I colori da dietro

Accettare il punto di vista dell’altro, o anche soltanto riuscire a prenderlo in considerazione come ipotesi alternativa alle proprie immodificabili idee, segna il confine tra l’arena e l’agorà.
Capita spesso di ascoltare, sconfortati, gente urlarsi addosso e capire, alla fine, che la rissa diventa essa stessa il tema centrale della discussione. Qualche artificio dialettico a protezione del dogma e il gioco è fatto: l’arroganza ingloba tutto, immiserisce il confronto e lo riduce a prosaica questione di decibel o di protervia.

Il nostro io reclama la scena (tutta la scena), il salotto diventa giungla, la legge del più forte (di ugola) facile scorciatoia. Una compulsiva furia onanistica, che rende centro dell’universo quel maledetto ombelico che ci deliziamo a contemplare, quasi estasiati.

Basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie. Basterebbe guardare il colore “da dietro”, come ci insegna Antonio Albanese (alias Epifanio Gilardi) in un monologo bellissimo e serissimo, farsi affascinare dalle sfumature e comprendere che le tinte più belle hanno gradazioni, contrasti e luminosità infiniti. Bianco e nero appartengono ai vecchi televisori e ad una visione manichea della vita, tipica delle guerre di religione. In un mondo che non potrà mai corrispondere a ogni individuale aspirazione, convivere con la ragione dell’altro diventa “la” necessità, non “una” possibilità.

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Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele.
Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.

Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l’on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant’eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata “Delianuova”. Quindi se non vuoi essere “richiamato” per l’ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:

a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;

b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;

c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;

d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;

e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);

f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

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Quantomar per l’Argentina

Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.

Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.

Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.

Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.

Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole di Peppina, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Nel giro di un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.

Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.

Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.

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Caldo africano e ospedali reggini

Ogni volta che rischio di liquefarmi, inscatolato e intrappolato sul “corpo del reato” più lungo del mondo (l’autostrada Salerno – Reggio Calabria), ripenso alla saggezza del Barone: “uno dei più grandi errori della tua vita”. Il termine utilizzato – a dire il vero – è un altro, irripetibile. Ad ogni modo, sì: l’acquisto, dieci anni or sono, di un’auto priva di climatizzatore (e a tre porte, pesante aggravante ai fini del negativo giudizio finale), va annoverato tra le mie topiche più clamorose.
Con Scipione ci siamo soltanto intravisti, Caronte invece mi è saltato addosso proprio mentre procedevo a passo di lumaca sull’asfalto infuocato. Lucifero, più in là, dovrebbe dare il colpo di grazia ai sopravvissuti delle prime due ondate di calore di questa estate 2012. Ci saranno tempi e modi. Intanto, un dato è certo: menzione speciale per l’ideatore dei nomi da attribuire all’anticiclone africano. Veramente rassicuranti. D’altronde, siamo abituati. In Italia, si è sempre di fronte ad emergenze catastrofiche, prossimi alla rovina. Ora è il momento dell’ “emergenza caldo”, che ha scalzato la precedente “emergenza freddo”. Passiamo dalle raccomandazioni allarmate su come fronteggiare il “generale inverno” (strano: in inverno fa freddo) alla litania sulle impennate della colonnina del mercurio (strano: in estate fa caldo).

Pensavo a questo, mentre imprecavo contro il nostro sistema sanitario, non comprendendo la ratio della sua farraginosa, inconcludente e irritante burocrazia. Un mese fa, un mio amico ha avuto un ricovero, dopo di che è stato dimesso con la prescrizione di una successiva visita di controllo. In un paese normale, un cittadino pensa che, essendogli stato detto di tornare giorno X, non serve prenotazione. Invece, non vanno così le cose e nessuno si premura di farlo presente all’ignaro utente.
Non solo. Nell’anno di grazia 2012, la prenotazione va fatta “esclusivamente” utilizzando l’apposito numero verde. Non esiste altro sistema, men che meno farlo direttamente in ospedale. Ora, intuisco che possano sussistere ragioni di natura organizzativa, ma snellire qualche procedura, informatizzando qualche passaggio, è chiedere troppo?
Il numero verde è il catalizzatore naturale di malanove per eccellenza. Componi il numero, ascolti per ore la musichina della segreteria telefonica, saggi il tuo livello di sopportazione, quindi esplodi, imprechi e spacchi la cornetta dell’apparecchio. Dopo interminabili tentativi, se non ti sei già trasformato nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, hai discrete possibilità di portare a casa il risultato.
Ricapitolando, per un’estate serena, occorre almeno una delle tre seguenti condizioni: a) una salute di ferro; b) un’auto climatizzata; c) temperature primaverili.

