Pensiero di notte

La vita non è una competizione in cui a volte si vince, altre si perde.
Non c’è l’inno nazionale, alla fine, e neanche la medaglia e il bouquet di fiori.
Non si va dietro la lavagna, né si indossa il cappello con le orecchie d’asino.

Però è dappertutto, anche in ciò che mortifichiamo con un banale “questa non è vita”. E invece no. Proprio quella, lo è.

Tutto è vita e tutto è un soffio. Quanto ci mette un soffio a svanire, a non lasciare niente di sé?

Soltanto utilizzando la lente della caducità, ogni cosa assume contorni reali ed essenziali. Non è rassegnazione, né passiva attesa del fluire naturale del tempo. È un cribro da agitare con saggezza, per setacciare ciò che davvero ha importanza e ciò che, invece, soltanto abbaglia, distrae, inganna.

Uomini e cose, fatti e pensieri.

Stare bene, con noi stessi e con gli altri, con quanti più “altri” sia possibile, visto che anche a Gesù – che era Gesù – uno su dodici fagliò. Ovunque: nell’abbraccio delle metropoli, confinati in qualche periferia del mondo, sonnecchianti nella noia di quattro case e un forno.

Non esiste altra ricetta per la felicità. Se si vuole, è l’uovo di Colombo. Spesso inseguiamo miraggi utili soltanto per pompare il nostro ego, che non riescono però a riscaldare. Neanche un po’.

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Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.

Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.

Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.

Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.

Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.

Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.

Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.

Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.

Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.

Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata.
Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.

Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

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I colori da dietro

Accettare il punto di vista dell’altro, o anche soltanto riuscire a prenderlo in considerazione come ipotesi alternativa alle proprie immodificabili idee, segna il confine tra l’arena e l’agorà.
Capita spesso di ascoltare, sconfortati, gente urlarsi addosso e capire, alla fine, che la rissa diventa essa stessa il tema centrale della discussione. Qualche artificio dialettico a protezione del dogma e il gioco è fatto: l’arroganza ingloba tutto, immiserisce il confronto e lo riduce a prosaica questione di decibel o di protervia.

Il nostro io reclama la scena (tutta la scena), il salotto diventa giungla, la legge del più forte (di ugola) facile scorciatoia. Una compulsiva furia onanistica, che rende centro dell’universo quel maledetto ombelico che ci deliziamo a contemplare, quasi estasiati.

Basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie. Basterebbe guardare il colore “da dietro”, come ci insegna Antonio Albanese (alias Epifanio Gilardi) in un monologo bellissimo e serissimo, farsi affascinare dalle sfumature e comprendere che le tinte più belle hanno gradazioni, contrasti e luminosità infiniti. Bianco e nero appartengono ai vecchi televisori e ad una visione manichea della vita, tipica delle guerre di religione. In un mondo che non potrà mai corrispondere a ogni individuale aspirazione, convivere con la ragione dell’altro diventa “la” necessità, non “una” possibilità.

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Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele.
Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.

Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l’on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant’eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata “Delianuova”. Quindi se non vuoi essere “richiamato” per l’ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:

a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;

b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;

c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;

d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;

e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);

f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

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Quantomar per l’Argentina

Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.

Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.

Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.

Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.

Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole di Peppina, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Nel giro di un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.

Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.

Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.

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Caldo africano e ospedali reggini

