Della felicità

Quanto è transitoria la felicità? Dalla sua impermanenza deriva il manifestarsi a lampi, con bagliori accecanti che nascondono il paesaggio circostante. Quando siamo felici, esistiamo soltanto noi e lei: chiunque o qualsiasi cosa essa sia. Di tutto il resto si percepiscono i contorni imprecisati, quinte sfocate del teatro che calpestiamo.
Sono attimi da respirare a pieni polmoni come dalla cima della montagna; da gustare come nespole succulente. Quando il bagliore si spegne, i ricordi del passato trapuntano di nostalgia la tela buia.
Per questa sua natura effimera, la felicità è la collezione di attimi del clown di Böll, il carpe diem di Orazio, il viaggiare leggero di de Saint-Exupery.
Ciascuno di noi insegue la propria felicità, che «sappiamo soltanto guardare, aspettare, cercare già fatta/ quasi fosse anagramma perfetto di facilità/ barando su un’unica lettera», fa notare Guccini mettendo in guardia su quanto essa sia complicata da raggiungere.
A volte non si è neanche in grado di riconoscerla, bombardati come siamo dal nulla fuorviante che ci opprime. Eppure pretendiamo di essere felici; addirittura rivendichiamo la felicità come un nostro diritto, alla maniera dei padri fondatori degli Stati Uniti che lo scolpirono nella Dichiarazione d’indipendenza. Un principio impegnativo, tanto suggestivo quanto illusorio. Buono per riempire cornici da appendere al muro.
Qualcuno ha affermato che di Federico Fellini sta al cinema come l’Ulisse di James Joyce sta alla letteratura. Il film premio Oscar nel 1964 racconta la crisi esistenziale e professionale del regista Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni. Nella celebre scena del colloquio tra Anselmi/Fellini e il Cardinale, la risposta dell’alto prelato al regista che espone il suo dramma («Eminenza, io non sono felice») è terrificante: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?».

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Non voltarti indietro

Al cardinale Richelieu viene attribuita l’affermazione “con due righe scritte da un uomo si può fare un processo al più innocente”. Cinque vittime del sistema giudiziario italiano sono i protagonisti del docufilm “Non voltarti indietro” (2016), diretto da Francesco Del Grosso e prodotto da errorigiudiziari.com, in associazione con Own Air: Daniela Candeloro, commercialista; Vittorio Raffaele Gallo, impiegato alle Poste; Fabrizio Bottaro, designer di moda; Antonio Lattanzi, assessore comunale; Lucia Fiumberti, dipendente di un ente pubblico. Cinque persone le cui vite vengono sconvolte dall’esperienza della giustizia ingiusta e del carcere; cinque vittime uguali ai circa 1000 innocenti che ogni anno, in Italia, finiscono in galera.
Il titolo del film richiama la raccomandazione scaramantica per la quale, una volta liberato, il detenuto non deve mai voltarsi indietro lungo il tragitto che dalla cella lo conduce all’esterno del carcere, se non vuole tornarci.
I cinque protagonisti raccontano i rispettivi calvari personali: l’arresto, il trasferimento in questura, l’ispezione corporale, l’ingresso in carcere. Cosa scatta nella testa di chi viene arrestato? Come ci si adatta a vivere in una realtà della quale non si sa niente? Cosa pensa un innocente mentre è in carcere?
La privazione della libertà è un’esperienza-limite, che lascia ferite profonde. Fino a quando non si attraversa l’ultima porta, si ha la speranza che possa essersi trattato di uno sbaglio al quale si porrà rimedio, magari nella stessa giornata. Ma non funziona così. Scene che erano state viste soltanto nei film diventano incredibilmente realtà: le foto segnaletiche, le impronte digitali e tutte le formalità burocratiche che precedono l’ingresso in carcere.
Trovarsi in galera da innocenti scatena diverse reazioni. La sensazione di impotenza per il muro contro il quale si ha l’impressione di sbattere; la rabbia per un sistema giudiziario che non funziona; la percezione che l’obiettivo dei giudici non sia cercare la verità, ma trovare un colpevole.
«Se la giustizia non portasse una benda sugli occhi, proverebbe orrore per i propri errori», avverte un aforisma del poeta spagnolo Manuel Neila. Eppure, occorre trovare la forza per reagire.
La vita – racconta una protagonista del docufilm – non è fatta soltanto di cose belle e di successo. Il percorso è spesso duro e imprevisto, ma “quello che conta è ciò che sei, non il posto in cui stai”. Ogni esperienza ha un lato positivo e, anche se “la ferita resta”, è necessario “fare in modo che non sanguini più”.

