Ho seguito con interesse il “caso Pittelli”, il politico e avvocato catanzarese arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, un reato per natura fumoso e “ancor più cervellotico se non accompagnato da nessun reato specifico”. Mandato ai domiciliari e poi riarrestato per avere inviato una lettera al ministro Mara Carfagna, a Pittelli sono stati infine concessi nuovamente i domiciliari, dopo uno sciopero della fame e la campagna di sensibilizzazione in suo favore che ha portato alla raccolta di oltre 1.500 firme.
Proprio perché distantissimo dalla collocazione politica dell’ex senatore, accolgo con favore un provvedimento che in qualche modo ristabilisce un minimo di garanzie costituzionali e che, per una volta, fa prevalere le ragioni dell’umanità sulla barbarie giustizialista.
Tuttavia, vorrei tentare di allargare il campo, poiché la vicenda di Pittelli è il paradigma di un modus operandi diffuso ancorché consentito dalla legge soprattutto quando l’accusa riguarda la partecipazione organica alle attività di un sodalizio criminale. I grandi numeri delle operazioni di polizia sono essenzialmente assicurati dalla presenza, tra le maglie della rete a strascico, di un gran numero di soggetti ai quali non viene contestato nessun reato specifico, se non l’astratta partecipazione ad una associazione mafiosa. Si può finire in carcere con un’accusa pesantissima soltanto perché non si ha avuto il coraggio di rinunciare ad una cena con qualche parente “chiacchierato”, il quale, tra una pietanza e l’altra, ha tirato fuori argomenti considerati dalla Procura di interesse investigativo. L’assioma è: «Davanti a te si è parlato di mafia. Si è parlato di mafia perché tu potevi ascoltare determinati discorsi. Potevi farlo perché tu stesso sei mafioso». Un’enormità.
D’altronde, l’obiezione più diffusa è: «Sì, ma il contesto». Il contesto può valere anni e anni di galera, anche se si è arrivati a settanta o ottanta anni incensurati e in vita propria si ha avuto al massimo una multa per eccesso di velocità. Le indagini vengono generalmente condotte da uffici lontani anche fisicamente dal territorio, da soggetti che non tengono conto delle dinamiche sociali, spesso familiari, di un piccolo centro dell’Aspromonte (tanto per fare un esempio non casuale). Stare al tavolo o prendere un caffè con un “presunto” mafioso non necessariamente implica la condivisione o la partecipazione a progetti criminali. Condotta che certamente può essere condannata sul piano etico, ma il piano etico non può coincidere con quello penale.
Altro aspetto apparentemente secondario, sono i costi di una difesa: periti tecnici e medici, avvocati che presentino istanze su istanze. Sono migliaia gli anonimi Pittelli sepolti nelle carceri italiane, anziani ammalati che non possono permettersi una difesa adeguata, né alcuna grancassa mediatica sull’ingiustizia che stanno subendo. Il carcere è più carcere per chi non ha una solida condizione economica e, in molti casi, basterebbe considerare questo assurdo paradosso per comprendere la reale dimensione di un fenomeno dalle mille sfaccettature.
Forse davvero è giunto il momento di rivedere la legislazione emergenziale del 416 bis, a partire dalla mostruosità giuridica della carcerazione preventiva. Il che non significa fare un favore alla criminalità organizzata, bensì trovare una soluzione che non mieta vittime innocenti e non comporti allo Stato uno spreco di risorse nella conduzione delle indagini e nell’esborso di ingenti somme a risarcimento delle tante, troppe, ingiuste detenzioni. Con la tecnologia moderna è possibile controllare la vita di chiunque ventiquattr’ore su ventiquattro: per cui, tranne che nei rari casi di effettiva e conclamata pericolosità sociale, la carcerazione preventiva è soltanto un’afflizione del tutto gratuita.
Capisco che il contesto (questo sì) è fortemente condizionato dalla pressione mediatica esercitata dalla stragrande maggioranza dell’informazione, totalmente appiattita sulle ipotesi investigative delle Procure. Ma dovrebbe trattarsi, appunto, di ipotesi. Non di sentenze, che non spettano ai pubblici ministeri. E neanche ai giornalisti.
