, ma in un certo senso è penalizzante, perché se si è investito tutto su quello, al termine del corso ci si ritrova praticamente senza niente in mano. E così, esperienze lavorative all’estero, pubblicazioni, dieci anni di collaborazione con una cattedra universitaria inseguendo il miraggio “prima o poi arriverà il mio turno”, si sono rivelati un suicidio. Perché giunti alla soglia dei quarant’anni, un dottorato in una disciplina umanistica e una laurea in scienze politiche non hanno alcuna spendibilità nel mercato del lavoro.
Nell’Università, al di là di ciò che si strombazza ogni qual volta si approva una riforma, non cambia mai niente. Perché si possono fare centomila riforme, ma il sistema rimane sempre autoreferenziale: commissioni fatte da professori. Prima era tutto più semplice perché la “scelta” dei candidati vincitori veniva fatta a livello locale. Ora c’è solo un passaggio in più: commissari esterni fanno vincere il candidato “scelto” dalle facoltà, perché tanto i membri “girano”. Tu mi fai il favore qua, io te lo ricambierò nella tua facoltà, quando si presenterà l’occasione.
Può dirmi: “se hai le prove denuncia, altrimenti stai zitto”. Lo sappiamo tutti che è difficilissimo dimostrare l’imbroglio. Le commissioni giudicano secondo criteri “oggettivi”. Li conosco bene. Per gli insegnamenti a contratto, le esperienze di dottorati e assegni di ricerca hanno una valutazione che oscilla da un punteggio minimo ad uno massimo. Ovviamente, il candidato che “deve” vincere ottiene il massimo e le sue pubblicazioni sono “attinenti” con la materia messa a bando. Per gli altri non è mai così. Assegni di ricerca, post-dottorati, concorsi per ricercatore: dalla composizione della commissione di esame si sa già chi vincerà. Perché una sola pubblicazione di 100 pagine (per metà un’appendice con documenti copiati) può valere più di diversi libri, saggi e articoli, purché edita su una rivista specializzata. Magari, quella del preside della facoltà che ha indetto il concorso e che ha una candidata, quasi cinquantenne ed estranea al mondo universitario, da sistemare per ripagarla di servigi di altra natura.
Insomma, se il professore al quale si è legati non conta nulla, si rimarrà sempre fuori dal sistema.
E fuori c’è il nulla. Ci si ritrova, saltuariamente, a fare lavori per i quali non sarebbe stato necessario alcun titolo, né scolastico, né accademico. Come si può, in queste condizioni, pensare al futuro, a farsi una famiglia? Aspirazioni legittime, non la Luna.
Capisco che non possiede la bacchetta magica. Per cui so che non può risolvere, dall’oggi al domani, una situazione che si trascina da decenni. Lei però conosce benissimo il problema, cioè cosa spetta a tantissimi giovani all’indomani del conseguimento del pezzo di carta: disoccupazione, sottoccupazione, lavori dequalificanti che non hanno alcuna correlazione con il percorso di studi seguito. Infine, inoccupazione, quando la stanchezza prende il sopravvento. Per pochi “fortunati”, se così si possono definire coloro che hanno la possibilità di fare qualche lavoretto in nero, o qualche contratto a progetto per un paio di mesi, sfruttamento senza alcuna tutela e senza alcun diritto.
Siamo la prima generazione della storia d’Italia senza futuro. Siamo una generazione che non può farsi una famiglia perché non ne ha la possibilità. Siamo una generazione che tra trenta-quaranta anni farà esplodere una bomba sociale che neanche riusciamo ad immaginare. Perché non avremo niente, neanche uno straccio di pensione. Siamo una generazione senza sogni. E questa è la cosa che fa più male. Quando non si è più capaci di sognare, si sta cominciando a morire. È ciò che sta capitando a molti di noi. Perché anche i sogni (la carriera universitaria, nel mio caso) sono ormai una possibilità come tante altre. Come qualsiasi cosa che ci consenta di non dovere “chiedere”, di potere fare fronte alla vita con le nostre sole forze.
Servono riforme strutturali. Servono percorsi formativi che portino ad uno sbocco lavorativo. Servono corsi di formazione che non siano soltanto uno strumento clientelare di gestione del potere. Il solito escamotage per stabilizzare gente nominata per intuitu personae, quell’intuito che tutti conosciamo.
La mia storia è certo una sconfitta personale, ma è anche l’esito tristissimo di un modello di sviluppo e di politiche occupazionali fallimentari.

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Gli anni Ottanta di mio fratello Mario. E anche i miei

A scrivere sugli anni Ottanta, non ci si stancherebbe mai. Sarà che eravamo dei ragazzini spensierati, sarà che il passato ci strappa quasi sempre un sorriso, sarà che l’ingenuità e l’innocenza di quel tempo non le ritroveremo più. Molti di voi conoscono mio fratello Mario, da 14 anni “esule” (secondo la sua autoironica definizione) a Londra. È più piccolo di me di nemmeno due anni, per cui abbiamo avuto un’adolescenza identica. Ha scritto un pezzo sugli anni Ottanta, che sono felice di riproporre sul mio blog. Chi in quegli anni c’era sorriderà, chi non c’era forse avrebbe voluto esserci. Alcune chicche, tipo quella finale del mangianastri sulle Vespe, le avevo scordate.

