Addio, Roberto

Caro Roberto,
avevamo capito tutto quando a maggio non ti vedemmo svoltare l’angolo della piazza per venirci incontro con la tua inseparabile sigaretta accesa. Avevamo saputo che non stavi bene, per cui quest’anno non ti era stato possibile trascorrere i tuoi “soliti” cinque mesi a Sant’Eufemia.
Ci piaceva la tua vita da pensionato: sette mesi a New York e cinque a Sant’Eufemia. La tua simpatia, il tuo affetto e la tua educazione: sentimenti antichi che ti rendevano giovane tra i giovani. E noi a cercarti, contendendoti ad altre comitive, per proporti qualcosa di interessante. Una gara per avere la tua presenza: “Roberto, stasera non prendere impegni: si va per un gelato”. Oppure, improvvisamente, tutti sulle macchine e via verso l’Aspromonte, per una spaghettata alle due di notte in una casetta di campagna, bibite e companatico vario racimolati nelle dispense delle nostre cucine.

Dei tanti momenti trascorsi insieme ricordo quella volta che Salvatore organizzò una serata per salutarti prima della tua partenza, un paio di anni fa: eravamo una ventina e alla fine saltò fuori una torta in tuo onore che ti fece commuovere.

Ora sei tu a farci commuovere, con la notizia di oggi, che ci ha spiazzato nonostante fosse attesa. Non ci abitueremo mai alla morte, al suo mistero e ai crateri che lascia nell’anima.

Voglio ricordarti così, a capotavola col bicchiere alzato.

Addio, amico mio.

Condividi

Più politica, meno antipolitica

È l’eterno conflitto tra impegno e disimpegno, in uno scenario per niente incoraggiante e con le spie dell’antipolitica che lampeggiano impietosamente. Da troppi anni ormai. Percentuali dell’astensionismo in crescita, movimenti di protesta come Cinque Stelle capaci di exploit imprevedibili. Anche se l’impressione è che Grillo e Casaleggio abbiano “scartato” la chiusura. Un po’ ciò che successe a Mariotto Segni dopo il trionfo nel referendum per l’abolizione della preferenza plurima alla Camera, in barba a Bettino Craxi e al suo “andate al mare”, rivolto agli elettori nel giugno del 1991.

Ci siamo passati in molti dalla scelta della diserzione dalle urne. Nell’attesa di segnali che non sono arrivati e con l’unico risultato di esserci ritrovati con un governo che non voleva nessuno e che, dicono, non ha alternative. Intanto, i morsi della crisi economica si fanno ogni giorno più laceranti sul corpo martoriato di un Paese che ha da tempo smesso di camminare. Impallato come un vecchio computer che non riesce a caricare nemmeno una foto. E la foto è sempre la stessa, quella di una transizione infinita, dalla Prima Repubblica a non si sa bene cosa: sullo sfondo, l’ombra ingombrante e decadente di Silvio Berlusconi. Ferito e braccato, incerto tra il “tanto peggio, tanto meglio” e un’uscita di scena non troppo umiliante.

E poi una crisi morale drammatica, della quale i “rimborsopoli” che si susseguono a scadenza regolare quasi ovunque rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. Una vergogna infinita e insopportabile, al pensiero di quanti perdono la dignità rovistando nei cassonetti della spazzatura, alla ricerca di un pomodoro o di una patata, marci ma ancora commestibili.

Viene voglia di riprovarci. Forse per l’ultima volta. E non perché non ci siano al di fuori della politica energie e opportunità per incidere concretamente sui drammi quotidiani. Il meglio questo Paese lo dà nel no-profit, nell’impegno taciturno di cittadini privati, associazioni, organizzazioni di volontariato. Si tratta quindi di trasferire dalla casa, dalla scuola, dal posto di lavoro e dai luoghi di aggregazione al “livello” della politica l’impegno profuso quotidianamente per rendere migliore la società in cui viviamo.

