Zio Bud

No, no, e ancora no. Ero ancora in piena euforia per la vittoria della nazionale contro la Spagna, saltavo da un social all’altro per leggere cosa si diceva di questa impresa epica: Conte, certo, grandissimo; ma anche l’abnegazione di una squadra operaia che non si arrende mai. Insomma, una bella pagina di calcio dal valore extra sportivo: con la forza di volontà, con lo spirito di squadra, con la fatica si possono raggiungere risultati inaspettati. Ero tutto preso in queste considerazioni, leggevo, aprivo link, quando sul display del telefonino mi appare il suo faccione barbuto: «È morto Bud Spencer».
Da lì in avanti, tutti a commentare la notizia, a esprimere dispiacere autentico per un attore popolare, amato soprattutto dai bambini. Un gigante buono entrato nell’immaginario collettivo come Totò o Fantozzi, autentiche maschere del cinema italiano, o i protagonisti dei fumetti Marvel. Un compagno di giochi che ha donato al suo pubblico allegria e spensieratezza. Burbero, ma a suo modo affettuoso: chi non avrebbe voluto essere H7-25, il bambino venuto dallo spazio salvato da Bud Spencer in “Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre”?
I pugni di Bud Spencer e Terence Hill non fanno male, al massimo “addormentano” chi ne viene colpito. I proiettili delle pistole di Bambino e Trinità non uccidono e non provocano spargimenti di sangue. I loro film sono un ossimoro, ci sono le botte ma non c’è violenza. Anzi, i loro cazzotti fanno ridere. Con quel nome da birra americana e la sua mimica facciale era impossibile non volere bene a Bud, il mito di intere generazioni di ragazzini. Per questo un velo di malinconia ha offuscato, ieri sera, i nostri pensieri. Con la morte di Bud Spencer ognuno di noi perde un pezzo della propria infanzia. Perde la leggerezza di anni che già sapevamo non sarebbero più ritornati. Però è sempre un duro colpo ritrovarsi di fronte alla cruda realtà. Perde il sorriso innocente di un tempo in cui non c’era bisogno della comicità volgare di oggi per provocare al cinema la risata dello spettatore.
Come accade quando ci lascia una persona cara, ci si ritrova a consolarsi tra intimi. Io e mio fratello Luis avremo visto insieme centinaia di volte i film di Bud Spencer e Terence Hill. Avrei voluto chiamarlo ieri sera, magari rifacendo il coro dei pompieri di “Altrimenti ci arrabbiamo” (bo-bo-bo-bo-bo-bo-bo). Ma erano passate le undici, era tardi… Be’: a mezzanotte mi ha chiamato lui! Gli ho raccomandato di non dire niente al piccolo Diego, che stravede per “zio Bud”. Gli ho però chiesto di aiutarmi a tornare bambino, almeno per un attimo, raccontando per il blog le sue impressioni. [D.F.]

A volte dispiaceri “di secondo piano” scompaginano e declassano priorità urgenti e pesanti, a tal punto che puoi trovarti costretto a tenere il segreto. Un pensiero fumoso, che diventa lampante nelle parole di un bimbo di tre anni e mezzo: «Papà, papà: zio Bud! Pum! Pum!». Questa l’esclamazione di mio figlio ogni volta che sul televisore appare il faccione ispido di Bud Spencer, con Diego a mimare il pugno in testa più famoso della storia del cinema. 
Il nostro cagnone di 40 chili l’ho “dovuto” chiamare Bud: perché è grande, grosso e dal cuore tenero, ma è meglio non farlo arrabbiare… 
Come dirgli che “zio Bud” è morto? Più facile fargli accettare l’idea che sia morto l’incredibile Hulk. Che poi, diciamola tutta, è così anche per noi venuti su a pane con l’olio e scazzottate infinite impresse nella memoria più della prima bicicletta. 
È una perdita maledettamente vicina, familiare, perché con lui se ne va una parte consistente della nostra infanzia e della nostra innocenza più pura. 
No, Diego, come canta Guccini, “gli eroi son tutti giovani e belli”. Zio Bud è immortale, il suo corpo immenso e la sua forza titanica sovrasteranno i secoli come una sequoia della California, i suoi occhi buoni come quelli di un Santo ci sorrideranno per sempre, rassicuranti e protettivi. 
È ancora presto, bambino mio, ogni cosa va capita a suo tempo. Per adesso buonanotte, dormi tranquillo. Se un “disauro” (dinosauro, n.d.r.) dovesse arrivare mentre dormi… “Pum! Pum!!!”: ci pensa zio Bud. [L.F]

