Morire di carcere

Se in Italia si registrassero 10,6 suicidi ogni 10.000 abitanti sarebbe un’emergenza? I giornali vi dedicherebbero approfondimenti, verrebbero scomodati sociologi e psicologi, la politica prenderebbe atto della condizione di disagio di una larga fetta di popolazione e del fallimento delle sue politiche sociali? Penso proprio di sì e sarebbe la cosa giusta da fare.
Ma in Italia i suicidi sono 0,67 ogni 10.000 abitanti: siamo tra i paesi europei ad indice basso; mentre è dentro le carceri che sono proprio 10,6 ogni 10.000 detenuti. Come sottolinea Antigone, “in carcere ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna”.
Con il suicidio nel carcere di Verona della ventisettenne Donatella (e chiamiamole per nome, che già sarebbe un bel passo in avanti distinguere le persone dai numeri), pochi giorni fa, sono ben 44 i suicidi registrati dall’inizio dell’anno: uno ogni cinque giorni. Un dato altissimo, ignorato da gran parte di un’opinione pubblica distratta o disinteressata. Chi se ne frega. Peggio per loro se hanno deciso di impiccarsi con le lenzuola, hanno inalato il gas delle bombolette dei fornellini da campeggio che si utilizzano per cucinare, hanno trangugiato un beverone di medicine. Avrebbero dovuto pensarci prima, delinquenti che non sono altro.
Io non ci riesco a non pensare a ciò che accade dentro le carceri, alle tante ingiustizie che vivo come coltellate sulla mia pelle. Forse è vero che, una volta che ci entri, con la testa resti là dentro per sempre. E se chiudo gli occhi, sento ancora nelle orecchie le urla dei detenuti e il rumore metallico e spaventoso della battitura in tutti i padiglioni la notte che un detenuto si tolse la vita a Santa Maria Capua Vetere, nel luglio del 2020. Una rabbia impotente che non poteva superare la recinzione del carcere. Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare, neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro la porta blindata. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio.
In Italia è stata abolita la pena di morte, ma morire di carcere equivale a mantenere in vigore questo barbaro castigo. Ai suicidi vanno infatti aggiunti i decessi di gente che là dentro non dovrebbe starci: anziani, malati di tumore, detenuti psichiatrici, tossicodipendenti, cardiopatici come l’ultima vittima, un settantaduenne morto d’infarto a Secondigliano la settimana scorsa.
Se ti affido qualcosa in custodia, hai l’obbligo di restituirmela integra. Dovrebbe valere anche per la custodia in carcere: io, Stato, affido in custodia a te, carcere, il detenuto. I detenuti dovrebbero uscire dalle strutture penitenziarie sulle proprie gambe, non dentro una cassa da morto. Di chi è la responsabilità se questo non avviene?
Nelle celle vivono detenuti che ancora non hanno subito neanche il primo grado di giudizio e molti altri non condannati definitivamente. Tra questi, migliaia di innocenti. Non tutti hanno la forza di resistere all’umiliazione e alla vergogna. Ci sono poi soggetti fragili, che andrebbero aiutati, ma il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (educatori) non permette un’assistenza adeguata. Infine vanno considerate le oggettive condizioni di calpestamento della dignità umana: mancanza d’acqua, caldo insopportabile, sospensione delle attività trattamentali nel periodo estivo, sadiche assurdità regolamentari. In carcere si è sempre soli, d’estate in misura maggiore. Eppure per molti basterebbe anche soltanto la concessione di qualche telefonata a casa in più per tirarsi su di morale.
C’è una questione di fondo che non si vuole vedere. Compito dello Stato è assicurare la sicurezza dei propri cittadini, impedire la reiterazione dei reati, favorire il reinserimento sociale del reo. Poiché la visione carcero-centrica dell’esecuzione penale ha fallito su tutti i fronti, sarebbe il caso di cambiare strategia e strumenti. Ma un dibattito del genere necessiterebbe di una classe politica coraggiosa e illuminata, capace di prenderne atto e di sfidare l’impopolarità senza piegarsi al giustizialismo imperante.

