Click

Il mio vero nome danza con il vento. Gli è stato sussurrato tempo fa mentre mi spettinava i capelli, cullato da braccia che non conoscevo. Un padre non l’ho mai avuto, nei ricordi asciutti di mia mamma si faceva vedere ogni due o tre mesi. Lei però non poteva raccontarlo a nessuno che il suo uomo era tornato a casa. Restava acquattato sotto una botola nascosta sul retro per un paio di giorni, lì gli veniva portata una scodella di kabuli pulao e un po’ di carne di pecora, poi ripartiva. Senza neanche salutare.
Per i miei fratelli nostro padre era un fagotto tiepido calato nel buio di una buca. Due occhi lucenti come stelle lontane, che non sai se vedi o stai soltanto sognando, che il bisogno di infinito rende familiari. Due mani mute e terrose che di notte arrivavano e di notte svanivano.

Avevo tre anni quando mandarono a chiamare mia madre per farle riconoscere un corpo mutilato. Era lui, saltato in aria con il furgone diretto a un campo di addestramento. Finalmente aveva coronato il sogno di diventare un martire della jihad, anche se non aveva trascinato con sé nemmeno uno degli infedeli che due giorni prima volteggiavano sopra la sua testa china e stretta tra i gomiti, inseguita dalle raffiche del mitragliatore.
Il rumore di morte delle pale che tagliano a fette l’aria faceva già parte della colonna sonora della mia vita. Cinque anni dopo mi avrebbe sorpreso blindato tra le braccia di mia mamma, il viso nel rifugio del suo seno: non avere paura, ci sono io qua.
Fui l’unico a risvegliarsi, due settimane dopo in un lettino d’ospedale. Dov’era il villaggio, un silenzioso puzzo di stantio. Mia mamma e i miei fratelli, una storia sospesa.
Per tenermi buono Steve mi faceva giocare con la digitale che riprendeva la sua vita in bilico sulla torretta di un carro armato o sorridente tra pacchi di latte in polvere e scatolette da distribuire. I bambini stanno bene ovunque, anche in una caserma di militari dall’accento sconosciuto, se qualcuno si prende cura di loro.
Oggi immagino i contorni sfuocati del vecchio Steve nell’altra parte del mondo, mentre rivela ai figli che la verità spesso è questione di grandangolo. Ripenso alle sue ultime parole prima di andare, le lacrime a solcare gli zigomi cotti dal sole: Click, questa la lascio a te.

Mi piaceva il soprannome che mi aveva dato, lo porto addosso come un mantello che mi protegge dal mio passato, dalla strada che – lei – mi avrebbe certamente scelto. E mentre cerco di stare il più vicino possibile all’orrore, affido i miei quindici anni alla buona sorte e alle mimetiche che mi circondano. A sera avrò tempo per rivivere le vite di tutti e venderle alle agenzie di stampa.
L’obiettivo della macchina fotografica sono i miei occhi. Altro non vedo, fuori dalle fiamme di un inferno che non mi spaventa più, che è la mia stessa pelle; fuori dal sangue che chiazza strade e campi, come inchiostro rovesciato a inzuppare. I colori giocosi dei fiori, il sole rosseggiante che va a dormire dietro al mare, il sorriso di perla dei bambini li fotografo di notte, quando ricamo una trama diversa unendo le crepe del soffitto.
Ma il mio destino è là fuori, annodato a questo dito che scatta e scappa, che nelle immagini della morte si ostina a cercare la vita di domani. Se vincerà il prossimo duello, mirino contro mirino.

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Un tuffo dove l’acqua è più blu

Cosa vuoi che sia un salto per un ragazzino di Bagnara, il primo maggio. Erano in due, li ho visti da lontano, mentre passeggiavo sul lungomare, e ho capito subito quello che volevano fare.
Ho cercato di cogliere quell’attimo e mi sembra di esserci riuscito.
Prima di pubblicare la foto ho esitato per diverse ore. Poi mi sono convinto: no, non mi sembra riconoscibile. Inoltre: no, non è un cattivo esempio.
Da piccolo saltavo da muri che sembravano altissimi, mi arrampicavo sugli alberi, guadavo la fiumara, attraversavo la galleria mentre arrivava la littorina. Lo facevo insieme a molti altri ragazzi e siamo tutti qua. Tutti qua, con forse meno libertà.
Ecco, nel volo di questo ragazzino io vedo solo libertà.
E mi commuovo.