Associo gli anni Ottanta alla parola “semplicità”. Nel 1980 avevo 5 anni e grazie al telefilm Spazio 1999, vivevo nella certezza che il mondo sarebbe finito nel 2000. Nel mio cervello da bambino, però, il 1999 era lontano anni luce, perciò non c’era niente di cui preoccuparsi. Non c’erano complicazioni allora. Il mio unico problema esistenziale riguardava la “signora” dell’asilo, la quale aveva notato che ero mancino ed aveva deciso di correggere quel mio difetto, obbligandomi a tenere la mano sinistra dietro la schiena. Sfortunatamente per lei, anche a quell’età facevo di testa mia. A casa scrivevo con la sinistra, pagine e pagine di vocali e lettere dell’alfabeto. All’asilo, tenevo la matita con la destra, ed appena la megera voltava occhio, scattavo dai box con la sinistra. Ero velocissimo. Fui scoperto una mattina d’inverno, ma troppo tardi. Il danno era fatto, non avrei mai scritto con la destra, se non altro per questioni di principio.
La scuola elementare si rivelò una pacchia immane. Il mio professore credeva nell’attività fisica. Ricordo con piacere gli sguardi di invidia degli altri bambini sempre chiusi in classe o nella migliore delle ipotesi in terrazzo mentre noi si giocava per ore in cortile. Le bambine erano delle funambole nel gioco dell’elastico. Noi bambini eravamo impegnati in interminabili partite di pallone, interrotte solo al suono della campanella. Se pioveva, si andava in palestra. Per motivi tuttora a me alieni, io ero il primo della classe, uno status che mi permetteva di esprimere un’opinione su tutto.
Erano gli anni di Dallas, che mia madre guardava religiosamente il lunedì sera. Le attrici avevano delle acconciature impossibili. Quando un giorno il professore mi chiese di dare la definizione di volume, io risposi che un esempio eclatante erano i capelli di Sue Ellen, la moglie ubriaca di JR. Anche da bambino mi dilettavo in associazioni di idee improbabili ma che il mio professore incoraggiava. Quando le disse che ero un creativo, mia madre non dimostrò però nessun entusiasmo. In TV guardavo tutti i cartoni animati, ma poiché Candy Candy, Anna dai Capelli Rossi, Remi e Heidi erano roba da bambini rammolliti, io mi concentravo su Gig Robot d’acciaio, Goldrake e Mazinga Zeta: probabilmente le tette esplosive di Afrodite A, la fidanzata di Mazinga, al giorno d’oggi sarebbero state censurate durante la fascia protetta. Il sabato c’era Fantastico con Pippo Baudo ed Heather Parisi, che non solo era americana, ma era entrata nell’immaginario collettivo perché un gran bel pezzo di figliuola.
In un batter d’occhio mi ritrovai nell’86, in scuola media, corso C, quello d’Inglese. Guardavamo con sufficienza gli sfigati del corso A e B, che studiavano Francese e quindi venivano ritenuti inferiori. Inspiegabilmente, ero ancora primo della classe, ma in realtà ero ignorante come una capra. L’87 è stato l’anno dei miei primi turbamenti pre-adolescenziali. All’improvviso, il mensile taglio di capelli diventò un momento irrinunciabile. Penso che i barbieri di paese fossero responsabili dell’educazione sessuale di intere generazioni di ragazzi. A meno che non si avesse un fratello maggiorenne, era lì che si aveva accesso a materiale VIETATO e fumetti porno. I più popolari erano Sukia, la vampira assetata non solo di sangue, ed Il Camionista, che incidentalmente aveva il mio stesso nome: non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi.
Ad 11 anni scoprii la “piazza” (piazza Matteotti) e la mia vita cambiò radicalmente. Si giocava a calcio dalle 16 alle 20, quando mia madre prelevava me e i miei fratelli in Fiat 500. Quelli erano gli anni dei record. Il più eclatante era quello dei giri della piazza in bicicletta senza mani, tuttora detenuto da Calarco. Si fermò a mille per sopraggiunta oscurità. Io detenevo quello del giro della piazza in pattini a rotelle: fermai il cronometro a 17.9 secondi. Talvolta facevamo delle trasferte in pineta, che a suo tempo era un pezzo di bosco, una distesa d’erba ed alberi. Lì, dribblando pure i tronchi, sfidavamo a calcio i bambini “pinetoti”. Il mio albero era però in piazza, sulla sinistra, vicino al muretto, che era un altro punto di incontro dove si svolgevano anche le sfide di briscola. Spendevamo ore arrampicati su quell’albero. Ognuno aveva il suo ramo, sul mio vi avevo inciso il mio nome. Quell’albero lo tagliarono nel 1993: piansi. Quando avevamo fame ci riversavamo sugli orti: eravamo peggio delle locuste e mangiavamo di tutto: ciliegie, prugne, fragole, albicocche, pesche, lattuga, finocchi, fave. Non lavavamo mai niente. Al limite ci soffiavamo sopra. Nessuno è mai stato male, a riprova che l’esposizione allo sporco ed ai batteri tempra il sistema immunitario e che le pubblicità odierne su prodotti che uccidono il 99.9 di batteri dovrebbero essere bandite perché promuovono solo psicosi di massa.
Quelli erano anche gli anni dell’orologio Casio con calcolatrice incorporata, del cubo di Rubik, di jeans avvolti sulle caviglie, di pettinature improbabili e di cinture dalle fibbie pesantissime, armi improprie da dichiarare ai Carabinieri. In paese imperversavano le Vespa 50, rigorosamente truccate. Avrei venduto mia madre per possederne una, con tanto di antenna e mangianastri incastrato nel porta oggetti, così tamarramente geniale che proporrei una raccolta di firme per riproporla. Poi, all’improvviso giunse il 1989, con una tempesta ormonale che mi fece esplodere la faccia. Fu la fine dell’innocenza.
Mi chiamo Mario, ho 37 anni. Negli anni Ottanta ero un bambino. Segretamente, lo sono ancora.

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