Non è semplice e la storia insegna che i fallimenti sono in prevalenza. Ma abbaiare alla luna è fatica sprecata e l’antipolitica non riuscirà mai a risolvere i guasti della politica, che va redenta dal suo interno. Ecco perché c’è bisogno di più politica, nel suo significato più nobile di strumento volto alla realizzazione del bene comune.

Condividi

Lucky, il cane che non conobbe catena

Chi ha superato i trenta se lo ricorda. Lucky era un “personaggio” noto in paese perché potevi incontrarlo ovunque. Nel parcheggio del bar di mio padre, a fare strada abbaiando davanti alla vecchia 500 di mia mamma, in piazza a giocare con noi ragazzini. Tutte le mattine ci accompagnava a scuola e poi, quasi conoscesse gli orari, ci attendeva all’uscita. Un dolce ricordo della mia adolescenza, che mio fratello Luis ha rispolverato con questo suo simpatico articolo. A Lucky ho dedicato persino una poesia, quand’ero poeta (perché tutti, tra i 18 e 25 anni, abbiamo coltivato ambizioni da poeta).

Nella foto, il ritratto di Lucky realizzato da Luis.

D.F.

Antefatto: sognavo un boxer. Ne ero rimasto folgorato ammirandolo in foto: mai visto niente di paragonabile, una testa scolpita nel granito, caratterizzata ed espressiva, avvitata su un corpo talmente asciutto e muscoloso da sembrare irreale. Un giorno di settembre ’87 nella nostra vita avrebbe finalmente fatto irruzione il boxer Eros, amatissimo e unico, ma questa è un’altra storia.

Eravamo seduti a pranzo, una calda giornata di giugno ’86. Improvvisamente mia madre nota un’ombra fuori dalla porta: “Focu meu, nu cani! Cacciatilu!!!”. Esco e invece di urlargli dietro lo “chiamo”. Non scappa impaurito, mi viene sotto facendo le feste. Un meticcio di circa tre mesi, chiare ascendenze da terrier. Con i miei fratelli scongiuriamo papà, io sono disposto a non asfissiarlo più un giorno sì e l’altro pure con la storia del boxer pur di potercelo tenere. Inizia la leggenda di Lucky, il re di Sant’Eufemia. Ancora non potevamo immaginarlo, ma in venti chili per quarantatré centimetri al garrese (misure da adulto), Madre Natura ci aveva recapitato il gradino più alto dell’evoluzione canina. Esagerazioni tipiche di ogni proprietario di cani?

Fu battezzato Lucky, in inglese “Fortunato”, per due motivi: primo, perché altri magari non l’avrebbero accolto; secondo, perché con Mick e Mario stravedevamo per Lucky Luke, tanto da aver chiamato un pesciolino rosso, vinto a una festa di paese, “Busciuegg” (vai a capire come si scrive, in originale si chiama Ran-tan-plan), come il cane che lo accompagna insieme al fido cavallo parlante Jolly Jumper. Gli avventori del “Bar Mario” (mio padre dovrebbe farsi pagare le royalties dal Liga…), oltre ad adorarlo a loro volta, negli anni lo avrebbero soprannominato “Lucky Luciano” o “Vallanzasca”, a seconda delle imprese cui si riferivano. Quali imprese? Jack London ci avrebbe chiuso la trilogia con Buck e Zanna Bianca.