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Sale la temperatura nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua

Il Dubbio, 9 luglio 2022

L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura.
All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato.
Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali.
Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani.
Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura.
Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello.
Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché – giustamente – scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria.
In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione.
Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità.

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Quando il custode non custodisce

Stamattina l’acqua che scendeva dal rubinetto aveva un poco rassicurante colore marrone. Ho pensato: «Chissà se qualcuno ha già chiamato per segnalare il problema». Che al comune sia arrivata o meno una telefonata, l’inconveniente è durato poco tempo.
Ci sono posti, nella nostra civilissima Italia, dove le cose non funzionano così. L’acqua sgorga costantemente mista a terra, ma farlo presente alle autorità competenti è fatica sprecata. È il caso della casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Molti sono a conoscenza di questa vergogna e, qualche volta, la questione ha guadagnato spazio pure sui giornali. Senza tuttavia produrre alcuna iniziativa eclatante. Nell’indifferenza generale, i detenuti continuano a lavarsi con l’acqua sporca e a cucinare con l’acqua minerale. Da anni e chissà per quanti anni ancora.
Non è vero che il carcere non ci riguarda. Noi cittadini siamo lo Stato. E lo Stato ha il dovere di “custodire” chi finisce dietro le sbarre. Ciò comporta un alto grado di responsabilità, alla quale sfugge chi calpesta la dignità dei detenuti che gli vengono affidati, per un periodo più o meno lungo. Così come non lo adempie ogni volta che un detenuto si toglie la vita: 54 nel 2021, 61 nel 2020, 25 nei primi cinque mesi del 2022. Custodia, per definizione, è l’attività di sorvegliare, avere cura, assistere cose o persone.
Politici, avvocati e la cosiddetta “società civile” dovrebbero incatenarsi ai cancelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere e urlare “da qua non ce ne andiamo fino a quando, là dentro, dai rubinetti non scenderà acqua potabile e trasparente”.
Senza girarci intorno: quella struttura andrebbe chiusa perché non rispetta la dignità umana. Ma è un abbaiare alla luna, se non si riesce a dare voce a chi non ha voce: «Quello che non si sa – scrisse Enzo Tortora (del quale oggi ricorre il trentaquattresimo anniversario della morte) in una delle sue Lettere dal carcere – è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».

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Non solo Pittelli

Locandina del film “Detenuto in attesa di giudizio”

