Record Store Day con i Pink Floyd

Ieri si è festeggiata la giornata mondiale del vinile. Arrivo con un giorno di ritardo, prendendo a prestito tutte le copertine degli album dei Pink Floyd (manca il doppio album Pulse, pubblicato nel 1995 soltanto in formato cd).
Quando Luis scoprirà che ho profanato il suo tempio per me sarà la fine. Per dare un’idea del livello di sacralità: dopo che li comprò, questi album furono suonati una sola volta, per essere copiati nelle musicassette.

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Quelli che (reloaded)

Quelli che sono i migliori al mondo
Quelli che tutti gli altri sono schiappe
Quelli che si impegnano per il bene della collettività
Quelli che gli altri non fanno mai niente 

Quelli che se lo fanno gli altri c’è sotto un tornaconto personale
Quelli che partecipano
Quelli che gli altri non hanno la statura morale per partecipare
Quelli che ci sono i soldi ma non si spendono
Quelli che i soldi non si devono spendere
Quelli che i soldi si potevano spendere meglio
Quelli che piove… governo, regione, provincia, comune ladri
Quelli che quando c’è il sole è merito loro
Quelli che è sempre colpa degli altri
Quelli che commentano i post degli altri
Quelli che cancellano i commenti degli altri
Quelli che “postano” articoli scritti da altri
Quelli che non citano la fonte e fingono sia roba loro
Quelli che con uno tocca a loro
Quelli che con due tocca lo stesso a loro
Quelli che loro sono liberi
Quelli che tutti gli altri sono schiavi
Quelli che sono pronti a morire per le loro idee
Quelli che le idee degli altri sono cazzate
Quelli che guardano il dito
Quelli che abbaiano alla luna
Quelli che gli altri non sono coerenti
Quelli che di secondo nome facevano il nome di un partito
Quelli che improvvisamente hanno cambiato partito e nome
Quelli che poi si è capito il perché

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Il cavallo di Chiuminatto

Finalmente siamo in stampa: in anteprima per gli amici del blog prima e quarta di copertina. Il cavallo di Chiuminatto (Nuove Edizioni Barbaro, pp. 192; con prefazione di Francesco Arillotta).
In libreria dopo Pasqua

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Buon 2013

Felice anno a vecchi e nuovi compagni di viaggio, a chi ho perso e a chi ho trovato, a chi ancora sogna, spera e lotta, a chi non si arrende, a chi ce la mette tutta, a chi non pensa che la vita sia una competizione in cui ci sono vincitori e sconfitti, a chi dà senza pretendere, a chi sa rispettare quel che sei e non quello che vorrebbe che tu fossi, a chi sa amare, a chi non ha capito e anche se ha capito preferisce morire d’orgoglio. Buon anno a tutti, nonostante tutto.

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Un tuffo nel passato, uno sguardo sul futuro

Torno sempre con gioia al liceo scientifico “Enrico Fermi”, che a distanza di venti anni continuo a considerare un po’ casa mia. Un luogo dello spirito che racchiude ciò che ero e quel che sono diventato anche grazie ai cinque anni trascorsi tra quelle mura. E poco conta se, all’epoca, l’unico istituto superiore del nostro comune non fosse ospitato negli attuali locali. Non si è mai palpitato per un vestito. Per l’anima che vi sta dentro, sempre.