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L’ultimo sorso

Chissà in quale nascosto cassetto della memoria si trovavano sepolte quelle parole. Emerse all’improvviso dai fondali dei ricordi, come quella foto in bianco e nero tra le lenzuola del corredo da sposa della nonna, gli occhi di suo padre sbarrati per il bagliore del magnesio, nel vecchio baule che raccoglie quel che è rimasto dei suoi ottantadue anni.

Rivedo il sorriso di mio padre ad addolcire il tono secco di un rimprovero che era solamente apprensione per le due bolle spuntate in un attimo su pollice e indice della mia mano destra.
– Ma come fai ad essere così stupido? Come ti è saltato in testa di toccare le dieci lire che coprono il buco del piano cottura della stufa a legna?
E poi quel rimedio antico e improbabile. Ché non ci ho mai creduto potesse realmente essere efficace, ma sono molte le cose in cui non ho mai creduto. Nonostante l’età.
La proprietà disinfettante della pipì sulle escoriazioni, ad esempio. O il prodigio del latte degli scartagnoli per fare crescere le dimensioni dell’uccello. Cose così.

Eccomi allora con le due dita immerse dentro un bicchiere di vino. Quel rosso che nel tempo sarebbe diventato il mio migliore amico. E che ora è accomodato accanto a me, lato passeggero di questa vecchia auto scassata. Lo berrò fino all’ultima goccia, mi servirà.

Che buffo questo ricordo, ora. Nello specchietto retrovisore intravedo un ghigno che riconosco e al quale tento di aggrapparmi, prima di affondare. Nei film è tutto diverso, arrivati a questo punto il protagonista sfodera sempre la battuta memorabile che lo consegnerà alla storia. Che tutti ripeteranno come un mantra.
Io no. Con l’accendino in mano, i vestiti e il sedile inzuppati di benzina risento la voce di mio padre, saltata fuori da quel cassetto che non sapevo: devi averne preso da tua madre!
Non lo so da chi ne ho preso. Non so niente, ormai. Posso solo immaginare il puzzo di bruciato del mio futuro. Il rumore sordo dei sogni franati. Il sapore aspro delle promesse non mantenute. Come un limone che sei costretto a mandare giù, cercando di non fare neanche una smorfia.

Ho portato tutto con me, in questo autodafé finale che è la ragionevole condanna per i miei peccati. Il più grave, la fiducia nella mia forza di volontà e nel mio spirito di adattamento.
Eppure è volato un anno senza lavorare, senza portare un soldo a casa. Un anno di lacrime, quelle di mia moglie. Per le bollette scadute, l’assicurazione della macchina non pagata, lo sguardo scocciato del fruttivendolo, le parole sussurrate dai vicini al mio passaggio veloce a filo di muro, come un topo sfuggente agli occhi.
– Mi spiace, non posso più tenerti. Neanche in nero. Tra un po’ chiudo e mando tutti affanculo, non ha senso andare avanti così.

Spiace anche a me, cazzo. Dopo che ti ho fatto il servo per anni e mai ferie pagate, contributi, malattia. Niente di niente. Per seicento euro al mese. Farei lo stesso lavoro per metà stipendio, ora. Ma non si può, mi dici. E allora sono io a mandare tutti affanculo, anche se mi dispiacerà.
Eccome se mi dispiacerà. Restano sempre troppe cose da fare, troppe parole che non si è avuto il tempo di pronunciare. Troppe pagine di libri da leggere che mi avrebbero consolato, credo.
Un ultimo sorso e si va: l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.

Forse sarà come molti anni fa sul letto di un ospedale. Il fuoco dentro il corpo e la perdita dei sensi, il materasso un buco nero che inghiotte tutto. Fallimenti compresi.
Deve essere proprio così la morte. Una discesa folle aggrappato a un cavallo impazzito.
Prosit.