Brindo
La terra delle ingiuste detenzioni
Ci sono i dati e c’è l’interpretazione dei freddi numeri. Ma la politica, è notorio, su certi temi preferisce fare lo struzzo. Il dato è quello delle ingiuste detenzioni nell’anno 2020 diffuso dal Sole24Ore, che riporta il contenuto della “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto al ristoro per ingiusta detenzione” redatta dal Dipartimento per gli Affari di Giustizia: 1108 procedimenti e 46 milioni di euro liquidati, quasi 27 milioni di risarcimenti soltanto nelle Corti d’appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Capolista di questa speciale classifica dei risarcimenti, la Corte d’Appello di Reggio con circa 8 milioni liquidati, seguita da quella di Catanzaro (4 milioni e mezzo). Insomma, il Sud la fa da padrona. Si dirà: certo, c’è la mafia. Più reati uguale più arresti, ma anche maggiore possibilità di errori e di vittime collaterali della sacrosanta lotta al crimine.
E quindi? I numeri di matricola schiacciati dai panzer delle procure meritano un moto di indignazione e la ribalta politica, o basta un risarcimento? Scusate e tanti saluti.
Ancora: c’è una ragione se nonostante i rastrellamenti a tappeto di interi paesi la criminalità è viva e vegeta? Sì, c’è. Un motivo semplicissimo: la repressione da sola non è sufficiente e, anzi, gli errori provocati dalla pesca a strascico (o dal napalm: fate voi) fanno soltanto aumentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nel suo pregevole La ’ndrangheta come alibi (Città del sole edizioni, 2019), Ilario Ammendolia con coraggio sostiene che la ’ndrangheta è stato ed è l’alibi di classi dirigenti incapaci, funzionale alla giustificazione del disimpegno dello Stato in Calabria. Stato che dà segnali di vita con interventi repressivi, intercettazioni telefoniche di massa, operazioni mediatiche che coinvolgono migliaia di innocenti, provocano assurdi scioglimenti di consigli comunali e interdittive antimafia contro le imprese. È il paradosso di uno Stato che si manifesta con la sospensione dello Stato di diritto e con il ricorso a una legislazione emergenziale.
Nihil sub sole novum: è storia antica, che non ha neanche il pregio dell’originalità. Già la legge Pica (1863), da applicare alle province del Sud dichiarate in “stato di brigantaggio”, non risolse il problema nonostante le migliaia di arresti, fucilazioni sommarie, condanne ai lavori forzati e al domicilio coatto. Un abuso denunciato subito (3 maggio 1863) dal deputato pugliese Giuseppe Massari, uno dei pochi a comprendere la complessità del fenomeno: «Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria».
Se l’emergenza non viene mai superata, bisognerebbe almeno porsi qualche dubbio sull’efficacia di uno strumento che evidentemente non va alle radici della questione, principalmente perché mischia fenomeno sociale e reati: da qui gli arresti di massa. Occorrerebbe prendere atto che la criminalità è effetto del sottosviluppo, non causa. Un ribaltamento di prospettiva che metterebbe sul banco degli imputati l’intera classe politica italiana, colpevole (non soltanto per incapacità) della mancanza di lavoro, infrastrutture e servizi in una vasta area del Paese.
Servirebbe l’antimafia dei fatti, che si traduce in politiche di sviluppo. E meno antimafia di parata, quella dei vuoti codici etici, degli ipocriti registri della “cittadinanza consapevole” e delle targhe “Qui la mafia non entra”. Togliete alla criminalità il brodo di coltura della disoccupazione e appassirà da sola.
*Pubblicato su CalabriaPost.net, 30 giugno 2021
Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video
IL DUBBIO, 26 GIUGNO 2021
Gentile direttore,
è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari.
Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”.
La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care.
Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento.
Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari.
Punto e a capo
Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo.
Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza.
Non riesco a togliermi dalla testa le immagini di me che scendo per primo le scale della questura di Reggio Calabria il 25 febbraio 2020, giorno dell’operazione “Eyphemos”. Né le sentenze emesse da televisioni, giornali e quotidiani online, locali e nazionali. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: «Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza».
Non riesco a scacciare via la sensazione d’impotenza suscitata dalla constatazione dell’irrilevanza degli strumenti difensivi: rigetto della comparazione fonica di parte; inutilità delle argomentazioni a discolpa presentate, per me coerenti e logiche sin dal principio di questa assurda storia; mortificazione del diritto alla difesa, fino a quando la procura non ha deciso di affidare al RIS di Messina la perizia che a settembre, 205 giorni dopo l’arresto, ha finalmente portato alla mia scarcerazione poiché, essendo stato accertato lo scambio di persona, non sussistevano più i “gravi indizi di colpevolezza”.