Non ho trovato i miei vecchi professori; “don” Rocco ci ha lasciati ormai da diversi anni, “don” Nino e la “signora” (mai conosciuto il suo vero nome) credo si siano pensionati. Eppure sento quell’aria e la riconosco. Odore di gioventù, di sogni e di speranze, di banchi incisi col coltellino, di scherzi terrificanti, di sicurezza ostentata per nascondere paure inconfessabili, di storie d’amore che sembravano eterne, di ansia per l’approssimarsi dell’interrogazione o del compito in classe, di entusiasmo e di noia, di frasi “storiche” riportate sul diario, di allegria per un niente e di pianti per lo stesso niente che agli occhi di un adolescente spesso diventa (ed è) tutto.
Inutile dire che ho apprezzato le parole usate nei miei confronti dal professore Pietro Violi e dalla professoressa Carmela Cutrì. E va da sé che mi ha fatto molto piacere parlare davanti a tanti giovani dei miei libri e di questo blog. Mi hanno emozionato gli interventi di Gresy e di Maria Grazia, la freschezza sui visi dei ragazzi e delle ragazze del mio paese. Sono i volti di chi ha il dovere di sognare e dare una nuova speranza ai sognatori che fummo, quand’era giusto sognare perché, come per il viaggio, non è tanto la meta ciò che realmente conta, ma il viaggio stesso, il tragitto che si compie per giungere (forse) a destinazione. La ricchezza dell’uomo è il suo eterno interrogare la realtà che lo circonda e se stesso, alla ricerca di qualcosa che talvolta non si riesce a definire e che invece, semplicemente, è vita.

Ho incontrato la Sant’Eufemia di domani e, per me, è stato il più bel regalo di Natale. Non tutto è nero, non tutto è perso.

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Strade, storia e storie di Sant’Eufemia

Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.

Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.

Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.

In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!

A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.

Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

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Ceu Galera

Ero amico di Vincenzo Pinneri (Ceu “Galera”), capo dell’omonima banda che tra il 1943 e il 1944 terrorizzò Sant’Eufemia e dintorni e si rese protagonista della faida con la banda Leonello di Sinopoli.
Il Pinneri uscito dal carcere alla fine degli anni Settanta non era il bandito, già fratricida, evaso dal carcere e latitante, che faceva il giro delle campagne per estorcere cibo, denaro e armi. Non era l’ergastolano condannato per una ventina di reati (un altro omicidio, diversi tentati omicidi, estorsioni, violenze), né il leader giovanissimo – ma lui ha sempre negato di essere stato capo di qualcuno: “erano gli altri che mi seguivano anche se non li volevo” – di una banda di sbandati, il cui arresto con tanto di passarella per le vie del paese, ammanettato alla sponda di un carro bestiame, da molti fu salutato come una liberazione.

Il Pinneri che ho conosciuto io era un affettuoso signore anziano che ha sempre vissuto da solo, adorava i bambini e ti metteva in imbarazzo se lo invitavi a pranzo, perché arrivava con due buste stracolme di salumi, formaggio, carne, frutta, biscotti.

Si commuoveva spesso: di fronte alla morte di un giovane; per quel ragazzo che non riusciva a trovare lavoro; per l’altro costretto ad emigrare, cui portava un pacco di roba da mangiare ogni volta che doveva ripartire.

Imbattibile al gioco della dama, si dilettava con le carte: poco a “scopa”, perché troppo forte e senza rivali: ricordava tutte le giocate e sapeva “contare il quarantotto”; di più a “scala quaranta”: ma non con tutti, solo con chi gli stava simpatico. Mai a soldi e sempre “a consumazione”: merendine, caramelle e bibite che puntualmente regalava a qualcuno. Prediligeva le boccette e, dalle bestemmie, anche chi si trovava nel parcheggio, fuori dalla sala biliardi, capiva se avesse vinto o perso.
Stravedeva per me e mi aveva eletto “biografo ufficiale” delle sue gesta. Probabilmente, un giorno lo diventerò, mettendo insieme la lunga e inedita intervista che abbiamo realizzato a più riprese, gli articoli che lo hanno riguardato e che mi ha affidato insieme alle pagine di un suo diario e ad altre autografe, scritte in diversi momenti (l’ultima, due mesi fa, dal letto dell’ospedale), le poche foto che lo ritraggono a Fossombrone, Saluzzo o Pianosa, le carte giudiziarie già fotocopiate e quelle che occorre recuperare.