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Fine corsa

Photo @SaraBonfiglio

Vorrei tornare bambina per potermi lanciare, ancora una volta, sulle tue gambe. Prendendo la rincorsa. Vivere in quel posto che era mio-solo-mio, per sempre. Non desiderare altro. Stretta tra le tue mani, come un trofeo da alzare o un’ostia da tenere alta. Essere la tua ragione di vita nella mezz’ora che precedeva i miei sogni fantastici, abitati dai folletti e dagli spiriti del bosco. Il premio alla fatica della tua giornata infinita, iniziata con il risveglio brusco dell’acqua gelida della fontana di fuori sul viso.
La dura vita dei campi. Tu e i muli, il silenzio dell’universo ritmato dal rumore degli zoccoli. Chissà se mi pensavi durante lo stillicidio di quel tempo lungo. Ma sì, certo che mi pensavi: non potevi che pensare a me, a noi, all’allegria chiassosa dei tuoi figli. Una ricompensa di riccioli e pagliaccetti, cotrareddi rannicchiati come cuccioli che si riscaldano con il loro stesso respiro. Con il terrore del buio e del pappu vecchiu.
Poi niente più. Di colpo. Senza neanche una parola. A cinque anni mi ritrovai mamma di Pinuccio, più piccolo di me, ma come me incapace di comprendere il perché di quel muro altissimo. Abituati al West che si spalancava al di là della porta della nostra casetta di tavole e lamiere, ci ritrovammo in una prigione di cemento affollata di bambini, smarriti tra le stanze infinite dell’orfanotrofio.
Galleggiavamo come piccoli astronauti, fuori dal tempo e dallo spazio. Giorni sempre uguali. Le facce ostili delle suore, facili al rimprovero. E poi quella mia tonaca larga, scomodissima per il gioco dell’elastico. Il mio preferito: salta dentro i due elastici, apri e chiudi, salta di lato, ruota e pesta l’elastico, incrocia… Movimenti che prima riuscivo ad eseguire a occhi chiusi mi risultavano ora impossibili.
Piangevo e non potevo, per via di Pinuccio. Dovevo rassicurarlo, fargli capire che presto saremmo andati via da quel posto triste. I nostri genitori non avevano colpa. Non avevano avuto altra scelta, l’avevano fatto per farci stare meglio. L’avevano fatto per noi.
I ricordi si incatenano agli odori, ai colori, a una folata di vento: déjà-vu improvvisi e inquietanti, come il freddo di quella mattina nelle ossa che ogni tanto ritorna, pungente. Le suore mi avevano fatto indossare il vestito buono, blu e bianco. Non sarei andata a scuola, ma non capivo cosa stesse succedendo. Nel parlatorio mi attendeva mio zio, la barba lunga e la faccia di chi non dorme da giorni. Non disse una parola. Uscendo dall’istituto il gelo dell’inverno mi ferì gli occhi, che cominciarono a lacrimare mentre attorno a me ogni cosa aveva sembianze indefinite. Cominciai a mettere a fuoco nell’istante in cui udì il pianto di mia madre, dal cortile popolato di silenzi. Il mio gigante dormiva al centro della stanza, in giacca e cravatta come prima di un matrimonio, quando rientrava con le tasche gonfie di pasta con il sugo e di cotolette.
La stessa giacca dell’ultima volta che era venuto a trovarci. Io e Pinuccio eravamo nel cortile, la madre superiora si avvicinò tenendo le mani dietro la schiena. Poi le allungò verso di noi: «cucù!». Due pacchi di biscotti! Per noi! Quindi alzò lo sguardo verso la terrazza, dove c’era nostro padre. Da quanto tempo ci stava osservando? Alto, bellissimo, sorrideva e ci faceva “ciao” con le cinque dita. Impazzita dalla gioia cominciai a correre verso la porta che dava sul cortile interno. Sentivo il cuore sbattere contro il petto, sempre più forte, quasi che volesse prendere il volo verso quella mano. Una suora mi bloccò sull’uscio: «non puoi». Non potevo andare da mio padre. Non potevo aggrapparmi alle sue ginocchia. Io, sua figlia. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Chi mi avrebbe protetta, d’ora in avanti? Crescevo come quei gattini spauriti, lesti ad infilarsi nel primo buco al minimo rumore. Non ero capace di difendermi dalle insidie di un mondo che non conoscevo. Ero una straniera, osservata con la curiosità che si riserva agli animali del circo, commiserata per la mia condizione di “parcheggiata” presso l’orfanotrofio.
Un tempo che finì dopo l’esame di terza media, quando feci ritorno a casa. Avevo quattordici anni e nessuna esperienza fuori da quella campana di vetro. L’ingenuità mi rendeva facile preda, proprio ora che il mio corpo cominciava ad attirare gli sguardi avidi dei ragazzi. Come potevo resistere alle attenzioni di chi mi faceva sentire importante, io che non ero mai stata niente per nessuno?
Dissi di sì al primo che mi aveva avvicinato e fu la mia rovina. Un inferno cominciato subito dopo il fidanzamento “ufficiale” con Gianni, secondo tradizione celebrato in un giorno di festa comandata. Scegliemmo il Santo patrono, la messa nella chiesa piena di gente che ci circondava per farci gli auguri, le nostre mani intrecciate in fondo al corteo della processione, la cena con i parenti.
Una felicità troppo bella per essere vera era capitata proprio a me. Infatti, non era vera. Durò fino al primo ceffone: «non ti permettere di contraddirmi». Divenni presto una ragazza muta, reclusa in casa. Mai un’uscita per un cinema, le vetrine dei negozi, un gelato. Niente di ciò che era normale per qualsiasi altra ragazza. Volevo scappare da quella vita che frantumava i miei sogni di felicità, ma ormai ero in trappola. Il disonore non poteva e non doveva entrare nella nostra casa. Il matrimonio avrebbe migliorato le cose: così mi fu assicurato. L’arrivo di figli, poi, avrebbe salvato tutto.
Si sbagliavano. Ogni volta che prendevo un pacco di pasta o il pane a cridenza mi sentivo morire. Il mio nome segnato sulla libretta e accanto la lista della vergogna. Lui non lavorava, né si impegnava a cercarselo uno straccio di lavoro. Sua mamma, santa donna, a fine mese cercava di tappare qualche buco. La sua pensione ci permetteva di sopravvivere, ché vivere era impossibile. Lo sanno i miei piedi, che per due anni hanno calzato lo stesso paio di ciabatte, estate e inverno.
Purtroppo, lo sapeva anche Mino, quella volta che mi offrì un passaggio per tornare a casa. Accadde in una delle mie poche uscite dal paese, per una visita specialistica. Mi trovavo alla fermata dell’autobus del ritorno, quando udì una voce: «Maria, lo vuoi un passaggio? Così risparmi tempo e soldi». Mino era simpatico, spiritoso, la battuta sempre pronta. In meno di un’ora avevo riso più di quanto non mi fosse capitato in tutta la mia vita. I venticinque anni di età che ci separavano mi trasmettevano sicurezza. Non avevo mai smesso di cercare mio padre e avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me, che mi proteggesse. Come Mino, quando mi raccolse sotto il diluvio dopo l’ennesima lite con Gianni: la guancia calda, viola, segnata dalla violenza dei suoi schiaffi. Mi fece salire sulla macchina e mi asciugò le lacrime con la mano, mi accarezzò con una dolcezza a me sconosciuta.
Mi abbandonai a lui completamente, lo amai con la disperazione di chi sa di avere imboccato un vicolo senza uscita, che avrebbe portato alla gogna pubblica. Ero l’amante di un uomo sposato che poteva essere mio padre. Mino era riuscito a squarciare il velo del mio dolore, sentivo la mia anima rischiarata da una nuova luce. Forse era felicità, o forse illusione. Comunque mi bastava. Che la nostra fosse una storia impossibile contava poco: importava che finalmente vivevo.
Scoprii tardi la meschinità del suo magnificare l’impresa di portarsi a letto una coetanea di sua figlia. I nostri incontri erano prodezze da raccontare; io, lo strumento della sua vanità. E poi, si sa, “cu cunta menti a giunta”: in poco tempo diventai la sgualdrina di mezzo paese, una stupida che chiunque sarebbe stato in grado di scoparsi.
Dovevo fuggire, non voltarmi mai più indietro. Levarmi di dosso sguardi che erano sentenze. Strapparli dalla mia pelle. Puntare gli occhi di chi incrociavo senza provare vergogna. Salvare la mia bimba, l’unica nota positiva nel tragico spartito del mio matrimonio, dalla condanna senza appello di essere figlia di una puttana. Scappai di notte, la mia piccola stretta al grembo su quel treno che non voleva saperne di fermarsi. Mi attendeva la vita che ho voluto e che ho in qualche modo deciso. Anni come attimi, che inseguo a ritroso mentre svaniscono insieme a volti e parole. Sfumati in questo epilogo disincantato che sa di nostalgia delle tue carezze leggere sulle mie guance, ora che la corsa sta per finire.