Forse l’unico cane al mondo ad avere due abitazioni (all’epoca non c’era l’IMU…), una al bar e una a casa nostra, accanto alla legnaia. Questo perché tenerlo legato alla catena equivaleva a torturarlo, e noi comunque non lo volevamo. Macinava chilometri su chilometri in lungo e in largo per il paese, un allenamento che lo aveva reso resistentissimo e duro come il legno. Tutte le macellerie e i negozi di alimentari gli davano qualcosa da mangiare. Particolare degno di nota, non “implorava” il cibo come fanno tutti i cani: se gliene davano bene, altrimenti a lui bastava essere salutato con sorriso e una carezza. Beniamino di tutti i bambini della “Piazza”, ci seguiva in tutte le nostre infinite scorribande di “simpatiche canaglie”. Anzi, ci precedeva. Sì, perché era un ante litteram GPS a quattro zampe, con in testa la mappa completa e dettagliata di strade, viuzze, vicoli, sentieri, scorciatoie di un’area che, tenendo il paese come punto di partenza, si estendeva dai “Piani della Corona” ai Piani dell’Aspromonte nella direttrice mare-montagna (leggenda vuole fino a Gambarie). Una mattina, in terzo liceo, il mio complice di scempiaggini studentesche ‘Ntoni Romano mi chiede di Lucky: “Non lo vedo da ieri”, rispondo. “Non ti preoccupare, quando ho preso l’autobus era in piazza”. Intendeva in piazza davanti a casa sua, a Cosoleto. Fate voi il conto dei chilometri: presidiava un territorio tanto esteso da far invidia a un branco di lupi. E uso il termine presidiare perché ne era veramente il padrone incontrastato. All’epoca, la piaga del randagismo era molto più diffusa di oggi e in paese vagavano parecchi cani, che specie nel periodo della riproduzione giravano riuniti in piccoli gruppi dietro le femmine in calore. Be’, l’avvento di Lucky versione “Luciano” li costrinse a stare sempre in branco. Vedete, il nostro eroe aveva un’agenda fittissima di impegni: quando non era con noi oppure ad oziare al bar, passava il tempo a scappare inseguito dagli altri cani, buscandole se veniva raggiunto fuori dalle zone franche rappresentate appunto dal bar, da casa, dalla Piazza. Il resto della giornata lo passava intento a sorprenderne qualcuno isolato, al massimo in coppia, e massacrarli. Mai più visto un cane così letale in combattimento, una furia devastante. Un solo esempio: dal rione Petto scendeva tutti i giorni un pastore con le pecore, passando davanti al bar per portarle a pascolare nella zona della stazione. I due cani, pastori tedeschi, se non erano lesti a scappare e aspettare il gregge più avanti venivano letteralmente infilati sotto le auto parcheggiate a forza di morsi. Più pericoloso del gangster americano…

Ok, direte voi, abbiamo capito: ma perché “Vallanzasca”? Apro una parentesi per chi ha meno di trent’anni. Renato Vallanzasca, detto “il bel René”: bello e spietato, capo della “banda della Comasina”, condannato complessivamente a 4 ergastoli e 295 anni di carcere, autore negli anni Settanta di rapine, sequestri, omicidi, evasioni rocambolesche. Ecco, l’aspetto che ci interessa riguarda le evasioni. Più volte, soprattutto quando l’accalappiacani comunale veniva incaricato di ripulire le strade dai randagi, Lucky è stato recluso dove aveva la cuccia al bar, in “soggiorno obbligato”. Immancabilmente, evadeva di notte col favore delle tenebre. Reti metalliche, ostacoli di varia natura (mai la catena: ci piangeva il cuore sentirlo guaire senza sosta), niente lo bloccava più di un pomeriggio. Un giorno “zio Pino” mi fa: “Lo vedi com’è tranquillo? Sicuro sta studiando il modo di scappare stanotte!”. La mattina dopo non c’era… Il record massimo di detenzione è stato tre giorni. Avevo curato tutto fin nei minimi dettagli, scappare stavolta era impossibile. Appoggiata alla fine del muro del bar, sul retro, c’era una baracca di legno abbandonata: al mattino del terzo giorno, in un angolo trovammo due assi rosicchiate quanto bastava per passare. Aveva lavorato tutta la notte. Togliemmo le reti e non provammo più a rinchiuderlo. Per finire, come qualunque malvivente che si rispetti odiava ferocemente le forze dell’ordine, abbaiava contro i carabinieri e mordeva le ruote della Campagnola quando si fermavano al bar per il caffè!

Ovviamente, il nostro era un inguaribile tombeur de femmes. E siccome era un possidente, non si limitava a volgari, riprovevoli ingroppate per strada; no, Lucky, se mi passate il termine, era un “gentilcane”, astuto e calcolatore, e le sue conquiste se le portava nottetempo nel loft a casa, meglio ancora in quello al bar per un particolare affatto trascurabile: la cuccia era sotto la pergola di uva fragola all’interno di un cancello, e quasi tutti i rivali in amore erano troppo grossi per attraversarne le sbarre!