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Boni cunti

Peppuzzo conosceva molte storie di povertà e non perdeva occasione di narrarle a noi ragazzi che trascorrevamo con lui qualche ora del pomeriggio sulle panchine della vecchia piazza Matteotti, attenti ai dettagli dei suoi affascinanti e incredibili racconti. La sua infanzia era stata segnata dalla guerra. “Entravano da là” – ci diceva, indicando un punto all’orizzonte, tra la cresta della montagna e il cielo. Immaginavamo tutto il paese, sguardo in alto e gambe svelte, dirigersi nei rifugi per scampare ai bombardamenti degli Alleati che braccavano l’esercito tedesco e lo costringevano a risalire la Penisola, nella primavera-estate del 1943. Famiglie intere riparavano nella galleria del ponte sulla ferrovia o in caverne naturali lungo la strada che porta sull’Aspromonte. Ci passavano davanti l’ansia e la paura vissute dai nostri nonni, ma anche la festosità di un parto avvenuto proprio dentro la galleria, tra lo stupore e la gioia generale.

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.

Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.

Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.

A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.

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Il pane di Franco

Ho letto il mio nome sopra una torta, per la prima volta in vita mia, mentre la “Marconi” solcava il Pacifico. Compivo ventidue anni e il destino e la povertà mi stavano consegnando a un continente del quale conoscevo a malapena il nome. Chissà com’erano i suoi abitanti? E quanti “paisani” ci sarebbero stati ad attendere la nave al porto? Beh, se mio fratello Stefano mi aveva detto di raggiungerlo, cinque anni dopo il suo arrivo in una terra così lontana, gli indigeni tanto malvagi non dovevano essere. Sugli amici, poi, si poteva sempre contare. Anche io avrei avuto un lavoro. Non cercavo altro.

Rimasi stupito dalla cortesia dell’equipaggio. Non conoscevo nessuno su quella nave e un sacco di gente mi stava festeggiando. Buon segno. Una torta così bella l’ho ricevuta nuovamente a capelli totalmente bianchi, per i miei sessant’anni, regalo maturo e sorpresa confezionata dai miei figli.

Il gelato no, quella era stata un’esperienza quasi traumatica. Avevo nove-dieci anni ed ero incantato dal gelataio, un pifferaio su bicicletta trainante un carretto, dietro al quale s’incolonnavano bambini imploranti. “Gelati, graniti, senza sordi non veniti!”, metteva in guardia. Stefano aveva racimolato un po’ di spiccioli per comprare un minuscolo cono al limone che mi fece assaggiare. Guardai lo strano oggetto che tenevo tra le dita, come per capire quando e come aggredirlo, quindi gli diedi un morso. Era freddo! Una sensazione a me sconosciuta, per la quale non ero preparato. Sulle prime, non sapevo se sputare o inghiottire; alla fine temporeggiai un tempo che mi sembrò infinito, ma che mi consentì di mandare tutto giù, incredulo e muto, come chi non sa se sia scherzo o realtà.

Un mese di viaggio. Scappavo dalla miseria, mia e di chi mi stava attorno.
Franco viveva con dieci fratelli in una baracca post 1908 spoglia come un ciliegio in autunno. Uno spettacolo deprimente. E sì che ero abituato, allenato com’ero con la mia, una specie di cuccia per uomini e cimici che si contendevano quel poco spazio. Una stanza e mezza per nove corpi che, in inverno, rimediavano alla mancanza di riscaldamenti incastrandosi dentro due letti e, d’estate, schiattavano sotto le lamiere roventi. Non c’era acqua, se non la poca prelevata dalla fontana pubblica, si faceva luce con la lampada ad olio e si cucinava sul fusto alimentato con la segatura. Quasi tutti i giorni, però, una pentola di patate messa a bollire manteneva il nostro morale a un livello accettabile. Stava là – come un centrotavola – e dentro vi pescavamo a turno, facendo attenzione a non infilzare qualche mano. Tranne quella volta che fui sgridato e, per vendetta, di nascosto la divorai quasi per intero. Inseguito dai miei tre fratelli, mi diedi alla macchia e feci ritorno diversi giorni dopo, appena in tempo per non fare morire mia mamma di crepacuore. Mi sarei riscattato qualche anno più tardi, con la prima paga da imbianchino investita per regalarle una cucina a tre fuochi.

Da Franco, invece, la tavola faceva “scurare” il cuore. Intorno, poche sedie e una nidiata di bimbi ai quali toccavano, tutti i santi giorni, pane e olive. Raramente, un tocco di formaggio che veniva sfregato su ogni singola fetta di pane, non potendo essere companatico sufficiente per tutti. Pane e odore di formaggio. Per il pane provvedeva Franco, con la mia complicità. A dodici anni lavoravamo in un forno e quel ben di Dio era una tentazione alla quale non potevamo e non volevamo resistere. Allora intuivo qualcosa, inconsciamente o per spirito di sopravvivenza. In seguito, un poeta genovese avrebbe trovato le parole giuste: “ci hanno insegnato la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane/ ora sappiamo che è un delitto/ il non rubare quando si ha fame”.