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Buon viaggio

Ho riflettuto a lungo prima di pubblicare una fotografia “carpita” nell’attesa dell’autobus che ha riportato a Sant’Eufemia la comitiva dell’Agape, a Roma per partecipare al Giubileo degli ammalati e delle persone disabili. Ho vinto la mia perplessità iniziale pensando che è cosa giusta utilizzare l’immagine per richiamare l’attenzione sul messaggio che esprime. E così, mentre il pullman scendeva verso Sud, tra il vociare allegro dei viaggiatori e le canzoni della radio, di getto ho scritto il commento per la foto che ho postato su Facebook.

Si rischia sempre di spettacolarizzare storie che invece vanno trattate con molta delicatezza, cercando di rispettare la dignità umana. Pubblico la fotografia, scattata senza che me ne accorgessi, perché l’uomo con il quale sto conversando non è riconoscibile.
La sua lezione di vita merita di essere condivisa. Di origine siciliana, vive non sa più da quanto tempo a Roma. Mi racconta che ogni giorno fa un paio d’ore di elemosina, quanto basta per racimolare i dieci euro circa che gli sono sufficienti per vivere: mangiare, permettersi un caffè, comprare qualche ricambio (camicie da un euro come quella che indossa).
Mi sta facendo vedere le scarpe acquistate proprio stamattina a Porta Portese: «sono buone, di pelle; durano a lungo». Vive su questa panchina di giorno, mentre di notte è tutto più complicato. Non ci sono molti posti dove potere dormire, un problema soprattutto d’inverno. Nelle stazioni non si può più, anche se a qualche clochard viene consentito: «più che altro per fare vedere di essere tolleranti». È anche pericoloso, bisogna stare attenti a non essere aggrediti.
Mi dice che i poveri non vanno toccati e lo fa senza rabbia, né paura. Non si deve, sottolinea, perché fare del male ai poveri è un delitto che nessun Dio potrà mai perdonare.
Gli chiedo se ha scelto questa vita o se è accaduto il contrario. Mi risponde che non è semplice capire dove finiscono le scelte degli uomini e dove inizia lo zampino del destino. Spesso le scelte di vita iniziano per caso. Il superfluo al quale viviamo avvinghiati come l’edera è frutto di un modello culturale che subiamo e che ci impone di rincorrere una felicità effimera. Un inganno colossale. Mentre invece dovremmo sforzarci di vivere con lo spirito del viaggiatore, concentrato sulla strada da percorrere e sull’umanità da incontrare lungo il cammino, per quanto durerà.
Forse non a caso ci siamo salutati con una stretta di mano, augurandoci reciprocamente “buon viaggio”.
(12 giugno 2016)