Comprendo l’errore, ma non accetto l’accanimento. Questa amara sensazione ha accompagnato ogni giorno della mia detenzione, martellante come il sostantivo utilizzato dal pubblico ministero e avallato dal tribunale della libertà nel rigettare il ricorso: secondo l’accusa, contro di me risultava un “coacervo” di indizi. Ma io non dovevo giustificarmi per comportamenti o atti considerati penalmente rilevanti da chi ha condotto l’indagine. C’era una questione preliminare, sostanziale, decisiva che andava affrontata subito perché concerneva l’errata attribuzione alla mia persona dell’identità del soggetto intercettato. E invece ci sono voluti sette mesi per accertare quello che ho sostenuto sin dall’interrogatorio di garanzia, due giorni dopo l’ingresso in carcere, senza la necessità di ascoltare la registrazione: «Non sono io. Fate una perizia fonica, perché quella voce non può essere la mia». Sette mesi che ho trascorso in prigione: non a piede libero, né agli arresti domiciliari. Troppi, ritengo, per uno Stato di diritto appena appena decente.
Non ho fiducia nella giustizia italiana. Credo invece nella verità, una forza tenace come la goccia che scava la roccia.
Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane.
Scarto il buono dal brutto: la presa di coscienza di questioni mai considerate nella loro complessa rilevanza, diventate ora ragione di studio e per le quali credo valga la pena spendersi. Da libero cittadino e da osservatore purtroppo privilegiato.
Don Silvio Mesiti: Il tunnel della speranza
Don Silvio Misiti è uno scandalo vivente. Scandalo nell’accezione biblica di “inciampo”, un ostacolo che costringe a soffermarsi e a riflettere. Le sue parole e la sua vita da prete di frontiera sono un monumento di fede e di umanità. «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi», una delle sette opere di misericordia corporale, che mette l’uomo in rapporto con la solitudine, il rimorso, la vergogna, la disperazione di chi vive recluso; un invito ad affondare mani e piedi nelle discariche sociali (sovr)affollate, perlopiù, dagli scarti della collettività.
Le alte mura sormontate dal reticolato sono la frontiera tra due mondi che non si parlano. Don Silvio, cappellano del carcere di Palmi da quasi mezzo secolo, è appunto lo scandalo di un ostinato dialogo tra sordi: di qua i buoni, di là i cattivi. La pietra d’inciampo che obbliga la società e la politica a non volgere lo sguardo altrove.
Il diario che ha deciso di dare alle stampe si riferisce ad un periodo storico difficile e convulso, ma è emblematico del suo modus operandi all’interno della realtà carceraria composta da detenuti, polizia penitenziaria, operatori, figure istituzionali. Il tunnel della speranza. Il Supercarcere di Palmi negli anni di piombo (Laruffa Editore, 2021) è una testimonianza preziosa sotto il profilo storiografico, perché propone un punto di vista inedito sulle biografie dei protagonisti della lotta armata reclusi nella struttura speciale voluta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1979. Una sorta di “università”, ricordata dalla memorialistica relativa a quel periodo, che tra cortili e brandine produsse documenti e risoluzioni, ma portò anche a spaccature premonitrici di molteplici fallimenti politici e personali. Il nucleo centrale del libro, costituito dalle pagine annotate dall’autore tra il 10 marzo 1981 e il 31 dicembre 1982, racconta “in presa diretta” la reazione dei terroristi al cospetto degli eventi significativi di quel cruciale snodo storico: il sequestro dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, l’attentato a Giovanni Paolo II, il sequestro e l’assassinio di Roberto Peci.
Ma nel carcere non vivevano soltanto i detenuti politici. La testimonianza di don Silvio è più ampia ed arriva ad abbracciare i giorni nostri con considerazioni attente sul mutamento, nel tempo, della composizione socio-culturale della popolazione carceraria, con proposte e contributi che affrontano i temi al centro del dibattito attuale sulla giustizia: presunzione d’innocenza, rispetto della dignità umana, reinserimento sociale.