Poi, all’età di sei anni, in punta di zampe così come era arrivato, sparì. Era divenuto epilettico in seguito ad un incidente. Stando ai “si dice”, fu attaccato da una torma di cani sopra la pineta comunale durante una crisi. Sempre stando a notizie di seconda e terza mano, fu poi caricato dai netturbini nel camion dei rifiuti, dilaniato dai morsi. A domanda, nessuno seppe allora rispondere con certezza se la carcassa caricata fosse veramente Lucky, non era facile capirlo. Vi sembrerà strano ma nessuno a casa ha pianto. Per noi, ancora adesso, non è morto: da spirito libero qual era, ha preferito andare via senza salutare, evitando così lacrime e tristezze del caso. Quando ne parliamo, mia madre azzarda che fosse letteralmente uno “spirito”, magari di un parente trapassato (in questo caso, basandoci sul suo carattere, un sospetto su chi fosse lo nutriamo…!) che ci ha voluti vegliare ed accompagnare per un tratto di strada. Quale che sia la verità, tonnellate di aneddoti al limite del misterioso ci fanno dire che abbiamo avuto la fortuna di possedere (vocabolo brutto oltreché improprio) Lucky, “il” Cane.

Condividi

In alto a sinistra

I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare. Li ho letti per intero, non ne ho lasciato nessuno a mezzo, per quanto fosse deludente o presuntuoso l’ho seguito fino all’ultima linea. Perché è stato bello per me girare la pagina letta e portare lo sguardo in alto a sinistra, dove la storia continuava. Ho girato il foglio sempre alla svelta, per proseguire da quel primo rigo, in alto a sinistra. Questo mi mancherà del mondo…

(Erri De Luca, In alto a sinistra)

In alto a sinistra. Come la pagina di un libro ancora da leggere.

Per fare visita alla tomba del professore Rosario Monterosso, all’interno del cimitero di Bagnara Calabra, occorre dirigersi verso l’area destinata ai defunti della frazione di Pellegrina e percorrere il vialetto che porta alla cappella dell’Annunziata. Proprio in fondo alla stradina, in alto a sinistra, la sua immagine scruta il viandante, con quello sguardo ben noto a chi gli fu amico, allievo o semplice conoscente.
È volato un anno dalla sua ultima lezione.

Un anno di conversazioni mancate: sull’esecutivo delle larghe intese, sul masochismo del partito democratico, sul governo della regione o sulle amministrazioni comunali dei nostri paesi.

Un anno senza i suoi consigli su quel libro di recente pubblicazione o sul saggio storico che avrei dovuto leggere, perché mi sarebbe stato utile per qualche mia ricerca. Recensioni “volanti”, improvvisate appoggiati alla sua macchina, nel cofano qualche piantina per il suo orto acquistata di passaggio da Sant’Eufemia.

Un anno senza il conforto di parole e di idee candide, sorrette dalla sua onestà intellettuale e dall’esempio fulgido della rettitudine.

Un anno di scoperte non condivise, non commentate. Lou Palanca e Katia Colica, gli ultimi lavori di Carmine Abate e Mimmo Gangemi, l’incoraggiante fermento culturale che la nostra martoriata terra riesce ad esprimere.

Sarei andato a trovarlo per portargli il mio libro e per chiedergli di presentarlo. La moglie Anna, aprendo la porta, mi avrebbe indirizzato da lui: “vedi che è qua dietro, nell’orto. Vai”. L’avrei sorpreso nel suo angolo di paradiso, mi avrebbe accolto col suo “sorriso rugoso” e avrebbe accettato.
Come l’altra volta.

È stato un anno così. Un anno senza Rosario Monterosso.