Franco era velocissimo, il primatista nelle corse tra ragazzini. “Mastro, esco per fare pipì”, la scusa di ogni notte. Dietro l’angolo, due pani (uno per me, uno per lui), che riuscivo sempre a nascondere, non appena il principale si distraeva un attimo. Dal forno alla baracca c’erano duecento metri, che Franco percorreva a perdifiato, la refurtiva stretta al corpo come un pallone da rugby e il cuore in gola. Dopo più di cinquant’anni, la fragranza di quel pane rimane irraggiungibile. Al pari di Franco, quando correva come un ladro. Quando ladro non era.

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Se non cinquanta, sono comunque molte le cose da fare prima dei dodici anni (e anche dopo)

È di questi giorni il risultato di una ricerca sulle abitudini dei bambini fino a dodici anni (per l’esattezza, undici anni e tre quarti) realizzata per conto del National Trust, ente senza fini di lucro, costituito nel 1895, che ha come mission la tutela e la promozione di alcuni tra i più belli e storici paesaggi inglesi. In Inghilterra, come in gran parte del mondo “civilizzato”, è ormai una rarità incontrare ragazzini che giocano all’aperto, salvo che non siano portati dai genitori o dai nonni in qualche spazio chiuso (pineta, parchi, piazze). Chi ha i capelli bianchi, ma anche soltanto sale e pepe, ha invece avuto un’infanzia e un’adolescenza vissute “on the road”. Interminabili partite di pallone per strada (altro che supplementari: un unico tempo fino al calar del sole); un genere di nascondino (“a tola”) per il quale i limiti territoriali erano dati dai confini geografici dell’intero paese; l’attraversamento del ponte e della galleria ferroviaria a piedi o con le biciclette, tenendo le orecchie ben aperte per correre a perdifiato e rifugiarsi nella “nicchia” appena si sentiva in lontananza la sbuffata della Littorina.
Le cause di questo mutamento sono molteplici, in primo luogo l’eccessiva apprensione di alcuni genitori, che a volte è terrore ingiustificato, visto che, più o meno, ce la siamo cavata tutti. Ma anche i nuovi passatempi, svolti dentro le mura di casa, con una connessione internet o una consolle. La “Playstation Generation” esce pochissimo: neanche uno su dieci gioca frequentemente in spazi aperti, addirittura il 30% non sa andare in bici. Il National Trust ha lanciato la campagna delle “50 cose da fare prima di avere undici anni e tre quarti”, selezionandole da una lista di 400 compilata da una commissione di esperti composta da volontari del proprio staff:

1. Arrampicarsi su un albero
2. Rotolare giù da una grande collina
3. Accamparsi all’aperto
4. Costruire un rifugio
5. Far rimbalzare i sassi sull’acqua
6. Correre sotto la pioggia
7. Far volare un aquilone
8. Pescare con il retino
9. Mangiare una mela appena colta dall’albero
10. Giocare a conker (un gioco tradizionale inglese)
11. Lanciare palle di neve
12. Partecipare a una caccia al tesoro sulla spiaggia
13. Fare una torta di fango
14. Costruire una diga su un ruscello
15. Andare sullo slittino
16. Seppellire qualcuno sotto la sabbia
17. Organizzare una gara di lumache
18. Stare in equilibrio su un albero caduto
19. Dondolarsi da una corda
20. Giocare a scivolare nel fango
21. Mangiare more raccolte dai rovi
22. Guardare dentro un albero
23. Esplorare un’isola
24. Correre a braccia aperte facendo l’aeroplano
25. Fischiare usando un filo d’erba
26. Andare in cerca di fossili e ossa
27. Guardare l’alba
28. Scalare un’enorme collina
29. Visitare una cascata
30. Dar da mangiare a un uccello dalla mano
31. Andare a caccia di insetti
32. Cercare uova di rana
33. Catturare una farfalla con il retino
34. Inseguire animali selvatici
35. Scoprire cosa c’è in uno stagno
36. Richiamare un gufo imitando il suo verso
37. Osservare le strane creature tra le rocce di un lago
38. Allevare una farfalla
39. Dare la caccia a un granchio
40. Fare una passeggiata nel bosco di notte
41. Piantare qualcosa, coltivarla e mangiarla
42. Nuotare in mare, in un fiume, insomma, non in piscina
43. Fare rafting
44. Accendere un fuoco senza fiammiferi
45. Trovare la strada servendosi solo di mappa e bussola
46. Arrampicarsi sui massi
47. Cucinare in campeggio
48. Fare discesa in corda doppia
49. Giocare a geocaching (una caccia al tesoro con il GPS)
50. Andare in canoa su un fiume