Il Pinneri che ho conosciuto io era anche, però, l’uomo pronto a sparare e uccidere nuovamente, ai primi anni Ottanta, davanti al bar, se non ci fosse stato il tempestivo intervento di un avventore, che prima con coraggio gli bloccò la mano armata e poi riuscì a calmarlo e a farlo desistere dall’insano proposito. Era l’ultraottantenne vittima del furto della sua inseparabile “Ape 50”, il quale, costretto a presentare denuncia, all’esterrefatto maresciallo che gli chiedeva se nutrisse qualche sospetto rispose: “E secundu vui, se sapiva cu fu, veniva a caserma?”.

Qualche giorno fa mi è stato chiesto come mai non gli avessi ancora dedicato un articolo. Ecco, ho il sospetto che molti, soprattutto tra i giovani, siano affascinati dal Pinneri bandito e “giustiziere”, un po’ come avviene con quelle fiction televisive che trasformano in eroi certi personaggi negativi. Io ritengo che sia giusto ricordare con affetto il Pinneri che in tanti abbiamo conosciuto come persona a suo modo dolce, sensibile, premurosa e, se vogliamo, perseguitata da antichi fantasmi e da un “ruolo” sopravvissuto allo scorrere del tempo. Andrebbe invece consegnato alla dimensione storica e sociologica il mito del Pinneri impavido e violento, grilletto facile e bombe a mano sempre in tasca nel contesto sociale caotico del dopo 8 settembre, protagonista di un incredibile assalto alla caserma dei carabinieri e, nell’immaginario collettivo, ancora assiso dietro a un treppiedi all’ingresso del paese, pronto ad accogliere a sventagliate l’arrivo del questore di Reggio Calabria.

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L’ultima lezione

Ho sempre immaginato gli intellettuali come tanti Pollicino, le tasche piene di sassolini da seminare lungo il cammino, a beneficio di chi verrà dopo. Un’indicazione, un segnale che aiuti l’altro ad orientarsi o anche soltanto serva da conforto quando la solitudine del pensiero stringe il petto: “sì, sei sulla strada giusta”.

Il professore Rosario Monterosso è uno che di sassolini ne ha lasciati parecchi, ovunque e in ogni momento. Chi ha avuto il privilegio di essere suo alunno, suo amico, o entrambe le cose, ora non può che avvertire smarrimento. Ci ha lasciato in punta di piedi, con uno stile che abbiamo apprezzato anche quando ci è costata dolore la sua decisione di chiudere con il mondo, nel momento in cui tutto era diventato ineluttabile.
Sant’Eufemia era il suo secondo paese e il liceo scientifico “E. Fermi” la sua seconda casa. Stamattina, nella casella di posta elettronica, ho trovato una email: “Penso che il nostro liceo sia stato il luogo che lui ha maggiormente amato, insieme alla sua incredibile biblioteca e al suo orticello”. Dalla notizia della sua morte è un continuo telefonare, chiedere, esprimere tristezza tra noi ex alunni. Questa è la sua eredità: altri sassolini.
I ricordi si accavallano, come in un puzzle di sentimenti che vorrebbe tradurre lo stato d’animo in immagini e parole. Sono in difficoltà. Per me Rosario Monterosso è stato molto di più che il mio professore di storia e filosofia negli anni del liceo. La presentazione del mio libro su Sant’Eufemia mi diede l’occasione di riconoscere pubblicamente il debito che avevo (ed ho) nei suoi confronti. Per avermi fatto innamorare delle discipline storiche, per avere rappresentato, con il suo esempio di vita, di impegno civile e sociale un modello positivo. Anche in quella occasione fu generoso, con la sua presenza dietro al tavolo degli oratori e con le parole della sua relazione. Così com’è stato sempre presente, ogni volta che qualcuno a Sant’Eufemia ha organizzato un evento culturale e ha chiesto il suo autorevole contributo. Credo sia stato questo il tratto distintivo della sua personalità. Sul piano intellettuale, la brillantezza del pensiero, quel suo sapere tradurre la complessità del ragionamento in chiarezza espositiva. Dopo, tutto appariva più limpido, come se una luce avesse illuminato la stanza buia.