Condividi

Il cavallo di Chiuminatto – Errata corrige

Nel corso della presentazione del libro fatta qualche giorno fa mi è sorto il dubbio di avere commesso una svista relativamente alla voce “via sergente Crea”.
Sono andato a controllare e in effetti è così. Il tratto di via sergente Crea che oggi ricade all’interno della Pineta comunale è compreso tra via Fimmanò e via De Nava. A pagina 48 del libro ho invece scritto “tra via Fimmanò e via tenente Tropeano” (che è la parallela sopra via De Nava).

Come potete vedere dalla foto, io ho già corretto l’errore.
Se volete, passo casa per casa e provvedo di mio pugno!

Condividi

Elvis Aloha from Hawaii

Quando sul giornale ho letto che stanotte (23.55 circa) su Rai2 il programma Leggende Rock proporrà il concerto che Elvis Presley tenne a Honolulu il 14 gennaio 1973, ripreso in mondovisione e seguito da più di un miliardo di persone, sono subito corso a prendere il doppio album uscito qualche mese dopo.

All’interno del disco, acquistato dai miei genitori a Carlton (Australia), dove siamo nati io, Luis e Mario, la frase “Elvis ti amo” in tutte le lingue del mondo.
E poi, a guardare con attenzione, i contorni dell’Italia ripassati con un pennarello, perché sapessimo dove si trovava l’Italia, la nostra patria di emigrati all’estero.

“L’Italia ha la forma di uno stivale”: eravamo già all’entrata di Sant’Eufemia e Luis chiedeva quando saremmo arrivati in Italia. Noi piccoli lo stivale non l’avevamo ancora visto.

Condividi

Il cavallo di Chiuminatto alla pineta comunale

La presentazione del 18 maggio presso la sala del consiglio comunale si era svolta appositamente di mattina, per privilegiare la partecipazione dei ragazzi del liceo scientifico “Enrico Fermi”.

Già in quella occasione avevamo però preannunciato una replica da tenere nel mese di agosto, per dare la possibilità di essere presente a chi per impegni di lavoro aveva dovuto rinunciare, ma soprattutto per offrire una serata all’insegna della memoria ai tanti eufemiesi emigrati, che in questi giorni sono rientrati per trascorrere in paese le vacanze estive.

L’appuntamento quindi è per le 19.00 di domenica 11 agosto, al fresco della pineta comunale.

Vi aspetto

D.F.

Condividi

La mia signora maestra

Non ho mai capito perché si faccia chiamare Rina. Il suo vero nome è Ermelinda ed è la mia maestra delle scuole elementari. “È”, non “era”: anche trent’anni dopo. Anzi, la mia “signora maestra”, come l’appellavamo noi alunni, al tempo in cui ancora non si usava dare del tu e chiamare per nome l’insegnante.
Il “voi”, allocutivo in uso nelle regioni meridionali al di là del retaggio fascista, marcava le distanze. Giustamente. Non è la nostalgia del “si stava meglio quando si stava peggio”, ma certo il ruolo sociale e l’autorevolezza dei docenti, a tutti i livelli, sono oramai parecchio scaduti. Un/a maestro/a di scuola elementare, in un paesino, contendeva al farmacista e al medico condotto il primato in termini di prestigio, influenza e rispetto tra i cittadini. Oggi, ahinoi, è spesso considerato un/a baby-sitter al servizio di genitori post-moderni che “sanno” tutto, come e meglio degli insegnanti dei propri figli. Si è passati dall’autorizzazione esplicita a non andare tanto per il sottile se il bambino era troppo vivace (“se faci u malu, minati”), al timore di alzare la voce anche quando si ha a che fare con teppistelli in erba.

La mia signora maestra, ad ogni modo, credo non abbia mai dato un ceffone. Una mosca bianca, diversi decenni fa. Aveva una bacchetta di legno (’a virga) che nessuna mano ha assaggiato: soltanto la cattedra ne conosceva il colpo, quando la classe eccedeva. Gliela procuravamo noi, con i mazzolini di fiori di campo per la statua della madonnina alla quale, ogni mattina, indirizzavamo l’Ave Maria.