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Petali

Il mio posto è tra il tuo giubbotto e il vento, gli occhi a fissare in alto quel sorriso affaticato che conosco. Che indossi sempre quando hai paura di rivelarti nudo, di essere letto. Decifrato. Punture di freddo sulla faccia, come aghi di pino. E il mare che non fa niente per piacere, avido di sabbia invernale e lattine arrugginite, cocci levigati di vetro verde e mozziconi consunti, falò arsi sotto la luna gigante. Lacrime e parole di esistenze spiaggiate, le nostre.
Essere stanata dal tepore del mio rifugio è un gioco triste che soddisfo con calcolata cura. Mi ritrovo aggrappata ai tuoi pensieri, nuvole in fuga da una quotidianità che ci manca. L’attesa del gorgoglio della moka sul fornello, i nostri volti illuminati a intermittenza su vetrine sorridenti, strade da percorrere a passo lento. Ogni volta che lo desideriamo.

Ti ho cercato pur sapendo di non poterti trovare. L’ho fatto nuovamente. Ma lo dovevo a me stessa. Alla donna che ero, non certo a quella che sono diventata. Improbabile sotto questa maschera che mi dipinge felice in un mondo ideale, a canticchiare sopra la musica che altri suonano per me. Come fosse perfetta sinfonia e non uno sguaiato lamento di olocausto. Lo dovevo alla mia sfrontataggine e allo stupore che ti procurava, sempre. Lo devo all’ostinazione di un finale che reinventiamo di volta in volta, per darci ancora una possibilità.
Anche se non ho mai creduto a quella storia sul perdono, che va bene per il buio di una sala, gli occhi umidi e i singhiozzi soffocati fino al riaccendersi delle luci. Per perdonarti avrei dovuto sopravvivere ai miei fantasmi. Per perdonarti e per poterti ritrovare. Trovarti com’eri prima, intendo.

Mi aggrappo a un sogno solo mio, inseguito di stazione in stazione, senza alla fine crederci più di tanto. Ravvivato da quel poco di ombretto a sfumare che nasconde i miei anni e le tue colpe. Un trucco che amiamo entrambi. E che somiglia alla sapienza delle rondini, si manifesta quando è ora di partire. Loro tornano sotto lo stesso balcone, per ricominciare dalle macerie di un cerchio disegnato. Io mi riannido tra una camicia e una lampo. Lì intravedo l’idea di noi, sbiadita. Come se tutto fosse successo ad altri, non a noi che pure avvertiamo il sapore salato della nostalgia, desiderio di cielo azzurro e sole e calma. Di auto parcheggiate e corpi sudati. Di corse a inseguire la libertà. Di notti incollati a due cornette. Di incoscienza che era coraggio.

Ora vado, non provare a trattenermi. Tanto lo sai che tornerò. Coloriamo parentesi con la cocciutaggine dei bimbi piegati sul foglio, l’avambraccio sdraiato per non fare copiare il compagno che pressa accanto per sbirciare. La promessa del ritorno è l’unica certezza che possiamo permetterci, l’illusione di una vittoria assurda. Abbiamo vinto perdendo, come petali che resistono, soffiati altrove.

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Il calore di un aggettivo

Quattro anni e trecentoquarantacinque messaggi nella bottiglia dopo. Il 24 marzo 2010 aprivo il blog e pubblicavo il primo articolo: Minita, il nome che io stesso mi ero dato da bambino. Perché in un certo senso ripartivo, se non da zero (secondo l’insegnamento del grande Massimo Troisi), dalla consapevolezza che molto era cambiato nella mia vita. O almeno in ciò che mi ero prefigurato sarebbe stata, dieci anni prima.
Minita, quindi. Ripartivo dalla curiosità per ciò che mi accade attorno, dal desiderio di interpretare gli avvenimenti e di capire le persone al di là di ciò che appare a una prima, sommaria, osservazione. Ma anche dal bisogno di condividere con chi legge impressioni, considerazioni, emozioni. Con il maggiore tatto possibile, almeno nelle intenzioni.
Il nome di questo diario virtuale è Messaggi nella bottiglia proprio perché alle onde virtuali della rete affido periodicamente bigliettini che forse verranno letti, forse no. Oggi, domani o chissà quando. Giusto ieri ho ricevuto il commento alla recensione di un libro scritta quasi due anni fa!