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Viaggi sulla Luna

Mio nonno lo considerò un sacrilegio: «Ora viene la fine del mondo. La Luna non si deve toccare. È là, per i fatti suoi… perché l’uomo va a violare la sua tranquillità?». Più o meno le stesse parole ascoltate da un’anziana signora a corollario della consueta riflessione sulle stagioni che non sono più quelle di un tempo, una piovosa mattina d’agosto di qualche anno fa: «Da quando sono andati sulla Luna, si sciasciaru tutti i cosi».
D’altronde, ad un livello più “letterario”, un anno e mezzo prima dello sbarco dell’uomo sulla Luna, in una lettera a Italo Calvino la scrittrice Anna Maria Ortese aveva manifestato la tristezza e il fastidio (“e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia”) che provava quando sentiva parlare di lanci spaziali e di conquiste dello spazio: si trattava di una violazione incomprensibile dello “straziante desiderio di riposo, di ordine, di beltà”. Opinione non condivisa da Calvino, il quale nella sua risposta sottolineava: «Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più».
E pazienza, quindi, se il 20 luglio 1969 l’uomo ne avrebbe profanato l’inviolabilità, a distanza di oltre quattrocento anni da Astolfo in cerca del senno perduto da Orlando, dopo il tradimento di Angelica. Un viaggio sul carro alato del profeta Elia, a differenza degli astronomi nel film muto Viaggio nella Luna, di Georges Méliès (1902), i quali compiono l’impresa a bordo di una navicella a forma di proiettile incredibilmente somigliante al modulo di comando dell’Apollo 11. Celeberrima la scena dell’allunaggio (diventata sigla del programma di RaiTre “Fuori Orario”), con il proiettile che, scagliato in orbita da un cannone, si conficca in un occhio della Luna abitata dai Seleniti.
Ad ogni modo, la Luna conserva intatto il suo fascino. “Silenziosa”, come ricorda il Poeta, là in alto continua a raccogliere i nostri travagliati pensieri e “forse” intende “questo viver terreno/ il patir nostro, il sospirar, che sia”.

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Zio Bud

No, no, e ancora no. Ero ancora in piena euforia per la vittoria della nazionale contro la Spagna, saltavo da un social all’altro per leggere cosa si diceva di questa impresa epica: Conte, certo, grandissimo; ma anche l’abnegazione di una squadra operaia che non si arrende mai. Insomma, una bella pagina di calcio dal valore extra sportivo: con la forza di volontà, con lo spirito di squadra, con la fatica si possono raggiungere risultati inaspettati. Ero tutto preso in queste considerazioni, leggevo, aprivo link, quando sul display del telefonino mi appare il suo faccione barbuto: «È morto Bud Spencer».
Da lì in avanti, tutti a commentare la notizia, a esprimere dispiacere autentico per un attore popolare, amato soprattutto dai bambini. Un gigante buono entrato nell’immaginario collettivo come Totò o Fantozzi, autentiche maschere del cinema italiano, o i protagonisti dei fumetti Marvel. Un compagno di giochi che ha donato al suo pubblico allegria e spensieratezza. Burbero, ma a suo modo affettuoso: chi non avrebbe voluto essere H7-25, il bambino venuto dallo spazio salvato da Bud Spencer in “Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre”?
I pugni di Bud Spencer e Terence Hill non fanno male, al massimo “addormentano” chi ne viene colpito. I proiettili delle pistole di Bambino e Trinità non uccidono e non provocano spargimenti di sangue. I loro film sono un ossimoro, ci sono le botte ma non c’è violenza. Anzi, i loro cazzotti fanno ridere. Con quel nome da birra americana e la sua mimica facciale era impossibile non volere bene a Bud, il mito di intere generazioni di ragazzini. Per questo un velo di malinconia ha offuscato, ieri sera, i nostri pensieri. Con la morte di Bud Spencer ognuno di noi perde un pezzo della propria infanzia. Perde la leggerezza di anni che già sapevamo non sarebbero più ritornati. Però è sempre un duro colpo ritrovarsi di fronte alla cruda realtà. Perde il sorriso innocente di un tempo in cui non c’era bisogno della comicità volgare di oggi per provocare al cinema la risata dello spettatore.
Come accade quando ci lascia una persona cara, ci si ritrova a consolarsi tra intimi. Io e mio fratello Luis avremo visto insieme centinaia di volte i film di Bud Spencer e Terence Hill. Avrei voluto chiamarlo ieri sera, magari rifacendo il coro dei pompieri di “Altrimenti ci arrabbiamo” (bo-bo-bo-bo-bo-bo-bo). Ma erano passate le undici, era tardi… Be’: a mezzanotte mi ha chiamato lui! Gli ho raccomandato di non dire niente al piccolo Diego, che stravede per “zio Bud”. Gli ho però chiesto di aiutarmi a tornare bambino, almeno per un attimo, raccontando per il blog le sue impressioni. [D.F.]