Il tunnel della speranza è un libro crudo, senza filtri, che punta i riflettori su drammi noti soltanto a chi entra in un carcere: suicidi, atti di autolesionismo, tentativi di ribellione e violenze. Il carcere è un’esperienza estrema, ma nella bufera la parola di don Silvio diventa la fune alla quale aggrapparsi. Per non farsi trascinare nel gorgo, per non perdersi. Parola che conforta anche quando si tratta di un veloce saluto ai detenuti nel cortile del passeggio: «Ancora qua siete?».
La vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti, cantava John Lennon in “Beautiful boy”. Vita fatta di incontri inimmaginabili e proprio per questo belli. Forse per questo non casuali.
Ora d’aria
Un anno fa
La sera del 26 febbraio dell’anno scorso, avuta la disponibilità di un quadernone e di una penna, scrissi di getto la prima di tante pagine.
Carcere di Palmi, I piano – Camerotto 1
26 febbraio 2020
Ora so che nessuno può sentirsi immune. Puoi ritrovarti dentro uno sporco gioco al quale non hai mai giocato e che hai sempre rifiutato. È tutto così assurdo. Mai avrei pensato che potesse toccare a me. Eppure. Mi sembra di stare dentro un film, o dentro un incubo. Ma non mi sveglio.
Qua dentro il tempo non esiste. Ripercorro con la mente le scene di ieri, come se fossero capitate ad un altro, come se io fossi uno spettatore.
Mi vedo svegliato nel cuore della notte, la mia tranquillità violentata per sempre. La perquisizione e poi di corsa fino alla questura. Le formalità di rito. La schedatura, come un delinquente, e poi la gogna delle manette ai polsi all’uscita, da tenere nascoste. Ma sempre gogna è, a favore degli obiettivi dei fotografi.
Infine, l’entrata in carcere. L’attesa in un buco di un metro per due: senza finestre, le sbarre davanti a me. La perquisizione personale, l’umiliazione di dovermi spogliare completamente davanti a due sconosciuti che mi fanno accovacciare: una manovra che consente di accertare che il detenuto non nasconda qualcosa nell’ano. Non ho mai subito un’umiliazione più forte.
Leggo e rileggo le pagine che mi riguardano: vorrei poter parlare subito con qualcuno. Non solo non ho fatto ciò che mi si contesta. La questione vera è che quello non sono io. D’altronde, non potrei essere io e non vedo l’ora di poterlo dimostrare.
Ma il tempo dietro le sbarre scorre con ritmi che sono solo suoi: chissà quando potrò farlo. Qua sono soltanto un numero di matricola, che è già stato inventariato. Per tutto il personale del carcere sono già colpevole. Lo capisco da come mi guardano e da come mi si rivolgono.
Devo essere forte, ma il pensiero dei miei cari mi sovrasta, mi annienta. Sono sotto il peso di un dominio assoluto e mi sento inerme, umiliato, atterrito. So che ne uscirò pulito, ma so anche che porterò per sempre sulla mia pelle le stimmate dell’ignominia.
Dalla parte dei relitti
Mi sono iscritto a “Nessuno tocchi Caino – Spes contra Spem”, l’associazione fondata nel 1993 dal Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito che ha come obiettivo principale “l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena” e che “realizza progetti nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, particolarmente inteso come sviluppo di istituzioni e regole democratiche, affermazione e promozione dei diritti umani”.
“Nessuno tocchi Caino” non vuol dire stare dalla parte dei delinquenti, bensì dalla parte della giustizia e dell’umanità, in un’epoca di imbarbarimento sociale, di chiavi della galera che si vorrebbero buttare, di detenuti per i quali l’unica prospettiva auspicabile, secondo la vulgata giustizialista e populista, dovrebbe essere quella di marcire in galera. Per questo NTC propugna l’abolizione dell’ergastolo, definito da Papa Francesco come una pena di morte “nascosta”.
“Spes contra spem”: sperare contro ogni speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. Sperare nella possibilità di un cambiamento e di una riconversione, attraverso la costituzione di laboratori nelle carceri, per realizzare il dettato costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Nei giorni scorsi ho letto un saggio di Stefano Natoli, giornalista, volontario nelle carceri milanesi e membro di NTC: “Dei relitti e delle pene. Giustizia, Giustizialismo, Giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione” (Rubbettino 2020; con prefazione di Giuliano Pisapia).