La sua biblioteca è stata la biblioteca dei suoi alunni. I primi prestiti, per me, furono “Dei doveri dell’Uomo” di Giuseppe Mazzini e “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. E poi i dissidenti russi: Solgenitsin, Sacharov, Salamov. Devo a lui l’amore per Leonardo Sciascia e per Italo Calvino. Devo a lui suggerimenti preziosi e molti testi utilizzati nelle mie ricerche e pubblicazioni.

Devo a lui l’insegnamento che non bisogna mai fermarsi all’apparenza delle cose, ma scavare con certosina pazienza nella realtà che ci circonda, nell’oggetto del nostro studio, nella nostra anima e in quella degli altri.

Di sinistra, ma di una sinistra che non può albergare in nessun partito quando l’etica viene mortificata dalla prosaica gestione del potere. Una vicenda che partiva da lontano, dal lamento di Ignazio Silone, “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”.

Con il professore Monterosso spesso “scandagliavamo” l’attualità politica ed era per me consolante constatare che molte idee collimavano. “Il posto del partito socialista è a sinistra”, concordammo nel momento dell’ubriacatura forzista di tanti compagni, nonostante avessimo bene in mente che molti dei carnefici di quell’esperienza fossero a sinistra. In quella sinistra che era stata sconfitta dalla storia e che, appunto per questo, riconfermava la validità del concetto pertiniano di libertà e giustizia sociale: “libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà”.

Ho ammirato la sua decisione di candidarsi a sindaco di Bagnara, nonostante egli per primo fosse consapevole di essere l’agnello sacrificale di una sinistra votata alla sconfitta. La vita è fatta anche di esempi da dare al prossimo: “ci sono quelli che prendono il 70% dei voti, ma ci siamo anche noi che non ci omologheremo mai a un sistema di potere che condanniamo. Abbiamo il dovere morale di testimoniare la possibilità di un altro destino”. Questo il senso della sua scelta. Ancora sassolini, ancora un’altra lezione. Da mandare a memoria come l’ultima, di questi mesi, in realtà il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Una dichiarazione d’amore per moglie e figli, bellissima nella sua tragicità.
Da oggi, siamo tutti un po’ più soli.

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Lettera a G.

Ti ho visto poco fa: eri su un manifesto, attaccato a un muro. Proprio ieri, a pranzo, si parlava di te, di quanto manca la tua allegria, quel modo unico di stare in compagnia, la conversazione “pirotecnica” (bravu pe’ ’na vita!), la gestualità che era essa stessa parola, il racconto di storie incredibili. O soltanto di una filastrocca in dialetto, una qualsiasi del tuo inesauribile e comicissimo repertorio. Ecco, se c’è una cosa che rimpiango, è di non averti mai detto di “passarmele”, di farmele scrivere e conservare.

Dicono che il modo migliore per ricordare chi non c’è più sia farlo con il sorriso sulle labbra. Magari quello che tu sempre riuscivi a strappare, a chiunque. Come quella volta che, chissà in quali pensieri assorto, dimenticai di servirti il cucchiaio accanto al bicchierino del caffè (ché nella tazza non ti piaceva). Aspettasti un po’, guardandomi in silenzio, dopo di che, senza scomporti minimamente, girasti il caffè con l’indice!

Il bar di mio padre è stato, per me, il dono irripetibile dell’affetto (da bambino) e dell’amicizia (da adulto) dei suoi amici. Privilegio tremendo, con il passare degli anni. Mimmareddu, ma anche Marieddu e Loigeddu: la conosco bene quella voce, per questo mi viene difficile sorridere, ora. Forse un anno è troppo poco. Forse davvero soltanto il tempo riuscirà a riempire un po’ di vuoto.

Potrei raccontare centinaia di aneddoti. Le storie sul periodo che trascorresti in Germania, da giovane emigrato: eins, zwei, drei, quando volevi insegnarmi i numeri in tedesco. L’episodio, inverosimile (ma con te era sempre difficile capire dove finisse il gioco e dove iniziasse la realtà), della foto della tua pancia esposta per due mesi in non so quale museo.