A volte dispiaceri “di secondo piano” scompaginano e declassano priorità urgenti e pesanti, a tal punto che puoi trovarti costretto a tenere il segreto. Un pensiero fumoso, che diventa lampante nelle parole di un bimbo di tre anni e mezzo: «Papà, papà: zio Bud! Pum! Pum!». Questa l’esclamazione di mio figlio ogni volta che sul televisore appare il faccione ispido di Bud Spencer, con Diego a mimare il pugno in testa più famoso della storia del cinema. 
Il nostro cagnone di 40 chili l’ho “dovuto” chiamare Bud: perché è grande, grosso e dal cuore tenero, ma è meglio non farlo arrabbiare… 
Come dirgli che “zio Bud” è morto? Più facile fargli accettare l’idea che sia morto l’incredibile Hulk. Che poi, diciamola tutta, è così anche per noi venuti su a pane con l’olio e scazzottate infinite impresse nella memoria più della prima bicicletta. 
È una perdita maledettamente vicina, familiare, perché con lui se ne va una parte consistente della nostra infanzia e della nostra innocenza più pura. 
No, Diego, come canta Guccini, “gli eroi son tutti giovani e belli”. Zio Bud è immortale, il suo corpo immenso e la sua forza titanica sovrasteranno i secoli come una sequoia della California, i suoi occhi buoni come quelli di un Santo ci sorrideranno per sempre, rassicuranti e protettivi. 
È ancora presto, bambino mio, ogni cosa va capita a suo tempo. Per adesso buonanotte, dormi tranquillo. Se un “disauro” (dinosauro, n.d.r.) dovesse arrivare mentre dormi… “Pum! Pum!!!”: ci pensa zio Bud. [L.F]