Il blog è figlio di un esperimento fallito: quello di creare con il sito santeufemiaonline uno spazio di confronto che offrisse agli eufemiesi la possibilità di esprimersi liberamente, seguendo gli impulsi dati dalla sensibilità e dagli interessi culturali, sociali, politici. Nel momento in cui gli articoli finirono per essere firmati quasi tutti da me, quello spazio non aveva più senso. Era più corretto “sgravare” gli altri collaboratori dalla responsabilità delle cose che proponevo e guadagnare, se non una maggiore libertà (che era totale), certamente un rapporto più diretto e franco con i lettori. Questo per dire da dove si è partiti, da poche visualizzazioni che nel tempo sono cresciute e danno oggi un senso più compiuto a questa attività, ma inducono anche alla riflessione. Perché aumentano le responsabilità di chi scrive nei confronti di coloro che leggono.

Sono affezionato a questa mia creatura. Perché da qui sono partite proposte che la politica e le associazioni eufemiesi hanno spesso colto: su tutte, la riscoperta di Nino Zucco, un grande eufemiese dimenticato fino all’anno scorso.
Il blog mi ha fatto conoscere da gente che non immaginavo e mi ha dato l’opportunità di intrecciare rapporti e avere occasioni di confronto con persone altrimenti per me irraggiungibili.
E poi c’è l’aspetto “medico”: gli voglio bene perché mi ha aiutato a superare situazioni personali anche dolorose. Non mi stancherò mai di ripetere che scrivere è una terapia, ghiaccio a lenire i lividi lasciati sull’anima dai colpi bassi che la vita spesso riserva.
C’è anche molto di me qua dentro. In maniera esplicita o tra le righe, per ritrosia. Ma anche perché conforta il calore di un aggettivo messo lì, quasi per caso. Con la certezza che molti capiranno.

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La notte degli gnomi

Martina amava i libri del padre. A dodici anni sognava di diventare Cecile, la ribelle protagonista di Bonjour Tristesse. O Lia, che in Canne al vento insegue la libertà scappando dalla Sardegna. Del romanzo di Grazia Deledda l’affascinava quel mondo fantastico, abitato da folletti e spiriti, che lei stessa incontrava ogni notte prima di addormentarsi.
Sotto le coperte, il lettino si popolava di folletti buffi e graziosi che si sfidavano in una gara molto particolare: spazzare via la tristezza del giorno. Spuntavano dietro un cespuglio o sotto un fungo, si lanciavano dai rami bassi degli alberi, scorrazzavano nello stagno a bordo di larghissime foglie.
Era la notte degli gnomi.
Gli angoli del materasso diventavano i confini di un mondo fantastico, il cielo trapuntato di stelle lucentissime e sorridenti. “Ma quante sono?”, si chiedeva con meraviglia per poi rabbuiarsi al pensiero del mistero di quel magnifico e imperscrutabile ricamo, che la faceva sentire uno zero tra gli infiniti numeri dell’universo. Ma era solo un attimo. Il tappeto di foglie brune croccava sotto i passi degli gnomi e delle fate che si rincorrevano festanti, si aggrappavano alla sua vestaglia e la invitavano ad unirsi a quel girotondo di magia. Martina chiudeva gli occhi e si lasciava abbracciare dalla felicità.
Fu in una di quelle notti che intravide uno gnomo vestito da cacciatore. Non aveva però con sé il fucile: solo un po’ di pane, in una mano, che presto sbriciolò per gli uccelli del bosco; alle orecchie, le cuffie della radiolina che fuorusciva da un taschino dell’eskimo beige.
Martina riconobbe subito quel sorriso distante, molto simile al suo. Quello gnomo era suo padre. Gli occhi erano uguali a suoi, cangianti dal verde mare al castano chiaro, a seconda dei riflessi del sole. In quelli di Martina si leggeva il dolore per quel vuoto ingombrante che il ricordo non riusciva a colmare. Che nessuno poteva capire.
Forse per questo gli gnomi avevano portato lì suo padre.
Per rassicurarla.
Con lo sguardo seguì quel passo lento che si arrestò all’ombra di un albero. Lo gnomo estrasse il giornale dalla tasca posteriore dei pantaloni, si accomodò sul prato e cominciò a leggere.