Ogni volta che rischio di liquefarmi, inscatolato e intrappolato sul “corpo del reato” più lungo del mondo (l’autostrada Salerno – Reggio Calabria), ripenso alla saggezza del Barone: “uno dei più grandi errori della tua vita”. Il termine utilizzato – a dire il vero – è un altro, irripetibile. Ad ogni modo, sì: l’acquisto, dieci anni or sono, di un’auto priva di climatizzatore (e a tre porte, pesante aggravante ai fini del negativo giudizio finale), va annoverato tra le mie topiche più clamorose.
Con Scipione ci siamo soltanto intravisti, Caronte invece mi è saltato addosso proprio mentre procedevo a passo di lumaca sull’asfalto infuocato. Lucifero, più in là, dovrebbe dare il colpo di grazia ai sopravvissuti delle prime due ondate di calore di questa estate 2012. Ci saranno tempi e modi. Intanto, un dato è certo: menzione speciale per l’ideatore dei nomi da attribuire all’anticiclone africano. Veramente rassicuranti. D’altronde, siamo abituati. In Italia, si è sempre di fronte ad emergenze catastrofiche, prossimi alla rovina. Ora è il momento dell’ “emergenza caldo”, che ha scalzato la precedente “emergenza freddo”. Passiamo dalle raccomandazioni allarmate su come fronteggiare il “generale inverno” (strano: in inverno fa freddo) alla litania sulle impennate della colonnina del mercurio (strano: in estate fa caldo).

Pensavo a questo, mentre imprecavo contro il nostro sistema sanitario, non comprendendo la ratio della sua farraginosa, inconcludente e irritante burocrazia. Un mese fa, un mio amico ha avuto un ricovero, dopo di che è stato dimesso con la prescrizione di una successiva visita di controllo. In un paese normale, un cittadino pensa che, essendogli stato detto di tornare giorno X, non serve prenotazione. Invece, non vanno così le cose e nessuno si premura di farlo presente all’ignaro utente.
Non solo. Nell’anno di grazia 2012, la prenotazione va fatta “esclusivamente” utilizzando l’apposito numero verde. Non esiste altro sistema, men che meno farlo direttamente in ospedale. Ora, intuisco che possano sussistere ragioni di natura organizzativa, ma snellire qualche procedura, informatizzando qualche passaggio, è chiedere troppo?
Il numero verde è il catalizzatore naturale di malanove per eccellenza. Componi il numero, ascolti per ore la musichina della segreteria telefonica, saggi il tuo livello di sopportazione, quindi esplodi, imprechi e spacchi la cornetta dell’apparecchio. Dopo interminabili tentativi, se non ti sei già trasformato nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, hai discrete possibilità di portare a casa il risultato.
Ricapitolando, per un’estate serena, occorre almeno una delle tre seguenti condizioni: a) una salute di ferro; b) un’auto climatizzata; c) temperature primaverili.

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Boni cunti

Peppuzzo conosceva molte storie di povertà e non perdeva occasione di narrarle a noi ragazzi che trascorrevamo con lui qualche ora del pomeriggio sulle panchine della vecchia piazza Matteotti, attenti ai dettagli dei suoi affascinanti e incredibili racconti. La sua infanzia era stata segnata dalla guerra. “Entravano da là” – ci diceva, indicando un punto all’orizzonte, tra la cresta della montagna e il cielo. Immaginavamo tutto il paese, sguardo in alto e gambe svelte, dirigersi nei rifugi per scampare ai bombardamenti degli Alleati che braccavano l’esercito tedesco e lo costringevano a risalire la Penisola, nella primavera-estate del 1943. Famiglie intere riparavano nella galleria del ponte sulla ferrovia o in caverne naturali lungo la strada che porta sull’Aspromonte. Ci passavano davanti l’ansia e la paura vissute dai nostri nonni, ma anche la festosità di un parto avvenuto proprio dentro la galleria, tra lo stupore e la gioia generale.

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.

Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.

Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.

A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.

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Il pane di Franco

Ho letto il mio nome sopra una torta, per la prima volta in vita mia, mentre la “Marconi” solcava il Pacifico. Compivo ventidue anni e il destino e la povertà mi stavano consegnando a un continente del quale conoscevo a malapena il nome. Chissà com’erano i suoi abitanti? E quanti “paisani” ci sarebbero stati ad attendere la nave al porto? Beh, se mio fratello Stefano mi aveva detto di raggiungerlo, cinque anni dopo il suo arrivo in una terra così lontana, gli indigeni tanto malvagi non dovevano essere. Sugli amici, poi, si poteva sempre contare. Anche io avrei avuto un lavoro. Non cercavo altro.