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Anime nere

“Che ci fanno queste anime/ davanti alla chiesa/ questa gente divisa/ questa storia sospesa”: “macchie di lutto” per Fabrizio De André e Ivano Fossati in Disamistade. “Anime nere”, nel libro di Gioacchino Criaco dal quale Francesco Munzi ha tratto un film potente, spiazzante per chi temeva la semplificazione del ricorso alle categorie del bene e del male. Come se la questione fosse solo identificare il male senza riuscire a raccontarlo. Non per tentare di spiegarlo, magari ricorrendo a giustificazioni storiche o sociologiche, con il rischio di offrire – anche soltanto involontariamente – un assist all’alimentazione del suo fascino perverso. Bensì per gridare: questo siamo, questo esiste. Nonostante noi, vittime e carnefici; nonostante voi, che ci impiegate un attimo a capire tutto rifugiandovi in comodissimi stereotipi. Con tutta l’umanità possibile, senza retorica e cercando di proteggere quel che resta dell’uomo risucchiato dal gorgo della violenza, condannato a un destino quasi ineluttabile. Fatto di sangue che chiama sangue. Ma forse ancora capace, se non di redimersi, di ribellarsi ai codici della morte pur provocando ancora morte, superbo e drammatico paradosso che rimanda ai temi universali della tragedia greca.
Anime nere è una fotografia, racconta uno spaccato della realtà calabrese per come essa è, senza la presunzione di insegnare nulla: “non è mio compito lanciare messaggi”, ha precisato Munzi nel dibattito seguito alla prima del “Lumiere” di Reggio Calabria. Come d’altronde aveva già fatto Criaco nelle pagine del romanzo, epopea criminale che innalza a tragedia universale il dramma familiare di una famiglia di pastori diventata nel giro di una generazione protagonista mondiale del traffico internazionale della droga e del riciclaggio di denaro sporco. Ascesa inarrestabile, comune a molte famiglie di ’ndrangheta, che non può che concludersi dietro le sbarre o sottoterra. Subito dopo i titolo di coda, la commozione di Criaco è diventata così l’emozione degli spettatori, un tutt’uno con il “collettivo urlo liberatorio” richiamato nel suo intervento dallo scrittore per definire l’esito della pellicola.
Lutto dopo lutto, le contraddizioni delle “anime nere” si sciolgono nel sangue di un finale sorprendente, che realizza sul piano della realtà il falò con cui Luciano (uno straordinario Fabrizio Ferracane) brucia metaforicamente il passato, il presente e il futuro della propria famiglia. Per i figli dei pastori diventati criminali non c’è salvezza. Non per Luciano, che era rimasto quando probabilmente avrebbe fatto meglio ad andare. Né per Luigi (Marco Leonardi), che passa indifferentemente dal night di mille euro a notte allo scuoiamento di un capretto gonfiato soffiando dentro una penna Bic. Tantomeno per Rocco (Peppino Mazzotta), che non sa resistere al richiamo del sangue e incarna l’immortalità di “regole” arcaiche tramandate nel dialetto africoto dei dialoghi sottotitolati in lingua italiana, respirate insieme alla stessa aria dei paesaggi dolorosamente stupendi dell’Aspromonte, trasformati da Munzi in set cinematografico.

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Robin Williams in quattro foto e un finale

Mi divertiva quella stretta di mano particolare, come una forbice che si incastrava con un’altra forbice. Ci siamo a lungo salutati così tra ragazzini, ripetendo il tormentone che rese famoso Robin Williams (“nano-nano”) nella fortunata serie televisiva Mork & Mindy. Williams interpretava Mork, un alieno giunto dal pianeta Ork sulla terra a bordo di un’astronave a forma di uovo (“mi chiamo Mork, su un uovo vengo da Ork”, l’attacco della sigla), in un ruolo che gli consentì di fare conoscere al grande pubblico la sua straordinaria vena comica.

Una comicità travolgente: lievemente strampalata di Adrian Cronauer in Good morning, Vietnam, film che esaltò la capacità di improvvisazione di Williams;

tenera e commovente in Patch Adams: “ridere non è soltanto contagioso, ma è anche la migliore medicina”.

Fu però serissimo il ruolo che lo consegnò alla storia del cinema, quello dell’anticonformista professore John Keating in L’attimo fuggente. La pellicola che stuzzicando la mia curiosità mi avvicinò a Walt Whitman, del quale immediatamente acquistai la raccolta di poesie Foglie d’erba.

Quel film cambiò la vita di generazioni di adolescenti: tutti avevamo il diritto (e il dovere) di rendere straordinaria la nostra vita. O almeno, bisognava tentarci: anche salendo coi piedi sul banco, se necessario.

Le prime notizie riferiscono di un probabile suicidio. L’ennesima triste conferma che dentro ogni artista c’è un uomo, dentro ogni uomo un mistero.

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Il Sud è niente

“Se di una cosa non ne parli, non esiste”. Non sempre è così, ci sono assenze ingombranti e silenzi assordanti. D’altronde, per il Poeta “assenza” è “più acuta presenza”: lo sa bene Fabio Mollo, regista reggino all’esordio con Il Sud è niente, romanzo di formazione dell’introversa Grazia, interpretata dalla bravissima Miriam Karlkvist alla sua prima apparizione sul grande schermo.