Ho seguito con interesse il “caso Pittelli”, il politico e avvocato catanzarese arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, un reato per natura fumoso e “ancor più cervellotico se non accompagnato da nessun reato specifico”. Mandato ai domiciliari e poi riarrestato per avere inviato una lettera al ministro Mara Carfagna, a Pittelli sono stati infine concessi nuovamente i domiciliari, dopo uno sciopero della fame e la campagna di sensibilizzazione in suo favore che ha portato alla raccolta di oltre 1.500 firme.
Proprio perché distantissimo dalla collocazione politica dell’ex senatore, accolgo con favore un provvedimento che in qualche modo ristabilisce un minimo di garanzie costituzionali e che, per una volta, fa prevalere le ragioni dell’umanità sulla barbarie giustizialista.
Tuttavia, vorrei tentare di allargare il campo, poiché la vicenda di Pittelli è il paradigma di un modus operandi diffuso ancorché consentito dalla legge soprattutto quando l’accusa riguarda la partecipazione organica alle attività di un sodalizio criminale. I grandi numeri delle operazioni di polizia sono essenzialmente assicurati dalla presenza, tra le maglie della rete a strascico, di un gran numero di soggetti ai quali non viene contestato nessun reato specifico, se non l’astratta partecipazione ad una associazione mafiosa. Si può finire in carcere con un’accusa pesantissima soltanto perché non si ha avuto il coraggio di rinunciare ad una cena con qualche parente “chiacchierato”, il quale, tra una pietanza e l’altra, ha tirato fuori argomenti considerati dalla Procura di interesse investigativo. L’assioma è: «Davanti a te si è parlato di mafia. Si è parlato di mafia perché tu potevi ascoltare determinati discorsi. Potevi farlo perché tu stesso sei mafioso». Un’enormità.
D’altronde, l’obiezione più diffusa è: «Sì, ma il contesto». Il contesto può valere anni e anni di galera, anche se si è arrivati a settanta o ottanta anni incensurati e in vita propria si ha avuto al massimo una multa per eccesso di velocità. Le indagini vengono generalmente condotte da uffici lontani anche fisicamente dal territorio, da soggetti che non tengono conto delle dinamiche sociali, spesso familiari, di un piccolo centro dell’Aspromonte (tanto per fare un esempio non casuale). Stare al tavolo o prendere un caffè con un “presunto” mafioso non necessariamente implica la condivisione o la partecipazione a progetti criminali. Condotta che certamente può essere condannata sul piano etico, ma il piano etico non può coincidere con quello penale.
Altro aspetto apparentemente secondario, sono i costi di una difesa: periti tecnici e medici, avvocati che presentino istanze su istanze. Sono migliaia gli anonimi Pittelli sepolti nelle carceri italiane, anziani ammalati che non possono permettersi una difesa adeguata, né alcuna grancassa mediatica sull’ingiustizia che stanno subendo. Il carcere è più carcere per chi non ha una solida condizione economica e, in molti casi, basterebbe considerare questo assurdo paradosso per comprendere la reale dimensione di un fenomeno dalle mille sfaccettature.
Forse davvero è giunto il momento di rivedere la legislazione emergenziale del 416 bis, a partire dalla mostruosità giuridica della carcerazione preventiva. Il che non significa fare un favore alla criminalità organizzata, bensì trovare una soluzione che non mieta vittime innocenti e non comporti allo Stato uno spreco di risorse nella conduzione delle indagini e nell’esborso di ingenti somme a risarcimento delle tante, troppe, ingiuste detenzioni. Con la tecnologia moderna è possibile controllare la vita di chiunque ventiquattr’ore su ventiquattro: per cui, tranne che nei rari casi di effettiva e conclamata pericolosità sociale, la carcerazione preventiva è soltanto un’afflizione del tutto gratuita.
Capisco che il contesto (questo sì) è fortemente condizionato dalla pressione mediatica esercitata dalla stragrande maggioranza dell’informazione, totalmente appiattita sulle ipotesi investigative delle Procure. Ma dovrebbe trattarsi, appunto, di ipotesi. Non di sentenze, che non spettano ai pubblici ministeri. E neanche ai giornalisti.

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Brindo

Brindo
a chi c’è senza esserci,
nell’aria
nella fiamma del camino
nel profumo del caffè.
Brindo
a chi non potrà brindare
a chi attenderà la mezzanotte
spalle sul materasso
gli occhi incollati al soffitto.
Brindo
alla luce spenta
ai televisori muti
all’acqua nei bicchieri di plastica
al sonno che salva.

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La terra delle ingiuste detenzioni

