Chi ha superato i trenta se lo ricorda. Lucky era un “personaggio” noto in paese perché potevi incontrarlo ovunque. Nel parcheggio del bar di mio padre, a fare strada abbaiando davanti alla vecchia 500 di mia mamma, in piazza a giocare con noi ragazzini. Tutte le mattine ci accompagnava a scuola e poi, quasi conoscesse gli orari, ci attendeva all’uscita. Un dolce ricordo della mia adolescenza, che mio fratello Luis ha rispolverato con questo suo simpatico articolo. A Lucky ho dedicato persino una poesia, quand’ero poeta (perché tutti, tra i 18 e 25 anni, abbiamo coltivato ambizioni da poeta).
Nella foto, il ritratto di Lucky realizzato da Luis.
D.F.
Antefatto: sognavo un boxer. Ne ero rimasto folgorato ammirandolo in foto: mai visto niente di paragonabile, una testa scolpita nel granito, caratterizzata ed espressiva, avvitata su un corpo talmente asciutto e muscoloso da sembrare irreale. Un giorno di settembre ’87 nella nostra vita avrebbe finalmente fatto irruzione il boxer Eros, amatissimo e unico, ma questa è un’altra storia.
Eravamo seduti a pranzo, una calda giornata di giugno ’86. Improvvisamente mia madre nota un’ombra fuori dalla porta: “Focu meu, nu cani! Cacciatilu!!!”. Esco e invece di urlargli dietro lo “chiamo”. Non scappa impaurito, mi viene sotto facendo le feste. Un meticcio di circa tre mesi, chiare ascendenze da terrier. Con i miei fratelli scongiuriamo papà, io sono disposto a non asfissiarlo più un giorno sì e l’altro pure con la storia del boxer pur di potercelo tenere. Inizia la leggenda di Lucky, il re di Sant’Eufemia. Ancora non potevamo immaginarlo, ma in venti chili per quarantatré centimetri al garrese (misure da adulto), Madre Natura ci aveva recapitato il gradino più alto dell’evoluzione canina. Esagerazioni tipiche di ogni proprietario di cani?
Fu battezzato Lucky, in inglese “Fortunato”, per due motivi: primo, perché altri magari non l’avrebbero accolto; secondo, perché con Mick e Mario stravedevamo per Lucky Luke, tanto da aver chiamato un pesciolino rosso, vinto a una festa di paese, “Busciuegg” (vai a capire come si scrive, in originale si chiama Ran-tan-plan), come il cane che lo accompagna insieme al fido cavallo parlante Jolly Jumper. Gli avventori del “Bar Mario” (mio padre dovrebbe farsi pagare le royalties dal Liga…), oltre ad adorarlo a loro volta, negli anni lo avrebbero soprannominato “Lucky Luciano” o “Vallanzasca”, a seconda delle imprese cui si riferivano. Quali imprese? Jack London ci avrebbe chiuso la trilogia con Buck e Zanna Bianca.
Forse l’unico cane al mondo ad avere due abitazioni (all’epoca non c’era l’IMU…), una al bar e una a casa nostra, accanto alla legnaia. Questo perché tenerlo legato alla catena equivaleva a torturarlo, e noi comunque non lo volevamo. Macinava chilometri su chilometri in lungo e in largo per il paese, un allenamento che lo aveva reso resistentissimo e duro come il legno. Tutte le macellerie e i negozi di alimentari gli davano qualcosa da mangiare. Particolare degno di nota, non “implorava” il cibo come fanno tutti i cani: se gliene davano bene, altrimenti a lui bastava essere salutato con sorriso e una carezza. Beniamino di tutti i bambini della “Piazza”, ci seguiva in tutte le nostre infinite scorribande di “simpatiche canaglie”. Anzi, ci precedeva. Sì, perché era un ante litteram GPS a quattro zampe, con in testa la mappa completa e dettagliata di strade, viuzze, vicoli, sentieri, scorciatoie di un’area che, tenendo il paese come punto di partenza, si estendeva dai “Piani della Corona” ai Piani dell’Aspromonte nella direttrice mare-montagna (leggenda vuole fino a Gambarie). Una mattina, in terzo liceo, il mio complice di scempiaggini studentesche ‘Ntoni Romano mi chiede di Lucky: “Non lo vedo da ieri”, rispondo. “Non ti preoccupare, quando ho preso l’autobus era in piazza”. Intendeva in piazza davanti a casa sua, a Cosoleto. Fate voi il conto dei chilometri: presidiava un territorio tanto esteso da far invidia a un branco di lupi. E uso il termine presidiare perché ne era veramente il padrone incontrastato. All’epoca, la piaga del randagismo era molto più diffusa di oggi e in paese vagavano parecchi cani, che specie nel