O di quando andavamo a caccia. In realtà, io ero un elemento scenografico, non avendo mai sparato un colpo di fucile né allora, né dopo. Però a dodici, tredici anni era una gara tra fratelli per stabilire a chi toccava alzarsi alle 4.00 l’indomani mattina. La lampadina accesa per fare capire che eravamo pronti, il caffè caldo e poi sulla macchina (la tua golf modello preistorico o la 127 di mio padre). Il freddo, l’attesa, il ritorno, le tipiche pose da cacciatore, il giro in paese per zittire tutti gli spraticuni che si spacciavano per cecchini infallibili.

Ricordi che si accavallano. Quella passata con l’organetto e la tua ospitalità. La sacralità della preparazione delle polpette e quel tuo tratto caratteristico di “imboccare” l’ospite, di dedicare a due come a trenta commensali un’attenzione particolare, una cura di parole e bocconi, il sollievo di ore e ore di spensieratezza. Perché il tempo, con te, di certo non era un’entità assoluta.

Il racconto sulla vita degli animali – “Piero Angela può venire a lezione da me” – e il religioso silenzio con cui seguivi i documentari alla televisione. La descrizione dell’accoppiamento delle api, racconto fantastico di una quarantina di minuti che ci fece ridere fino alle lacrime. L’adorno, che ti piaceva osservare con il cannocchiale “mentre teneva stretto nel becco un insetto”.

Mi è capitato di sognarti, ma mai il sogno o la fantasia possono avvicinarsi alla realtà di quella volta che mi portasti nel tuo orto per farmi raccogliere una busta di mandarini. “Li devi assaggiare”, mi avevi detto. Ci andammo subito dopo pranzo. Venne a recuperarmi mio padre a notte fonda, dopo non so quanti litri di vino, soppressate e formaggio consumati con il pan biscotto, io, tu e un amico passato per caso da lì e prontamente da te sequestrato. Che poi – si sa com’è quando si sta in compagnia – i mandarini non facemmo in tempo neanche a raccoglierli.

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Epic Fail

Nel linguaggio dei social network, con Epic Fail (fallimento epico) s’intende un enorme sbaglio (qualcosa di simile a una figuraccia), immortalato in un video o in una foto. Ad esempio, certe scritte sgrammaticate che si leggono sui muri delle città.

O immagini buffe, incredibili, che suscitano istintivamente una fragorosa risata.

Qualcosa di simile è capitato con il post che ho pubblicato stamattina per rispondere a un fantomatico Rocco Cutrì. “Fantomatico” non perché Rocco non esista, ma perché non è lui l’autore del commento all’articolo Strettamente personale che aveva provocato la mia reazione.
Negli ultimi tempi sul blog registro, con maggiore frequenza rispetto al passato, incursioni incresciose. Per questo sono stato costretto a inserire la funzione “moderazione” nei commenti, che non pubblico se contengono attacchi o offese anonime nei confronti di chicchessia. In questa circostanza, sono stato tratto in inganno dal fatto che l’intervento era sottoscritto con nome e cognome, anche se per tutta la giornata di ieri ho avuto il dubbio che si trattasse di un troll (chi, su internet, pubblica messaggi provocatori).
Conosco Rocco, al quale ho pure avuto modo di esprimere (qui) il mio apprezzamento, ai tempi della sua esperienza amministrativa, e proprio per questo ero rimasto sorpreso e amareggiato. Purtroppo, non sono però riuscito a rintracciarlo, prima di postare l’articolo, per accertare al cento per cento che quelle parole fossero davvero roba sua. Errore da matita blu: mea culpa.
Ne hanno fatto le spese, involontariamente, anche Nino Creazzo e Carmen, intervenuti in mia difesa con parole abbastanza pesanti. Mea culpa, anche nei loro confronti.

Ho eliminato dal blog il post che avevo scritto stamattina e i commenti che hanno suscitato questo vespaio, a partire, ovviamente, da quello inviato dal simpatico usurpatore.

Nella foto sotto, eccomi nel momento in cui scopro di essere stato “trollato”, un attimo prima di sbattere contro la verità (è quella cosa di ferro orizzontale).

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