Ci sono i dati e c’è l’interpretazione dei freddi numeri. Ma la politica, è notorio, su certi temi preferisce fare lo struzzo. Il dato è quello delle ingiuste detenzioni nell’anno 2020 diffuso dal Sole24Ore, che riporta il contenuto della “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto al ristoro per ingiusta detenzione” redatta dal Dipartimento per gli Affari di Giustizia: 1108 procedimenti e 46 milioni di euro liquidati, quasi 27 milioni di risarcimenti soltanto nelle Corti d’appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Capolista di questa speciale classifica dei risarcimenti, la Corte d’Appello di Reggio con circa 8 milioni liquidati, seguita da quella di Catanzaro (4 milioni e mezzo). Insomma, il Sud la fa da padrona. Si dirà: certo, c’è la mafia. Più reati uguale più arresti, ma anche maggiore possibilità di errori e di vittime collaterali della sacrosanta lotta al crimine.
E quindi? I numeri di matricola schiacciati dai panzer delle procure meritano un moto di indignazione e la ribalta politica, o basta un risarcimento? Scusate e tanti saluti.
Ancora: c’è una ragione se nonostante i rastrellamenti a tappeto di interi paesi la criminalità è viva e vegeta? Sì, c’è. Un motivo semplicissimo: la repressione da sola non è sufficiente e, anzi, gli errori provocati dalla pesca a strascico (o dal napalm: fate voi) fanno soltanto aumentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nel suo pregevole La ’ndrangheta come alibi (Città del sole edizioni, 2019), Ilario Ammendolia con coraggio sostiene che la ’ndrangheta è stato ed è l’alibi di classi dirigenti incapaci, funzionale alla giustificazione del disimpegno dello Stato in Calabria. Stato che dà segnali di vita con interventi repressivi, intercettazioni telefoniche di massa, operazioni mediatiche che coinvolgono migliaia di innocenti, provocano assurdi scioglimenti di consigli comunali e interdittive antimafia contro le imprese. È il paradosso di uno Stato che si manifesta con la sospensione dello Stato di diritto e con il ricorso a una legislazione emergenziale.
Nihil sub sole novum: è storia antica, che non ha neanche il pregio dell’originalità. Già la legge Pica (1863), da applicare alle province del Sud dichiarate in “stato di brigantaggio”, non risolse il problema nonostante le migliaia di arresti, fucilazioni sommarie, condanne ai lavori forzati e al domicilio coatto. Un abuso denunciato subito (3 maggio 1863) dal deputato pugliese Giuseppe Massari, uno dei pochi a comprendere la complessità del fenomeno: «Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria».
Se l’emergenza non viene mai superata, bisognerebbe almeno porsi qualche dubbio sull’efficacia di uno strumento che evidentemente non va alle radici della questione, principalmente perché mischia fenomeno sociale e reati: da qui gli arresti di massa. Occorrerebbe prendere atto che la criminalità è effetto del sottosviluppo, non causa. Un ribaltamento di prospettiva che metterebbe sul banco degli imputati l’intera classe politica italiana, colpevole (non soltanto per incapacità) della mancanza di lavoro, infrastrutture e servizi in una vasta area del Paese.
Servirebbe l’antimafia dei fatti, che si traduce in politiche di sviluppo. E meno antimafia di parata, quella dei vuoti codici etici, degli ipocriti registri della “cittadinanza consapevole” e delle targhe “Qui la mafia non entra”. Togliete alla criminalità il brodo di coltura della disoccupazione e appassirà da sola.

*Pubblicato su CalabriaPost.net, 30 giugno 2021

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Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video

IL DUBBIO, 26 GIUGNO 2021

Gentile direttore,
è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari.
Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”.
La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care.
Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento.
Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari.

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Punto e a capo

Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo.
Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza.
Non riesco a togliermi dalla testa le immagini di me che scendo per primo le scale della questura di Reggio Calabria il 25 febbraio 2020, giorno dell’operazione “Eyphemos”. Né le sentenze emesse da televisioni, giornali e quotidiani online, locali e nazionali. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: «Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza».
Non riesco a scacciare via la sensazione d’impotenza suscitata dalla constatazione dell’irrilevanza degli strumenti difensivi: rigetto della comparazione fonica di parte; inutilità delle argomentazioni a discolpa presentate, per me coerenti e logiche sin dal principio di questa assurda storia; mortificazione del diritto alla difesa, fino a quando la procura non ha deciso di affidare al RIS di Messina la perizia che a settembre, 205 giorni dopo l’arresto, ha finalmente portato alla mia scarcerazione poiché, essendo stato accertato lo scambio di persona, non sussistevano più i “gravi indizi di colpevolezza”.
Comprendo l’errore, ma non accetto l’accanimento. Questa amara sensazione ha accompagnato ogni giorno della mia detenzione, martellante come il sostantivo utilizzato dal pubblico ministero e avallato dal tribunale della libertà nel rigettare il ricorso: secondo l’accusa, contro di me risultava un “coacervo” di indizi. Ma io non dovevo giustificarmi per comportamenti o atti considerati penalmente rilevanti da chi ha condotto l’indagine. C’era una questione preliminare, sostanziale, decisiva che andava affrontata subito perché concerneva l’errata attribuzione alla mia persona dell’identità del soggetto intercettato. E invece ci sono voluti sette mesi per accertare quello che ho sostenuto sin dall’interrogatorio di garanzia, due giorni dopo l’ingresso in carcere, senza la necessità di ascoltare la registrazione: «Non sono io. Fate una perizia fonica, perché quella voce non può essere la mia». Sette mesi che ho trascorso in prigione: non a piede libero, né agli arresti domiciliari. Troppi, ritengo, per uno Stato di diritto appena appena decente.
Non ho fiducia nella giustizia italiana. Credo invece nella verità, una forza tenace come la goccia che scava la roccia.
Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane.
Scarto il buono dal brutto: la presa di coscienza di questioni mai considerate nella loro complessa rilevanza, diventate ora ragione di studio e per le quali credo valga la pena spendersi. Da libero cittadino e da osservatore purtroppo privilegiato.