periodo della riproduzione giravano riuniti in piccoli gruppi dietro le femmine in calore. Be’, l’avvento di Lucky versione “Luciano” li costrinse a stare sempre in branco. Vedete, il nostro eroe aveva un’agenda fittissima di impegni: quando non era con noi oppure ad oziare al bar, passava il tempo a scappare inseguito dagli altri cani, buscandole se veniva raggiunto fuori dalle zone franche rappresentate appunto dal bar, da casa, dalla Piazza. Il resto della giornata lo passava intento a sorprenderne qualcuno isolato, al massimo in coppia, e massacrarli. Mai più visto un cane così letale in combattimento, una furia devastante. Un solo esempio: dal rione Petto scendeva tutti i giorni un pastore con le pecore, passando davanti al bar per portarle a pascolare nella zona della stazione. I due cani, pastori tedeschi, se non erano lesti a scappare e aspettare il gregge più avanti venivano letteralmente infilati sotto le auto parcheggiate a forza di morsi. Più pericoloso del gangster americano…
Ok, direte voi, abbiamo capito: ma perché “Vallanzasca”? Apro una parentesi per chi ha meno di trent’anni. Renato Vallanzasca, detto “il bel René”: bello e spietato, capo della “banda della Comasina”, condannato complessivamente a 4 ergastoli e 295 anni di carcere, autore negli anni Settanta di rapine, sequestri, omicidi, evasioni rocambolesche. Ecco, l’aspetto che ci interessa riguarda le evasioni. Più volte, soprattutto quando l’accalappiacani comunale veniva incaricato di ripulire le strade dai randagi, Lucky è stato recluso dove aveva la cuccia al bar, in “soggiorno obbligato”. Immancabilmente, evadeva di notte col favore delle tenebre. Reti metalliche, ostacoli di varia natura (mai la catena: ci piangeva il cuore sentirlo guaire senza sosta), niente lo bloccava più di un pomeriggio. Un giorno “zio Pino” mi fa: “Lo vedi com’è tranquillo? Sicuro sta studiando il modo di scappare stanotte!”. La mattina dopo non c’era… Il record massimo di detenzione è stato tre giorni. Avevo curato tutto fin nei minimi dettagli, scappare stavolta era impossibile. Appoggiata alla fine del muro del bar, sul retro, c’era una baracca di legno abbandonata: al mattino del terzo giorno, in un angolo trovammo due assi rosicchiate quanto bastava per passare. Aveva lavorato tutta la notte. Togliemmo le reti e non provammo più a rinchiuderlo. Per finire, come qualunque malvivente che si rispetti odiava ferocemente le forze dell’ordine, abbaiava contro i carabinieri e mordeva le ruote della Campagnola quando si fermavano al bar per il caffè!
Ovviamente, il nostro era un inguaribile tombeur de femmes. E siccome era un possidente, non si limitava a volgari, riprovevoli ingroppate per strada; no, Lucky, se mi passate il termine, era un “gentilcane”, astuto e calcolatore, e le sue conquiste se le portava nottetempo nel loft a casa, meglio ancora in quello al bar per un particolare affatto trascurabile: la cuccia era sotto la pergola di uva fragola all’interno di un cancello, e quasi tutti i rivali in amore erano troppo grossi per attraversarne le sbarre!
Poi, all’età di sei anni, in punta di zampe così come era arrivato, sparì. Era divenuto epilettico in seguito ad un incidente. Stando ai “si dice”, fu attaccato da una torma di cani sopra la pineta comunale durante una crisi. Sempre stando a notizie di seconda e terza mano, fu poi caricato dai netturbini nel camion dei rifiuti, dilaniato dai morsi. A domanda, nessuno seppe allora rispondere con certezza se la carcassa caricata fosse veramente Lucky, non era facile capirlo. Vi sembrerà strano ma nessuno a casa ha pianto. Per noi, ancora adesso, non è morto: da spirito libero qual era, ha preferito andare via senza salutare, evitando così lacrime e tristezze del caso. Quando ne parliamo, mia madre azzarda che fosse letteralmente uno “spirito”, magari di un parente trapassato (in questo caso, basandoci sul suo carattere, un sospetto su chi fosse lo nutriamo…!) che ci ha voluti vegliare ed accompagnare per un tratto di strada. Quale che sia la verità, tonnellate di aneddoti al limite del misterioso ci fanno dire che abbiamo avuto la fortuna di possedere (vocabolo brutto oltreché improprio) Lucky, “il” Cane.