L’assenza è quella di Pietro (Giorgio Musumeci), che nella versione familiare e ufficiale muore in Germania, dove si trasferisce per lavoro quando la sorella ha 12 anni.
Grazia, che “incontra” il fratello sotto l’acqua del mare dello Stretto, si convince che Pietro è vivo. Di sicuro, sente che il padre – Cristiano, pescivendolo rassegnato cui presta il volto Vinicio Marchioni, noto al grande pubblico come “il freddo” della serie televisiva “Romanzo criminale” – non le ha raccontato la verità.
“Con la verità ti puoi pulire il culo”, a Reggio Calabria. Perché la verità spesso non la puoi raccontare. Neanche se ti hanno ammazzato un figlio. Neanche se ti prendono la casa e ti costringono a chiudere l’attività commerciale, facendo ricorso ai noti ed efficaci metodi del sabotaggio sistematico. Neanche se ti “suggeriscono” di andare via, scappare lontano, al Nord.

Grazia attraversa la città in rabbiosa e ricercata solitudine, appena violata dal mormorio di dialoghi smozzicati, essenziali come il cast stesso del film: oltre a Grazia e Cristiano, Carmelo (Andrea Bellisario), figlio di giostrai che nell’incontro/scontro con Grazia offre una via d’uscita all’incomprensione; la nonna (Alessandra Costanzo), che racchiude nell’espressione hiatu meu l’essenza millenaria delle famiglie del Sud; Bianca (Valentina Lodovini), presenza per la verità quasi impalpabile, sulla quale forse si poteva osare di più.

Un silenzio carico di sguardi, pause, gesti, pronto a esplodere nella ribellione di Grazia, che indica la via stretta e accidentata del riscatto nello squarcio del velo di una incomunicabilità che è anche generazionale. Se speranza c’è (e il finale uno spiraglio esilissimo lo offre), ha volto di donna e urla capaci di spezzare le catene dell’omertà.

Scena più bella: il ballo sfrenato e liberatorio di Carmelo e Grazia nella pista dell’autoscontro.

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Addio all’uomo con l’armonica

Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 10 settembre Franco De Gemini, probabilmente il più celebre suonatore di armonica a bocca italiano, scomparso il 20 luglio.

Per tutti “Harmonica Man”, il suo strumento musicale ha risuonato in colonne sonore passate alla storia del cinema italiano: Per un pugno di dollari; Il buono, il brutto, il cattivo; Lo chiamavano Trinità, per citare le più note.

Raggiunse la consacrazione con le tre note che Ennio Morricone gli fece eseguire in C’era una volta il West di Sergio Leone (1968), film in cui De Gemini prestò il fiato al misterioso meticcio “Armonica”, interpretato da un grandissimo Charles Bronson.

L’intervista proposta nel video è tratta dalla rubrica del Tg3 “Persone. Ritratti di donne e uomini”, di Rita Cavallo e Ettore Cianchi, a cura di Massimo Angius, Filippo Nanni e Luciano Riotta.

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Un nuovo genere cinematografico: la fantastoria all’italiana

E ora? Ora che il tribunale di Milano ha stabilito che la tesi della doppia bomba a piazza Fontana è una panzana alla quale non occorre dare alcun credito, come la mettiamo?
Ma come può essersi imbarcato in un’operazione così azzardata e discutibile il regista che ha diretto I cento passi? Il film di Marco Tullio Giordana sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura non era ancora uscito nelle sale che già era volato qualche fischio di disapprovazione. E non in nome dell’italica usanza a criticare un film “senza prima di vederlo”, bensì per la bocciatura che in precedenza aveva ricevuto il libro dal quale Romanzo di una strage è liberamente tratto: Il segreto di piazza Fontana, scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli.