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Peppe, un buono

È morta una persona buona. Non servono giri di parole. Bastava leggere la commozione negli occhi di chi neanche respirava mentre il carro funebre faceva il suo ingresso nel camposanto.
Si fanno filosofie, sulla vita e sulla morte. E poi scopriamo, sempre, che è tutto molto più semplice dei nostri ragionamenti. Perché i sentimenti hanno una vita propria, erompono con la forza della verità. E la verità è che Peppe Panuccio era una persona semplice, che amava e che per questo era amata. La morte è una rivelazione, mette in chiaro tutto.

Non doveva finire così. Ma forse ha ragione uno dei suoi cinque figli quando dice che la montagna, che Peppe adorava, l’ha chiamato a sé. Incidente sul lavoro, ennesima “morte bianca” di questa guerra che quotidianamente miete vittime innocenti nei cantieri. E proviamo dolore autentico, amarezza per questa vita spezzata a 56 anni. Per questo lavoratore onesto e instancabile.
Non è una frase di circostanza: “era un grande lavoratore”. Non è retorica perché la sua vita “era” il lavoro. Madre natura aveva donato a Peppe la forza di un toro, due braccia possenti e un cuore d’oro. La sua lotta quotidiana e dignitosa per un pezzo di pane è il riscatto di chi non ha niente, ma non per questo si piange addosso. È l’esempio davanti al quale inchinarsi, riverenti.

Tra di noi abbiamo ricordato quando, prima dell’arrivo del muletto, scaricava i tir della concime portando sulle spalle fino a tre sacchi da mezzo quintale; quella volta che sollevò una Fiat 127 e la spinse in avanti come una carriola; quell’altra che sfondò il tavolino nello sforzo finale e vincente di un braccio di ferro; tutte le serate in piazza, alla fine della festa della Madonna del Carmine o di qualche manifestazione dell’associazione Sant’Ambrogio: attorno a una panchina, lui con l’organetto e Mimmo Comandè con il tamburello, e via di tarantella, la sua grande passione.

Ma Peppe non era solo questo. Peppe era la sensibilità di chi si commuove fino alle lacrime di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, era la consapevolezza di chi sa che il rancore e la vendetta non portano da nessuna parte, anche se ti ammazzano il padre per un bicchiere di vino quando sei ancora in fasce, costringendoti a un’infanzia di stenti.
Era quella frase che ripeteva spesso e che ora, nella sua disarmante semplicità, diventa insegnamento: “ndamu a voliri beni”, dobbiamo volerci bene.

*Un ringraziamento a Filippo Lombardo per la gentile concessione della fotografia

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Farewell, Vinny

Da sinistra: Ninello Parisi, Enzo Fedele,
Luis Forgione e Enzo Condina

A metà degli anni Ottanta le ginocchia dei ragazzi più grandi di cinque-dieci anni sono state, per me e per i miei fratelli, un posto in prima fila. Da quella prospettiva abbiamo visto scorrere molta vita dentro al bar Mario. Gambe di giovani che poi hanno preso il volo, volti familiari trasformati dallo scorrere inesorabile delle stagioni. Alcuni mai più rivisti, se non nel ricordo di un tempo “mitico”.
Così è per Enzo Condina, divorato dal cancro in faccia all’Atlantico qualche giorno fa, a neanche 46 anni.

Flash-back improvvisi restituiscono la smania di crescere di Enzo “u mericanu” (o “Loredana”), figlio unico di genitori anziani. Un’educazione quasi spartana che prevedeva, tutti i giorni, un’ora di solfeggio con il flauto dalle 15 alle 16. Per la gioia dei suoi coetanei, “costretti” ad assistere alla performance seduti sul divano, se passavano da casa sua con l’intenzione di trascinarlo in qualche scorribanda.
Un’ansia repressa quando, all’inizio sotto stretta osservazione del padre, cominciò a dare i primi colpi di stecca. Trattenuta sempre più a fatica se Ninuzzu “u micuneddu” gli faceva notare che era ora di fare ritorno a casa, subito dopo avere consultato sul giornale la quotazione del dollaro. Addio “bazzica”, addio “italiana”. Certo, quando marinava il liceo insieme a qualche compagno poteva stare tranquillo: la sala biliardi diventava il paradiso terreno.