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Don Silvio Mesiti: Il tunnel della speranza

Don Silvio Misiti è uno scandalo vivente. Scandalo nell’accezione biblica di “inciampo”, un ostacolo che costringe a soffermarsi e a riflettere. Le sue parole e la sua vita da prete di frontiera sono un monumento di fede e di umanità. «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi», una delle sette opere di misericordia corporale, che mette l’uomo in rapporto con la solitudine, il rimorso, la vergogna, la disperazione di chi vive recluso; un invito ad affondare mani e piedi nelle discariche sociali (sovr)affollate, perlopiù, dagli scarti della collettività.
Le alte mura sormontate dal reticolato sono la frontiera tra due mondi che non si parlano. Don Silvio, cappellano del carcere di Palmi da quasi mezzo secolo, è appunto lo scandalo di un ostinato dialogo tra sordi: di qua i buoni, di là i cattivi. La pietra d’inciampo che obbliga la società e la politica a non volgere lo sguardo altrove.
Il diario che ha deciso di dare alle stampe si riferisce ad un periodo storico difficile e convulso, ma è emblematico del suo modus operandi all’interno della realtà carceraria composta da detenuti, polizia penitenziaria, operatori, figure istituzionali. Il tunnel della speranza. Il Supercarcere di Palmi negli anni di piombo (Laruffa Editore, 2021) è una testimonianza preziosa sotto il profilo storiografico, perché propone un punto di vista inedito sulle biografie dei protagonisti della lotta armata reclusi nella struttura speciale voluta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1979. Una sorta di “università”, ricordata dalla memorialistica relativa a quel periodo, che tra cortili e brandine produsse documenti e risoluzioni, ma portò anche a spaccature premonitrici di molteplici fallimenti politici e personali. Il nucleo centrale del libro, costituito dalle pagine annotate dall’autore tra il 10 marzo 1981 e il 31 dicembre 1982, racconta “in presa diretta” la reazione dei terroristi al cospetto degli eventi significativi di quel cruciale snodo storico: il sequestro dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, l’attentato a Giovanni Paolo II, il sequestro e l’assassinio di Roberto Peci.
Ma nel carcere non vivevano soltanto i detenuti politici. La testimonianza di don Silvio è più ampia ed arriva ad abbracciare i giorni nostri con considerazioni attente sul mutamento, nel tempo, della composizione socio-culturale della popolazione carceraria, con proposte e contributi che affrontano i temi al centro del dibattito attuale sulla giustizia: presunzione d’innocenza, rispetto della dignità umana, reinserimento sociale.
Il tunnel della speranza è un libro crudo, senza filtri, che punta i riflettori su drammi noti soltanto a chi entra in un carcere: suicidi, atti di autolesionismo, tentativi di ribellione e violenze. Il carcere è un’esperienza estrema, ma nella bufera la parola di don Silvio diventa la fune alla quale aggrapparsi. Per non farsi trascinare nel gorgo, per non perdersi. Parola che conforta anche quando si tratta di un veloce saluto ai detenuti nel cortile del passeggio: «Ancora qua siete?».
La vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti, cantava John Lennon in “Beautiful boy”. Vita fatta di incontri inimmaginabili e proprio per questo belli. Forse per questo non casuali.

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Ora d’aria

“La ronda dei carcerati” (Vincent Van Gogh, 1890)

Su gambe irrequiete
da muro a muro
inseguono
il volo della rondine
tendono l’orecchio
al rombo dei motori
si incrociano
e non riconoscono
i volti uguali
di girasoli
piegati dal vento.

[Palmi, 24 maggio 2020]

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