Sulla vicenda di piazza Fontana, come su quella, più complessiva, della strategia della tensione, delle stragi di Stato e degli anni di piombo, la verità storica presenta pochissimi aloni di mistero. Già nel 1974 (“Cos’è un golpe?”, articolo pubblicato sul Corriere della Sera e l’anno successivo inserito tra gli Scritti corsari proprio con il titolo utilizzato da Giordana per il suo film), Pier Paolo Pasolini aveva fatto vibrare alto il suo “io so”, nonostante l’impotenza dell’intellettuale “che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”, ma che in definitiva deve ammettere: “io so, ma non ho le prove”.
È sulla verità giudiziaria che lo Stato ha puntualmente fallito, nel solco di una tradizione avviata con la nascita stessa della democrazia in Italia, un filo rosso che lega Portella della Ginestra ai misteri dei nostri giorni.
Responsabili della strage del 12 dicembre 1969 (il giorno della “perdita dell’innocenza”) sono i neofascisti di Ordine Nuovo, i servizi segreti deviati e apparati dello Stato che intendevano alzare la tensione per provocare una svolta autoritaria nel Paese. C’è poco da aggiungere a quanto, oltre venti anni fa, Sergio Zavoli aveva fatto emergere nella trasmissione Rai La notte della Repubblica. Il ruolo di Franco Freda e Giovanni Ventura, il gruppo dei fascisti padovani, i servizi segreti e i depistaggi delle indagini, che determinarono la condanna di esponenti apicali del SID.

La tesi della doppia bomba finisce così nella spazzatura, accompagnata da un giudizio lapidario: “assoluta inverosimiglianza”. D’altronde, una teoria che prevedeva la presenza di due bombe (una dimostrativa, che doveva esplodere a banca chiusa; l’altra “vera”, piazzata invece proprio per fare morti) ha qualcosa di incredibile, illogico, per nulla convincente già d’istinto.
Difficilmente sarà fatta giustizia per 17 vittime, 88 feriti e centinaia di parenti che ancora convivono con quel ricordo doloroso. All’amarezza e alla rabbia per il trattamento disinvolto e leggero riservato alla verità, si aggiunge anche il senso di beffa per un film che ha avuto un clamoroso battage pubblicitario, che è stato distribuito a tappeto nelle sale di tutta Italia e che approderà sugli schermi televisivi. Una seria riflessione su cinema ed etica dovrebbe chiarire fin dove ci si può spingere quando si ricostruisce “liberamente” una vicenda storica che è una ferita ancora aperta. Alla luce delle parole della procura milanese, sarebbe forse il caso di trasmettere il film con il sottopancia “la tesi della doppia bomba è stata giudicata inverosimile”.

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Gli echi di un’odissea?

Echoes per me è la versione del Live at Pompeii (1972), concerto registrato dai Pink Floyd nell’anfiteatro degli scavi archeologici vuoto, presenti solo i tecnici e la band. Il primo piano delle mani di Richard Wrigth sulle tastiere, David Gilmour che, a torso nudo, tira fuori dalla sua Fender Stratocaster sonorità e suggestioni incredibili. Per associazione, è anche Roger Waters che picchia il gong in A saucerful of secrets, mentre il sole sta tramontando alle sue spalle, o Nick Mason che perde la bacchetta durante l’esecuzione di One of these days e riesce a recuperarne un’altra senza perdere neanche un colpo.
Ho scovato su youtube, scoprendo poi di essere arrivato buon ultimo, una versione adattata al finale di 2001: Odissea nello spazio, film-capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nelle sale nel 1968, tre anni prima della pubblicazione di Meddle, l’album che contiene i 23 e passa minuti della suite forse più nota dei Pink Floyd. Il regista americano aveva chiesto di potere utilizzare come colonna sonora canzoni tratte dai loro primi due album (The piper at the gates of down, 1967; A saucerful of secrets, 1968), ma la band rifiutò: “l’errore più grande che abbiamo mai commesso”, avrebbe in seguito dichiarato Waters.
Echoes e 2001 presentano parecchie sincronie, rilevate da tempo, ma Waters ha sempre sostenuto la tesi della loro casualità. Eppure, in alcune parti, il film sembra combaciare perfettamente con la canzone, suscitando angoscia e spiazzamento. Non so trovare altre parole per descrivere l’effetto dell’associazione tra la musica dei Pink Floyd e il cinema di Kubrick.

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