Crescere ed essere uguale agli altri ragazzi. La morte del padre fu un evento devastante, perché gli procurò una libertà mai avuta prima e la sensazione di essere finalmente padrone della propria vita. Via il “caschetto” da collegiale, sostituito da una più matura “mascagna”. Via anche un po’ di vecchi amici. E telefonate della madre a casa di Mario nel cuore della notte, per sapere che fine avesse fatto il figlio a saracinesca del bar abbassata.
Tornare in America, ecco cosa bisognava fare. E così fu. Altro giro, altra puntata per “Vinny”. Come nei tanti casinò di Atlantic City (New Jersey), dove entrò da orchestrale (si era diplomato al Conservatorio di Reggio Calabria e, oltre al flauto, suonava pure il pianoforte) e che continuò a frequentare da giocatore professionista di poker.

Enzo e Louisa nel giorno del matrimonio
(fotografia fornita da Marcello Ragonese)

Il matrimonio con Louisa Governali e notizie sempre più frammentarie da un quarto di secolo, fino a quella scioccante di qualche mese fa: “Enzo u mericanu ha un tumore: gli resta poco da vivere”.
Ogni volta che qualcuno ci lascia, è un pezzo di noi che va via. Anche se sono state meteore che hanno tracciato il nostro cielo per poco tempo.
Perché la vita è così. Ci si perde. Ognuno imbocca una strada e chissà dove porterà. Ci ricordiamo della vita, delle vite, quando irrompe la morte. È come fare l’appello a scuola, ma ogni nome è un volto in meno, l’aula sempre più vuota.

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Buon anno

Buon anno

a chi non ci sperava

a chi ne era convinto

a chi guarda il bicchiere mezzo pieno

lo svuota

e poi prova a riempirlo nuovamente

a chi canta sotto la doccia

a chi singhiozza nel buio del cinema

a chi ripensa al finale di un romanzo

a chi corre per strada

a chi passa la borraccia

a chi tenta la giocata di tacco

a chi beve in compagnia

a chi ama senza aggettivi

a chi fa sogni colorati

a chi non smette di cercare un motivo per sorridere

a chi resiste e vive, vive e resiste

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“Avremmo voluto fare come in Francia”: in ricordo di Pippo Fiore

Aveva una gran voglia di parlare, Pippo Fiore. A dispetto dei molti “guarda che è meglio se lasci perdere: da tempo ha tagliato ogni tipo di rapporto con tutti quelli che gli eravamo amici”. Inutile dire che l’avvertimento, invece di scoraggiarmi, esaltò il mio desiderio di conoscerlo per sottoporgli la mia richiesta. Stavo lavorando alla tesi di laurea Il ’68 a Messina, argomento sul quale ancora non esisteva uno studio specifico. L’idea, poi realizzata, era quella di intrecciare le testimonianze provenienti da fonti diverse e vagliarle per tentare una ricostruzione quanto più oggettiva, lontana dal mito e dalla nostalgia: i ciclostilati del “giornale dell’occupazione” e i documenti del movimento studentesco messinese, i resoconti della stampa locale, le interviste ai protagonisti, quelli che l’avevano fatto e quelli che l’avevano subito. Ciò che si sperava che fosse, ciò che era stato, ciò che era rimasto a distanza di trent’anni. Il bilancio di una generazione attraverso le risposte alle quaranta domande di un questionario che avevo preparato insieme al mio correlatore, Marcello Saija, anch’egli protagonista di quegli avvenimenti.

Tra i soggetti da intervistare, il comunista Pippo Fiore, all’epoca studente della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche, che proveniva – come tanti altri – dall’esperienza delle associazioni (Ugi, Agi, Intesa, Fuan) e degli organismi rappresentativi studenteschi pre-sessantotto: a Messina, il parlamentino dell’Orum, composto da 35 rappresentanti degli studenti. Sconfitto, solo e azzannato dal male che nel giro di un anno lo avrebbe messo al tappeto. “A fargli compagnia, è rimasta soltanto la bottiglia”, la chiosa finale, amara, anche un po’ cattiva, di chi mi suggeriva di non provarci nemmeno.