Rimasi stupito dalla cortesia dell’equipaggio. Non conoscevo nessuno su quella nave e un sacco di gente mi stava festeggiando. Buon segno. Una torta così bella l’ho ricevuta nuovamente a capelli totalmente bianchi, per i miei sessant’anni, regalo maturo e sorpresa confezionata dai miei figli.

Il gelato no, quella era stata un’esperienza quasi traumatica. Avevo nove-dieci anni ed ero incantato dal gelataio, un pifferaio su bicicletta trainante un carretto, dietro al quale s’incolonnavano bambini imploranti. “Gelati, graniti, senza sordi non veniti!”, metteva in guardia. Stefano aveva racimolato un po’ di spiccioli per comprare un minuscolo cono al limone che mi fece assaggiare. Guardai lo strano oggetto che tenevo tra le dita, come per capire quando e come aggredirlo, quindi gli diedi un morso. Era freddo! Una sensazione a me sconosciuta, per la quale non ero preparato. Sulle prime, non sapevo se sputare o inghiottire; alla fine temporeggiai un tempo che mi sembrò infinito, ma che mi consentì di mandare tutto giù, incredulo e muto, come chi non sa se sia scherzo o realtà.

Un mese di viaggio. Scappavo dalla miseria, mia e di chi mi stava attorno.
Franco viveva con dieci fratelli in una baracca post 1908 spoglia come un ciliegio in autunno. Uno spettacolo deprimente. E sì che ero abituato, allenato com’ero con la mia, una specie di cuccia per uomini e cimici che si contendevano quel poco spazio. Una stanza e mezza per nove corpi che, in inverno, rimediavano alla mancanza di riscaldamenti incastrandosi dentro due letti e, d’estate, schiattavano sotto le lamiere roventi. Non c’era acqua, se non la poca prelevata dalla fontana pubblica, si faceva luce con la lampada ad olio e si cucinava sul fusto alimentato con la segatura. Quasi tutti i giorni, però, una pentola di patate messa a bollire manteneva il nostro morale a un livello accettabile. Stava là – come un centrotavola – e dentro vi pescavamo a turno, facendo attenzione a non infilzare qualche mano. Tranne quella volta che fui sgridato e, per vendetta, di nascosto la divorai quasi per intero. Inseguito dai miei tre fratelli, mi diedi alla macchia e feci ritorno diversi giorni dopo, appena in tempo per non fare morire mia mamma di crepacuore. Mi sarei riscattato qualche anno più tardi, con la prima paga da imbianchino investita per regalarle una cucina a tre fuochi.

Da Franco, invece, la tavola faceva “scurare” il cuore. Intorno, poche sedie e una nidiata di bimbi ai quali toccavano, tutti i santi giorni, pane e olive. Raramente, un tocco di formaggio che veniva sfregato su ogni singola fetta di pane, non potendo essere companatico sufficiente per tutti. Pane e odore di formaggio. Per il pane provvedeva Franco, con la mia complicità. A dodici anni lavoravamo in un forno e quel ben di Dio era una tentazione alla quale non potevamo e non volevamo resistere. Allora intuivo qualcosa, inconsciamente o per spirito di sopravvivenza. In seguito, un poeta genovese avrebbe trovato le parole giuste: “ci hanno insegnato la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane/ ora sappiamo che è un delitto/ il non rubare quando si ha fame”.

Franco era velocissimo, il primatista nelle corse tra ragazzini. “Mastro, esco per fare pipì”, la scusa di ogni notte. Dietro l’angolo, due pani (uno per me, uno per lui), che riuscivo sempre a nascondere, non appena il principale si distraeva un attimo. Dal forno alla baracca c’erano duecento metri, che Franco percorreva a perdifiato, la refurtiva stretta al corpo come un pallone da rugby e il cuore in gola. Dopo più di cinquant’anni, la fragranza di quel pane rimane irraggiungibile. Al pari di Franco, quando correva come un ladro. Quando ladro non era.

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