Un libro illuminante sulla questione carceraria, della quale l’opinione pubblica sa poco, a meno che qualche rivolta non attiri l’attenzione dei media. Non conosce niente del sovraffollamento, dei suicidi e dei tentativi di suicidio, dell’umiliante disumanità della detenzione, dei diritti negati. Non sa che sono chimere principi quali rieducazione, reinserimento, trattamento umano. Né sa che la Corte europea dei diritti dell’uomo in più occasioni ha condannato l’Italia per trattamenti “disumani e degradanti”.
I penitenziari (“il cimitero dei vivi”, secondo la definizione di Filippo Turati) sono discariche sociali frutto di una visione carcero-centrica che considera “giuste” la sofferenza e l’eliminazione dei diritti della persona umana. Anche per chi in carcere non dovrebbe starci (detenuti sottoposti a carcerazione preventiva, condannati ingiustamente): «Dal 1992 al 2019 – ricorda Natoli citando Annalisa Cuzzocrea – si sono registrati oltre 27.000 casi di persone che finiscono in galera da innocenti» (con un costo per lo Stato, in risarcimenti, di oltre 700 milioni di euro, circa 29 milioni di euro all’anno).
Il carcere non dovrebbe essere soltanto un luogo di espiazione e una giustizia vendicativa non è giustizia. Difendere Caino non per “fare il tifo” per l’assassino, ma per superare una concezione tribale della giustizia attraverso la difesa del valore dell’essere umano e della sua dignità, sempre.
Il servizio di Report sulle carceri italiane
La puntata di Report di ieri sera ha il merito di avere squarciato il velo dell’ipocrisia e dell’indifferenza sul tema della condizione delle carceri italiane. Vi consiglio di guardarla quest’ora di servizio giornalistico. Anche se non è tutto. Perché il carcere è repubblica a sé: molto poco di ciò che succede là dentro filtra all’esterno. Nessuno vede l’acqua marrone che sgorga da fetide docce comuni, né sente i miasmi della spazzatura sotto la finestra, assaltata da decine e decine di gabbiani stridenti. E se, ad esempio, per venti giorni presenti una domandina per potere telefonare a casa e non vieni autorizzato, devi stare zitto e subire. Mica c’è il protocollo che registra la domanda: il foglio può passare dalle tue mani al cestino della spazzatura; ed è come se non sia mai stata presentata. Non arrivano fuori dal carcere neanche le parole sghignazzate: «Hai lo stesso cognome di Padre Pio. Solo che lui faceva miracoli; mentre tu fai danni, altrimenti non saresti qua».
La questione carceraria è molto impopolare e di facile strumentalizzazione. Chi solleva il tema viene facilmente additato come “amico” dei criminali. Eppure il rispetto dei diritti umani altro non è che la difesa dello stato di diritto e della civiltà giuridica nata con l’illuminismo.
Il carcere è un luogo dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata. Che tu sia colpevole o innocente, non fa differenza: dopo averne varcato il cancello, non sei più nessuno. Sei soltanto un delinquente uguale a tutti gli altri. La tua vita precedente viene cancellata. Se non ce la fai a sopportare il peso dell’angoscia personale e la pressione psicologica del regime carcerario, puoi sempre imbottirti di psicofarmaci o impiccarti.
Le vorrei conoscere le statistiche sul consumo di psicofarmaci nelle carceri. Quelle sui suicidi tra le sbarre sono invece note: 56 nel 2020. E se lo Stato si è sbagliato, pazienza. Tutte le guerre registrano “vittime collaterali”: bombardi un deposito di munizioni e muoiono anche gli inquilini di qualche palazzo vicino. Con la giustizia accade la stessa cosa, tanto c’è il risarcimento per ingiusta detenzione. Come se la serenità mentale e fisica si possa davvero misurare in soldi. Per la cronaca, gli ultimi dati disponibili per il 2019 assegnano alla provincia di Reggio Calabria la spesa più alta per risarcimenti: quasi 10 milioni di euro per 120 casi accertati.
Nel 2020 ho capito tre cose. La prima: il carcere serve per nascondere sotto il tappeto la polvere del fallimento dello Stato, delle sue politiche scolastiche, educative ed occupazionali. La seconda: la funzione rieducativa della pena esiste soltanto sulla carta, all’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Piccolo paradosso: per i detenuti giudicabili va peggio che per i condannati in via definitiva. La terza: chi è colpevole, dopo avere scontato la pena probabilmente uscirà dal carcere ancora più delinquente; chi sconta una pena da innocente, di certo – se non comincerà a delinquere – vedrà nello Stato un nemico.