Ai nostri occhi di bimbi, la signora maestra aveva un solo difetto: non ci portava mai a giocare nel cortile. Le rare uscite dall’aula avevano come destinazione un piccolo terrazzo della scuola. Chissà, forse lo shock per qualche incidente accaduto negli anni precedenti; o cautela per sfuggire al timore che potesse accadere qualcosa di spiacevole. Fatto sta che lo scorrazzare dei bambini dietro al pallone, in alto suscitava un’invidia da allora mai più provata.

La scuola elementare per me è il vocio della ricreazione; il blu dei grembiulini che tutti indossavamo (lo sfoggio dell’abbigliamento firmato era ancora di là da venire); le prelibatezze di “Vicenzina”, prima che l’affidamento esterno del servizio mensa provocasse una mezza rivoluzione; il profumo di primavera che entrava dal rettangolo di finestra che si affacciava sulla pineta comunale; la delicatezza della mano della signora maestra, quando una carezza sfiorava le nostre guance. Allora e oggi.

Come già in passato, le ho regalato il mio ultimo libro: un modo per ringraziare colei che mi ha insegnato a scrivere. Mi ha sorpreso con un inaspettato pensierino, prima di farmi rivivere in un attimo la mia infanzia, con una di quelle carezze che io so.

* Nella foto, la classe III C della Scuola elementare “Don Bosco” (anno scolastico 1981-1982)

Condividi

Il cavallo di Chiuminatto sulla Gazzetta del Sud

Grazie al bel lavoro pubblicato dallo studioso Domenico Forgione

Adesso S. Eufemia d’Aspromonte conosce per intero la sua storia

– di Giuseppe Fedele [Gazzetta del Sud, 23 giugno 2013]

La sala consiliare del palazzo municipale ha ospitato la presentazione dell’ultima opera di Domenico Forgione, “Il cavallo di Chiuminato” – Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, edito da Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro. Dottore di ricerca, giornalista pubblicista e blogger, con interessi per la storia e la letteratura, il volontariato, la politica e lo sport, già autore de “Il ’68 a Messina” (1999), “Fascismo e Prefetti a Catanzaro 1922-1943” (2005), e “Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922” (2008), Domenico Forgione ha dedicato la sua ultima opera al prof. Rosario Monterosso, che fu suo docente al liceo ma soprattutto suo maestro di vita, di recente scomparso, ed ai fratelli Mario, «che da queste strade è partito», e Luigi, che in questa cittadina è tornato.
Con la pubblicazione de “Il cavallo di Chiuminatto” – Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, il cui contenuto è costituito da vicende vere che messe insieme formano la storia vera della città, lo scrittore ha inteso mettere a disposizione dei propri concittadini il frutto delle sue ricerche stimolandoli, così, a recuperare ricordi, personaggi e memorie della loro comunità, spesso non conosciuti. Come nel caso del Chiuminatto riportato nel titolo del libro, che altri non è se non il nome del titolare della ditta che, in territorio di S. Eufemia d’Aspromonte, costruì il ponte in ferro e la galleria nel tratto ferroviario che collegava Gioia Tauro a Sinopoli.

L’opera di Forgione, sulle strade, i toponimi delle strade e le storie dei personaggi che naturalmente i toponimi sottintendono, è un affresco degli ultimi tre secoli di storia del paese. Naturalmente, accanto ai toponimi delle strade e alla storia dei personaggi, c’è anche un riferimento specifico a usi e costumi del paese, agli antichi mestieri che non ci sono più ed anche naturalmente al modo di vivere che si è evoluto nel tempo e che comunque è stato fotografato nel libro dall’autore. In definitiva, “Il cavallo di Chiuminatto” costituisce un complesso di storia nazionale mista a storia locale per cui, ad un certo punto, ci si imbatte in una panoramica sul Risorgimento e sull’apporto che ad esso è stato dato dagli eufemiesi, impegnati eroicamente anche nella grande guerra.

Pur senza fornire ulteriori anticipazioni e approfondimenti, al termine della cerimonia di presentazione Domenico Forgione ha annunciato l’imminente pubblicazione di una nuova opera da lui realizzata assieme al prof. Giuseppe Pentimalli, autore fra l’altro del “Vocabolario ragionato del dialetto femijotu”.

Condividi