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Dieci anni fa

Dieci anni a guardarli da qua sono un soffio. Una lunga apnea, un respiro trattenuto e poi rilasciato: ed è già oggi. Oggi una telefonata che non ti aspetti. Oggi le voci di dentro che mettono ordine nel caos di incredulità, dolore e fretta: «molla tutto e parti». Oggi un viaggio in macchina senza soste, all’arrivo gli occhi cisposi per quei 1600 chilometri percorsi d’un fiato, in trance, muti. Oggi i ricordi affastellati che assumono una coerenza luminosa. Che parlano di vita, non di morte. Di quella vita che nelle case del Sud è saga familiare, ovunque ci sia stato qualcuno che abbia voluto riscattare la storia dei propri cari.
Raccontano i sogni di chi ha scelto la rivoluzione andando via, nella valigia la speranza di un futuro migliore, per sé e per i propri figli. Storia di partenze e di incontri, storia di destini puntuali all’appuntamento della vita, quello che soltanto conta. Storia che ha i riccioli biondi di una figlia di Francia diventata più italiana degli italiani. Riccioli biondi e capelli lisci neri sulla testa dei figli e poi dei nipoti, il profumo dell’amore che non conosce confini, meticcio e sublime.
Resta il rimpianto per le tante cose che ancora andavano fatte e per le parole non dette, certo. I crateri che l’assenza (“più acuta presenza”) scava nell’anima, a distanza di anni. Le domande rimaste senza risposta sul perché della vita e della morte.
Domande di ieri, domande di oggi, in un presente eterno fatto di vuoti da riempire con il ricordo, con la felicità dei ricordi.
La festa del ritorno in una casa piccola, se non fosse stato per quella storia di partenze. Se non fosse stato per le onde infinite dell’oceano sfumate sulla battigia di un continente lontano, una distanza che trasforma l’abbraccio in un nodo indissolubile: «quello che è mio è tuo».
Il mare di ogni estate a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle. Spruzzi e tuffi, gol e parate. Quanto mare abbiamo visto insieme? Dov’è finito, oggi, tutto quel mare?
Vuoti da colmare con una carezza ai fiori che la primavera fa sbocciare nel giardino eletto a buen retiro, ascoltando le canzoni che già canticchiarono giovani in chiodo sulle motorette, sorridendo per l’equilibrio precario di fotografie spericolate. Vecchi miti vissuti con la leggerezza di chi sa che tutto è possibile, nella stagione in cui tutto ancora era possibile.