L’intervista non ci fu. Ci furono due settimane di incontri, tra giugno e luglio del 1997, necessari perché un intervento chirurgico alla lingua gli impediva di esprimersi bene e per più di 20-30 minuti. Già al primo appuntamento, davanti alla trattoria “La Capanna”, mi sommerse di osservazioni e suggerimenti sul percorso che avrei dovuto seguire per scrivere una buona tesi. Dopo le presentazioni, mi strappò letteralmente dalle mani il questionario e cominciò a leggerlo, mentre io gli camminavo a fianco. Finimmo con il percorrere per due volte il perimetro dell’isolato. Finì anche per beccarmi un “sei un figlio di puttana”, quando arrivò alla domanda su cosa significasse essere comunista mentre i carrarmati sovietici occupavano Praga: “è vero che il burocraticismo staliniano e brezneviano ebbe la meglio sulla spinta riformatrice di Dubcek, però non bisogna fare semplificazioni. Ci sono anche, ad esempio, la lotta e la lezione di Che Guevara. Il valore della libertà è l’elemento fondante dell’essere comunista. Altrimenti sei un’altra cosa”.

Con Pippo Fiore, il questionario non servì. Scendeva con un’andatura incerta e leggera da via Dei Vespri, attraversava l’incrocio di via Cesare Battisti ed entrava al “Bar Università”, dove l’attendevo, registratore, bloc-notes e penna sul tavolino. Era un fiume in piena, spaziava da considerazioni politiche, sociali e di costume sulla storia di Messina all’introspezione, per cui a me non restava che tentare di inserirmi con qualche domanda per indirizzarlo sulle questioni attinenti alla mia ricerca.
Come in un nastro, i fotogrammi di un’epoca. L’operazione Mussolini-monsignor Paino, dopo il 1908, che spinge l’Università a rinchiudersi nel proprio recinto culturale. La città succube di una borghesia qualunquista cui dà fastidio il jazz dei ragazzini del “Maurolico”. Il Cut (centro universitario teatrale) e le contrapposizioni ideologiche su Picasso e Dalì, “senza spesso sapere chi c…. fosse Picasso e chi c…. fosse Dalì!”. Il Sessantotto stesso come movimento piccolo-borghese, per il quale – in definitiva – valse la metafora dell’orologio contenuta nella commedia Addio giovinezza! di Nino Oxilia: la storia d’amore tra due studenti universitari a inizio Novecento, bruscamente interrotta quando il padre di lui manda al figlio appena laureato una “cipolla” da tasca che sottintende il richiamo a casa. A Messina e altrove il tentativo di disinnescare la contestazione con la cooptazione (“hai fatto il ’68, con tutte le tue idee… bene, ora puoi tornare a casa”), era riuscito. Quando invece sarebbe stato auspicabile un altro modello di riferimento culturale: lo studente universitario Luca Marano, protagonista del romanzo di Francesco Jovine Le terre del Sacramento, che paga con la vita la scelta di schierarsi al fianco dei contadini molisani in lotta contro il fascismo agrario.

Il grande dolore di Pippo Fiore, nonostante le molte soddisfazioni raccolte da sindacalista Cgil, credo sia stata l’Università: “sono stato per anni assistente universitario, poi mi hanno fatto fuori”. E l’amarezza impregnava l’invito che mi rivolse, affinché studiassi anche i percorsi professionali, in particolare accademici, di molti sessantottini, lasciando così intuire il perché del suo ritiro in sdegnosa solitudine.

Alla domanda “che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?”, risolta da Bertold Brecht nella poesia A chi esita con “non aspettarti nessuna risposta oltre la tua”, Pippo Fiore non ebbe tentennamento alcuno: “L’autocritica la farei su tutto. Ma alla mia età e con la cosa [il cancro] che ho addosso, fare autocritica sarebbe patetico. L’autocritica è di essere messinese. È stato che avevamo tutti i difetti e che non avevamo alcune cose; è stato che, in fondo, avremmo voluto fare come in Francia”.

Non riesco a non pensare a Pippo Fiore quando su Rai 3, a notte fonda, scorre la sigla di “Fuori Orario”. Anni fa mi è capitato di parlare di lui mentre Patty Smith realizzava il prodigio di Because the night. Altri rimpianti, nella notte che confonde i sogni.

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