Esclusi i giochi tipicamente inglesi, le attività stravaganti (caccia al tesoro con il GPS), quelle obiettivamente improbabili, soprattutto per un dodicenne (accendere il fuoco senza fiammiferi, cucinare in campeggio) e altre abbastanza pericolose (rafting, scendere in corda doppia, pagaiare sul fiume), c’è poco di clamoroso: nuotare, correre, osservare la natura e interagire con essa. Cose del tutto normali, fino a qualche decennio fa. Per molti di noi, gli alberi della vecchia piazza Matteotti erano una seconda casa. Ci trascorrevamo ore e ore, ognuno sul proprio ramo, personalizzato dalla firma incisa sulla corteccia. Senza contare le scorribande su quelli da frutto, qualche volta concluse con fughe spericolate per sfuggire al cane che il proprietario ci sguinzagliava contro, quando non ci rincorreva ascia in pugno.
Nella mia adolescenza ho partecipato alla costruzione di due rifugi. Il nostro mondo in due metri per tre di tavole e lamiere sottratte da qualche cantiere e inchiodate in un posto sicuro: un rifugio, appunto. Ci è capitato spesso di correre sotto la pioggia, non per scelta, ma perché, essendo sempre in giro, il temporale ci poteva sorprendere per strada. Pulcini da spogliare e asciugare col phon. La gioia dell’aquilone (“a pianeta”), realizzato con le canne e la carta dell’uovo di Pasqua, che facevamo volare al campo sportivo, e quella della gara a chi faceva rimbalzare più a lungo i sassi sul mare di Favazzina, quando le labbra viola e le mani rattrappite ammonivano che non si poteva più stare in acqua. È un’età in cui basta poco per divertirsi. Ma forse un tempo bastava ancor meno.

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Da “mastru” Nino Spanto

C’è stata un’epoca in cui gli adolescenti non “andavano” a danza, a musica, a scuola calcio, a pallavolo, a inglese e a chi più ne ha più ne metta. Tutte quelle attività che assorbono quasi interamente le ore pomeridiane dei ragazzi, fino a non molto tempo fa, erano pressoché sconosciute. Tutt’al più, giocavano a calcio, ma nelle strade e nelle piazze. Pagare per giocare è un costume in voga soltanto da un decennio a questa parte. Un tempo, si andava dal “mastru”, che era “un artigiano esperto e abile” (Giuseppe Pentimalli, Vocabolario ragionato del dialetto femijotu). Falegname, sarto, calzolaio, barbiere, panettiere, imbianchino, impagliatore di sedie (“seggiaru”), fabbro, fabbricante di basti (“vardaru”), cestaio, stagnino, tornitore erano le professioni che contavano più “discipuli” (apprendisti). Le botteghe degli artigiani erano una seconda scuola e anche chi, alla fine, non imparava l’arte, ne usciva in qualche modo “formato”. La maggior parte dei ragazzi “girava” due, tre, anche quattro mestieri, fino all’età del servizio militare. Famiglia, scuola, luogo di lavoro e infine la caserma, di fatto, hanno contribuito all’educazione di intere generazioni.

La bottega del “mastro scarparo” Nino Spanto si trovava in via Carusa, l’ex “calata” del cinema, in un tempo in cui (1957) il cinema ancora non esisteva. Era però in costruzione e da lì a poco sarebbe stato aperto al pubblico, gestito dai fratelli Domenico e Vincenzo (“u vichingu”) Luppino, rientrati in paese dall’Eritrea alla fine della seconda guerra mondiale. Dal calzolaio, i ragazzini imparavano a fare una scarpa dal nulla. Appena presa confidenza con trincetti e lesine, tagliavano il cuoio, cucivano la tomaia e i “petti” (le suole) con lo spago incerato e alla fine estraevano dalle forme inchiodate il prodotto finito. Il primo impatto con il lavoro consisteva in mansioni semplici: i più piccoli dovevano infatti raccogliere con una calamita “simiggi” e “zippe”, i chiodini che restavano per terra a fine giornata e che dovevano poi raddrizzare in modo da renderli riutilizzabili. Non era previsto alcun compenso. Erano anzi i ragazzi a omaggiare il “mastro” (feste comandate, onomastico e compleanno), il quale si sostituiva all’autorità paterna, grazie alla delega conferitagli (“se faci u malu, minati”) ed esercitata con schiaffi e nerbate generosamente distribuiti.

A partire da sinistra, in alto: Cosimo Surace (“u Patru”), ’Ntoni Saccà (“u Casettotu”), “mastro” Nino Spanto, Vincenzo Gabrotti, Nino Villari (“u Zoppareddu”, “Ngaiò”). In basso: Rocco Polimeni, Gaetano Comandè (“u Gattu”), Diego Forgione (“Mario”, “u Tornaru”), Franco Tripodi, Carmelo Pentimalli.

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