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Noi che tiravamo pallonate

Campi che non finivano mai, larghi fino al confine della strada, lunghi fino alla sipala intricata di spine, dove riprendere il pallone che vi si era cacciato dentro diventava impresa da genio guastatore. Da pagare al prezzo dei pezzetti di stoffa strappati e impigliati tra i rovi, delle grancinate e delle ’rdicate che sembravano appiccare il fuoco alla pelle.
Era il calcetto pionieristico giocato nelle piazze e nelle strade, nelle periferie abbandonate, ovunque si potessero piazzare a terra due bottiglie o due mattoni per farne i pali della porta. La traversa come ipotesi, collocata a un’altezza indefinita: 10-15 centimetri sopra le dita stirate del portiere, calcolo approssimativo del salto che un ragazzino poteva compiere balzando dal suolo. Una linea orizzontale immaginaria che talora si materializzava nella riga tracciata con la vernice (ma anche con un paio di gessetti recuperati a scuola) sulle saracinesche o sul muro. Circostanza che comunque non impediva di stabilire senza eccessive contestazioni – e senza l’ausilio della moviola in campo – se fosse gol o meno, anche nelle situazioni di più difficile interpretazione. Graffiti di primavere lontane che su qualche parete resistono, tenaci come i tackle affondati nonostante il cemento, le ginocchia ’mprascate di sangue.
Un calcio da artisti di strada che odorava di libertà e di fantasia, che non viveva prigioniero degli schemi e delle divise delle scuole di calcio per bambini. Che considerava naturali la camicia e finanche i mocassini. Che a casa, a sera, riportava appiccicati sul viso sudore e terra.
Bastava essere in due: uno contro uno, trasposizione calcistica degli antichi duelli d’onore. In tre, il terzo diventava una sorta di arbitro dalle cui parate dipendeva l’esito della sfida. Ma in tre si poteva anche optare per la “modalità allenamento”: passaggi e tiri contro quello che fungeva da portiere fino a quando non riusciva a respingere una conclusione. Due contro due, con “portiere volante”. Due contro due, più il portiere fisso. Tre contro tre. E così via. Varianti pratiche e flessibili che consentivano il massimo dell’aggregazione possibile. In proposito non esisteva alcuna regola, se non quella inconsapevole e riassumibile nel motto di don Italo Calabrò: “nessuno escluso, mai”.
Ogni rione di Sant’Eufemia ha luoghi della memoria fatti di pallonate e vetri rotti, maglie sdillabbrate dalle trattenute (i falli esistevano soltanto nei casi di tentato omicidio) e scarpe aperte nella punta, immagini sfuocate di partite senza fine: «vince chi arriva prima a cinque gol»; ma poi si prolungava a dieci, a venti, o fino a quando non imbruniva ed era ora di rientrare.
La “Pezzagrande” contava il numero maggiore di campi di gioco improvvisati. All’interno della pineta comunale, con al centro il cerchio di cemento rialzato, una porta tra due alberi non perfettamente allineati e l’altra vagheggiata tra due pietre sistemate ad alcuni metri di distanza dal punto in cui il terreno digradava verso gli orti. Nel “Giardinello” polveroso, scenario piratesco di scorribande a caccia di ciliegie, ma anche di fughe precipitose, inseguiti dal cane aizzato contro i ragazzini dal massaro esausto ma minaccioso con la faccetta in pugno. E poi la mitica piazza Municipio con le sue “pietre di Catania”, al primo posto nella speciale classifica delle cause di distorsioni e fratture tra gli adolescenti. Piazza Matteotti, dove la scelta del pallone dipendeva dalle restrizioni vigenti: dal Tango al Super Santos, dal Super Tele al pallone di spugna, dalla pallina di tennis a quella di spugna, fino al prodigio della lattina di bibita schiacciata. Ma si giocava anche nel catino dell’ex pescheria, nelle strade aperte al traffico e in quelle chiuse, con buona pace per la squadra cui toccava correre in salita.
D’altronde, quando in palio c’era la supremazia rionale, il campo sportivo diventava teatro delle sfide campali tra selezioni di undici giocatori. Ed era come disputare un mondiale.

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Venuto da un freddo lontano

Photo @SaraBonfiglio

Se penso alla mia infanzia, ne avverto subito il freddo. Assoluto. Non le folate del vento in inverno, picchiettate di gelo sulla pelle e gli occhi che faticano a restare aperti. Fastidi tutto sommato accettabili, tanto sai bene che dopo ci penserà il calore di un qualche caminetto a ritemprarti, o la buona sorte di una tazza di cioccolata calda. Densa, non la roba liquida bollente che servono in certi bar. Bisogna prestare attenzione e mescolare con cura il cacao sul fuoco, aggiungendo poco a poco il latte. Piano piano. Mica è una pizza, che l’inforni e quando è pronta la tiri fuori.
Il freddo dell’abbandono si incunea nelle ossa e le lavora come un tarlo. Per sempre. Anche se poi le fiammate di un amore sovrumano tempereranno l’anima e mitigheranno il dolore. Anche quando il senso di solitudine trova il conforto della favola di una famiglia che ti accoglie e ti proclama imperatore. Il sole attorno al quale tutti ruotano, premurosi.
I miei primi otto anni sono tramontana mulinante brandelli di vita, che il tempo tenta di sospingere oltre il confine della memoria. Eppure ritornano, come onde che risalendo mi travolgono. Eccomi di nuovo accovacciato con la schiena attaccata al muro, le ginocchia strette tra le braccia esili. Le lacrime e a farmi compagnia un lento dondolare, avanti e indietro. Per ore e giorni infiniti. Fino a quel pomeriggio di passi svelti nel corridoio, l’arrivo di un uomo e di una donna accompagnati dall’interprete, il loro parlare a bassa voce, fatto di frasi pronunciate in un idioma per me incomprensibile: «Guarda quanto sono belli e tristi. Come si fa a scegliere? Come si fa a salvarne uno e a condannarne venti?».
Li vidi scegliere singhiozzando. Scegliere me, dentro la mia felpa troppo grande, le dita timorose che spuntavano fuori dalle maniche. Scegliere me, che non capivo e che correvo come un matto. Me che ancora un po’ matto mi credete, voi che mai avete assaggiato il brodino insapore di un orfanotrofio e vi chiedete perché oggi tolgo il filo di grasso dai bordi del prosciutto crudo affettato.
Non ero mai salito su di una macchina e ora avevo un sedile tutto mio, una specie di divano sul quale stare seduto, sdraiato, in piedi con le mani e il viso incollati al finestrino per osservare il mondo di fuori. Per guardare gli alberi e le case che correvano veloci, la neve alta sui marciapiedi, il respiro fumante delle persone intabarrate. Un viaggio di tremila chilometri verso sud, a ogni stazione la temperatura più mite e cioccolatini, patatine, caramelle, merendine. Ci parlavamo con gli occhi e per la prima volta in vita mia non avevo paura. Mi addormentai sul ventre accogliente di una sconosciuta: mia madre. Era ebbra di gioia, dopo anni di tentativi vani. Felice, ma tesa. Sempre meno, però, di quando il giudice dovette pronunciarsi sull’adozione dopo il periodo di affidamento preadottivo, gli incontri con l’assistente sociale e le sue domande per me. Io neanche immaginavo l’esistenza di un amore così forte: cosa avrei potuto rispondere di grave, per giustificare la sua incredibile ansia?
Non ho mai fatto i conti con quel pezzo di vita mancante, una mutilazione che sento violenta. Mi mancano i giochi che non ho fatto, i banchi che non ho scarabocchiato, le storie dei vecchi che non ho ascoltato. Le strade che non ho vissuto. Sono rimasto indietro e cerco aiuto, ma nessuno può restituirmi ciò che non ho mai posseduto. Il mio passato è una gabbia vuota, contro le sue sbarre ha trovato sfogo la rabbia di uno che, in fondo, è stato per tutti soltanto uno straniero. Che non ha mai capito i doppi sensi e che dietro ogni battuta spiritosa ha intuito l’offesa dello schiaffo, l’umiliazione dello sputo. Che ha sofferto per i sorrisini e per il darsi di gomito complice dei suoi compagni di scuola. Preferivo restare a casa, a interpretare il ruolo del protagonista nella fiaba che mi era stata cucita addosso.
L’ho capito molti anni dopo che troppo amore può asfissiare. Dopo troppe partite perse e davanti a guerre che non ero attrezzato a combattere, io che non avevo mai dovuto lottare per ottenere ciò che volevo. E così mi perdo nella mia vita bastarda, un piede piantato in una storia che a malapena ricordo, l’altro bloccato dalla confusione di un presente che non mi appartiene.

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Addio 2015, benvenuto 2016

A guardarli dalla coda, tutti gli anni volano in un soffio. Il tempo di metabolizzare la fine delle festività natalizie e arriva Carnevale, poi Pasqua, quindi esplode l’estate: da lì in avanti è una rapida discesa fino a dicembre. Una lunga emozione circolare per ritornare, apparentemente, al punto di partenza. Con i consueti buoni propositi: anno nuovo vita nuova, col nuovo anno si cambia registro, dal primo gennaio spazio solo alle cose che mi fanno stare bene, da domani non mi fregate più.
Come se si potesse davvero programmare tutto. Come se la vita non sia un mistero continuo, affascinante proprio perché sorpresa inaspettata e non stanca pellicola che svolge fotogrammi prestabiliti. Come se non sia impossibile conoscerla senza viverla.
Ogni evento che ha una sua conclusione è ammantato dal velo della nostalgia, per il sol fatto che finisce. Vale anche per le stagioni della vita, per gli anni che si susseguono cancellando fatti e volti.
Restano il rammarico di ciò che poteva essere fatto ed è stato accantonato o rimandato, la consapevolezza di non essere sempre stati all’altezza dei propri sogni, la prosaica constatazione che spesso le cose non vanno come vorremmo e bisogna pure farsene una ragione.
Io non lo so se posso dirmi soddisfatto del mio 2015. Ogni valutazione ha parametri soggettivi che variano da persona a persona. Fino a quando avrò un piatto caldo e un tetto, ad esempio, per me sarà sempre festa. Il resto è contorno.
Mi importano gli incontri che riesco ad avere lungo la strada polverosa ed esaltante della vita. E pazienza se lungo quella stessa strada qualche compagno di viaggio, nel corso dell’anno che oggi volge al termine, ha prenotato la fermata ed è sceso o è stato invitato a scendere. È la vita, bellezza, e non ci possiamo fare niente: nel conto bisogna mettere anche le lacerazioni.
Ci pensa la strada a fare la selezione, quella strada da masticare passo dopo passo: con la tenacia del fabbro che percuote l’incudine del proprio destino, con l’andatura regolare del maratoneta sull’asfalto infuocato.
Per bussola, la propria coscienza.

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Silenzi

Questo è il colore che preferisco per i tuoi capelli. Miele. Mi piace la versione in cui non sono troppo lunghi, le punte leggermente piegate dal collo verso l’alto, a incorniciare gli occhi cangianti e le labbra cremisi. Proprio come in questa fotografia. Trent’anni fa, ma sembra ieri.
Me lo chiedevi spesso se desideravo che tu cambiassi taglio. Se ti volevo con l’acconciatura corta, lunga, riccia, liscia, bionda o addirittura rossa. Che poi andavi bene comunque, purché ti aggrappassi a me stringendo tra i pugni un pezzo di camicia qua, guarda, proprio dietro ai fianchi.
Ti tengo nel cassetto, ogni tanto ti prendo e ti sistemo oltre il piatto, al centro della tavola: spengo la televisione e ti parlo. Mi salvo così dalle idiozie che ci costringono a vedere e dal campionario di cose inutili che vorrebbero farci comprare. Un mondo dorato, per soli belli e vincenti, da conquistare sgomitando per accaparrarsi un posticino lì davanti, ad ogni costo, pur di superare l’anonimato di maschere erranti.
Ho ancora molte cose da dirti, soffocate da qualche parte. Ne abbiamo avute sempre, anche se sono stato parsimonioso quando non avrei dovuto. E sì che a te sarebbe bastata una parola, una soltanto, per non andare via. Ma non ho saputo tirarla fuori, non sono nemmeno riuscito a capire il senso della tua attesa. Una richiesta di perdono, credo. Ma a chi? Non a te. Non ne avevi bisogno per credermi capace di cancellare il marchio di dolore impresso sulla tua anima.
All’amore, sì. Chiedere scusa all’amore, questo avrei dovuto fare. Perdono per averlo sottovalutato, per avere a ogni ritorno trovato una scusa nuova, buona per giustificare la mia sordità. Come se in amore tutto sia dovuto, conseguente. Come se l’amore non richieda la dedizione del giardiniere. «Non è il momento, ora»: un momento trasformato in anni e infine cristallizzato qui, nella solitudine di parole stanche e mulinate nel vuoto della stanza. Chiedere perdono per avere assecondato l’inganno di un ombrello che non possedevo, per averti costretta a bere il sale delle lacrime misto alla pioggia gelida di febbraio.
L’amore fa compagnia alla tua fotografia, rinchiuso nel cassetto dal giorno in cui mi dicesti che ogni volta che mi guardavi era una pugnalata al cuore, da quando mi urlasti che avevi paura ad amarmi. Resiste, avvinghiato alla bellezza tinta d’arcobaleno dei tuoi vent’anni folli e allegri. Così, per sempre.
Tu aspettavi le mie parole, io il tuo perdono muto. Senza la complicazione di troppe frasi rimuginate per giorni e mesi. Una storia sospesa tra sogno e morte. Tra la speranza del volo e l’incubo dell’abisso. Eppure dovevamo saperlo che la felicità è una luce intermittente, fortissima. Quando arriva, bisogna tenere gli occhi aperti e gustarsela tutta, perché poi non si sa quando ripasserà. Ne abbiamo avuto paura. Come durante un’eclissi di sole, eravamo terrorizzati dall’idea di ferirci gli occhi. Non siamo riusciti a capire che la felicità è essa stessa cecità, perché non ha bisogno di trovare conferme guardandosi attorno.
Forse avremmo rifatto tutto, anche a ripensarci ora, prostrati dal peso delle sconfitte. Chissà, forse è stato giusto così.
Pensieri fuori tempo, per sentirsi migliori senza molta convinzione. Se ragione c’è, è di chi crede che esiste sempre un prezzo da pagare, presto o tardi. Non basta non pensarci più di tanto, illudersi che il fluire della vita sia esso stesso vita o che si possa scappare all’infinito, lo sguardo fisso in avanti.
Uno spettacolo che rivivo al rallentatore fotogramma dopo fotogramma, fallimento dopo fallimento. A passo lento, sulle spalle ogni giorno più stanche la condanna dei miei venticinque anni eterni, impietriti sul molo dell’addio.
Ti guardo. Ora che esserci nemmeno potresti, sei qua. Nello spazio segreto dei miei silenzi, dove in fondo sei sempre vissuta.

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Padre e figlio

Sarebbe naturale dire che ho il più bel padre del mondo. Il migliore dei papà possibili. Il più forte, il più buono, il più simpatico. Sarebbe ovvio perché è sempre così per tutti i figli del pianeta, nella stragrande maggioranza dei casi. I figli so’ piezz’ ’e core, ma altrettanto lo sono i genitori. L’amore smussa gli angoli, rende comprensivi e facili al perdono, spinge alla giustificazione di difetti più o meno grandi. Le cose stanno così per lungo tempo. I fanciulli osservano la vita dal bosco incognito e popolato da esseri dai quali occorre essere protetti. Nella realtà quasi fiabesca dell’infanzia tocca ai papà sconfiggere gli orchi. Il loro abbraccio scaccia via la paura: “lo dico a mio papà”, la frase magica alla quale ricorrere per avere la certezza di nessun capello torto.
Non sono più un bambino, da troppi anni ormai. Guardo il mondo da un punto di vista che, pur poggiando su basi solide, muta giorno dopo giorno, spinto dall’interesse per il gioco delle prospettive e dalla deliberata volontà di scindere i sentimenti dai fatti e dalle persone. Uno sforzo di obiettività che richiede rigore, altrimenti non se ne esce. Altrimenti tutto diventa complicato e ogni azione, ogni considerazione rischiano di apparire poco credibili.
Mio padre, che oggi compie settant’anni, potrebbe pertanto anche non essere il migliore dei padri possibili. O meglio, potrebbe non esserlo più. Ora che io non sono più un ragazzino, intendo dire. Ora che la riflessione oggettiva può avere gioco sull’affetto filiale. Ora che questo signore dai capelli bianchi ha smarrito lungo il suo cammino di uomo le qualità riconosciute istintivamente da ogni bimbo al proprio genitore: l’infallibilità di un pontefice e l’invincibilità dei supereroi Marvel. Ora che le distanze si sono accorciate e il rapporto è tra due uomini che un tempo sono stati padre e figlio. Ora che con tenerezza scopro in lui le insorgenti fragilità procurate dall’inesorabile incedere degli anni. Ora che so che fuori dalle pareti tiepide del nido si vince e si perde, e non ci sono padri che tengano. Ora che scorgo incastrate tra le sue rughe vittorie e sconfitte.
Ma se anche non fosse il migliore dei padri possibili, ecco: non avrebbe importanza. Non ha più importanza. Importa che è mio padre, che è stato mio papà, che ha condotto la sua vita e quella della nostra famiglia fino a qua. Fino a me davanti a questo monitor e alle mie dita che picchiettano inquiete sulla tastiera.
Importano le sue parole, che raccolgo e che ogni tanto spargo sui racconti come semi sulla terra arata. Con un gesto ampio del braccio, plateale. Il racconto diventa strumento di resistenza alla morte, perché in ogni storia c’è il miracolo della vita, della fatica della vita. Cicatrici e circo. La vita vissuta in prima persona, quella sentita sulla propria pelle anche se era sorte altrui, quella inseguita, quella abbandonata e quella trovata da qualche parte. Lontano. Una storia che mi precede, ma che pulsa viva nelle mie vene, che porto stampata sulla carta d’identità, nome di terra sperduta per gente in cerca di una possibilità. Una storia che sa del freddo delle baracche, di fame e di orgoglio. Di coraggio. Di partenze e di ritorni.
Fotogrammi veloci sui quali sfilano il sorriso dei santi e lo sguardo dei banditi, a conficcare come spilli la carne viva. Ogni ricordo un affondo.

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La finestra senza cielo

Lo sguardo rivolto alla finestra si scontra con il grigio del cemento, oltre il vetro. Un tempo infinito senza vedere l’azzurro del cielo o uno scampolo di vita. Senza sapere niente del freddo di fuori. Con quella voce che rimbomba in testa: «Se è ematoma, svuotiamo. Altrimenti bisognerà tagliare la gamba». E la risposta glaciale di chi ha soltanto sete di verità: «Quel che sarà, purché si esca da questo stato di incertezza». Non è la spavalderia di un ragazzo convinto di poter masticare il mondo. È la ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi per ricominciare. Anche con una gamba, purché finisca l’odissea di cliniche, ospedali e oncologi da Sud a Nord. Ecografia-tac-risonanza magnetica; ecografia-tac-risonanza magnetica: «Se non è un ematoma, è un tumore». L’odore di anice del mezzo di contrasto, il colpo di sonno dentro al macchinario della risonanza magnetica, i fogli dell’anamnesi da riempire ogni volta. Le storie ascoltate da compagni di stanza transitori. Infine Gianni, alto e milanista, beccato dal primario con una sigaretta da divorare in pochi, rapidi, profondissimi tiri. Trenta maledetti secondi.
Il camice e la cuffia, il gelo della sala operatoria e la voce di Lucio Battisti in sottofondo, che si allontana sempre di più… Buio. Risveglio. La mano che corre subito sulla gamba, a tastare. C’è. Chissà, forse potrò giocare a calcio tra qualche mese: lo chiederò al primario, appena passa.
Caldo, caldo, un incendio divampato dentro al corpo e la sensazione di un naufragio, il centro del materasso un buco nero che risucchia e fa inabissare. Caduta libera, l’interruttore si spegne. Buio. Di nuovo buio e di nuovo sala operatoria. Al ritorno Gianni non c’è. Ci sono le sue ciabatte, resteranno a lungo ai piedi del letto. L’intimazione alla moglie è di non toccarle, deve tornare lui a riprenderle. Anche Gianni raddoppia, ma per lui niente tripletta: «Ok, tu hai tre interventi in anestesia totale in dieci giorni, ma io ho due operazioni e una settimana di terapia intensiva», il bilancio finale di giornate furibonde, addolcite dal sorriso dell’infermiere: «Ma voi due non ne volete sapere di andare via da quest’ospedale?».
Non credo ai miracoli, né alla fatalità o alle pagine già scritte. Credo nella preparazione, nella tempestività e nei nervi saldi di chi ha capito che era emofilia. Credo in sette sacche di sangue passate nelle vene, come il carburante dalla pompa del distributore al serbatoio della macchina. Credo nella simpatia del chirurgo prima dell’ultimo incontro in sala operatoria: «Non fare scherzi, perché io non ti apro più». Credo in quattro lunghissimi mesi di endovene a base di fattore VIII sintetico, le braccia doloranti e l’eredità di un’insofferenza istintiva per le attese nei corridoi degli ospedali.
Credo negli occhi lucidi dell’abbraccio finale con Gianni, che resta un mese in più e si aggiudica il premio ideale di “arredo umano” della clinica Humanitas di Rozzano.
E credo agli attimi in cui avrei voluto fermare il tempo, davanti alla grande vetrata che apre sul giardino e fa baciare dal sole il mio viso scolorito, mentre sul prato i passeri saltellano spensierati.

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