Forse non hanno alcuna somiglianza con i “quattro straccioni di Valmy” evocati da Francesco Cossiga per dare una pennellata di romanticismo ad uno dei molteplici tentativi di ricostruire attorno alle forze di centro l’asse portante del sistema politico italiano. Fatta la tara delle ambizioni e delle rivendicazioni personali (senza dubbio presenti), l’idea di fondo non dista molto dalla concezione che indica nella soluzione “centrista” l’esito costante dello scontro politico in Italia. Il “connubio” di Cavour e Rattazzi, il trasformismo depretisiano, Giolitti, lo stesso fascismo (con Mussolini nel ruolo di mediatore tra ras locali, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, reduci, corporativisti), prima ancora della “balena bianca”, dimostrano come – al di là degli interpreti – lo schema di gioco sia sempre lo stesso da centocinquanta anni.
Certo, a livello nazionale l’esperimento della provincia reggina sta passando quasi inosservato. E non potrebbe essere altrimenti. A meno che i vertici dell’Udc non riescano ad essere convincenti nel dichiarare cosa, se non le poltrone, impedisce di fare a Reggio ciò che Casini va predicando da due anni in giro per tutta Italia.
Il Polo civico raccoltosi attorno a Pasquale Tripodi, Pietro Fuda e Giuseppe Bova, per come si è costituito, presenta delle differenze sostanziali rispetto al progetto originale del Terzo polo, poiché per certi versi (presenza di una componente proveniente dal Pd, quella di Bova) va addirittura oltre i confini stabiliti a livello nazionale. Se i detrattori vi vedono soltanto il tentativo di restare aggrappati alle poltrone messo in atto da una classe politica “vecchia”, i promotori ne sottolineano la rivendicazione di autonomia decisionale rispetto all’imposizione dall’alto, sottolineata dallo slogan “la nostra autonomia senza se e senza ma”.
È un dato di fatto che Tripodi e Bova sono fuorusciti da due partiti tradizionali. E che le scelte riguardanti i candidati a sindaco e presidente della provincia delle altre coalizioni sono causa di frizioni non meno forti con il livello romano. La vicenda del siluramento della candidatura di Luigi Fedele da questo punto di vista è sintomatica. È giunto forse il momento di una riflessione comune sui meccanismi di selezione della classe politica. I partiti non sono più palestra di niente. Men che meno sono utili per la formazione della classe dirigente del paese. Il loro declassamento al ruolo di comitati elettorali al servizio del leader di riferimento, se ci riporta all’Ottocento e alla lotta politica nella fase precedente lo sviluppo dei partiti di massa, ha anche come effetto il proliferare di cartelli coincidenti con le aspirazioni personali di candidati che, a Roma come nella periferia, consumano gli stessi stanchi riti.
Due poltrone che scottano
Servirebbe la sfera di cristallo per capire come andranno a finire le partite sulle candidature per le prossime elezioni amministrative in provincia di Reggio Calabria. Non potendone trovare una a buon mercato, proviamo a mettere in fila un paio di circostanze, nella speranza di riuscire così ad afferrare il bandolo della matassa in una situazione a dir poco surreale. Un’impresa da guinness dei primati.
Diamo un’occhiata in casa del centrodestra. I duellanti sono (erano?) due. Il sindaco facenti funzioni di Reggio, Giuseppe Raffa, e il capogruppo del Pdl al consiglio regionale, Luigi Fedele. Il primo sponsorizzato dal coordinatore provinciale Nino Foti, il secondo lanciato direttamente dal governatore, Peppe Scopelliti. La bilancia sembra pendere a lungo dalla parte di Fedele, che può contare sull’appoggio dei consiglieri regionali colleghi di partito, espresso con documento fatto pervenire ai vertici di via dell’Umiltà, oltre che sul sostegno di gran parte della rappresentanza pidiellina calabrese in Parlamento. La candidatura rappresenterebbe anche un risarcimento per lo sgarbo del 2008, quando alle elezioni politiche, dopo un estenuante tira e molla con Foti, Fedele fu retrocesso nel listino della Camera in tredicesima posizione, primo dei non eletti. L’allegra passeggiata notturna di un mese fa sotto la pioggia nel corso di Sant’Eufemia d’Aspromonte, presenti Scopelliti, Sarra e Fedele (che seguiva il corteo sulla macchina) sembrava preludere all’investitura. Ma non è così. Raffa e Foti, che gioca da sempre una personalissima partita contro Fedele, non demordono. Per giorni la tratta Roma-Reggio diventa infuocata. Alla fine (ma siamo sicuri?) la spuntano loro, non si sa con quali argomenti, visto che Berlusconi aveva dichiarato “non posso scontentare il mio governatore”. Uno schiaffo che deve avere fatto male, se nessuno del Pdl calabrese si è fatto vedere alla conferenza stampa nella quale Raffa annuncia la sua candidatura per palazzo Foti, né ha sentito il bisogno (a parte Gianni Nucera) di rilasciare dichiarazioni.
Spostiamoci al centro. L’Udc conferma l’accordo regionale con il Pdl, ma il suo politico di punta nel reggino, Pasquale Tripodi, è di tutt’altro avviso. Da un po’ di tempo scalpita per il mancato riconoscimento della sua affermazione alle passate elezioni regionali. Messo all’angolo da Scopelliti, che promuove in giunta Stillitani, e dal suo stesso partito, che lo esautora da capogruppo, intraprende un braccio di ferro quotidiano con il coordinatore regionale, l’europarlamentare Gino Trematerra. Obiettivo dichiarato è la costituzione, almeno nella provincia di Reggio, del Polo per la nazione con l’autorevolissima candidatura di Pietro Fuda per la provincia. Sarebbe un passaggio coerente con la strategia nazionale del partito. Sarebbe. Perché in realtà sul percorso ci sono le mine piazzate da Trematerra e dalla rappresentanza regionale dell’Udc, fedele allo schema dell’alleanza con Scopelliti. Probabile, quindi, che Tripodi sarà espulso dal partito per volere fare quello che Casini predica da più di un anno.
E a sinistra? Massimo Canale, candidato a sindaco di Reggio, è da tempo in campagna elettorale, anche se non si capisce con quali truppe. In Italia dei valori si sta consumando la lotta al calor bianco tra il segretario provinciale Domenico Ceravolo, che punta su Canale al comune e l’uscente Giuseppe Morabito alla provincia, e Giuseppe Giordano il quale, spalleggiato dal coordinatore cittadino Aldo De Caridi, ha già stretto un accordo con SeL e i Verdi e fatto sfiduciare Ceravolo (confermato però a Roma) dalla maggioranza del direttivo di Idv.
Il Pd non è ancora pervenuto. Buio pesto sul comune. Per la provincia dovrebbe essere ricandidato Morabito, anche se ancora nessuno si è espresso. Forse qualcuno lo farà al risveglio dal coma farmacologico in cui vegeta il partito, che per bocca del commissario provinciale Mommo De Maria dovrebbe farsi promotore di un’interpartitica dedicata alle candidature. Interpartitica? Forse sarebbe prima il caso di fare chiarezza in casa propria.
A bordo ring, l’Mpa – orfano di Belcastro e Mesiti, ora tra i “responsabili” che stanno tenendo in vita il governo – che a livello nazionale si sta spendendo per il terzo polo e che a Reggio flirta a sinistra e al centro, e i Repubblicani di Nucara a caccia di una candidatura alla provincia da strappare ai litigiosi alleati pidiellini.
Alla faccia della semplificazione del quadro politico.
Un telegiornale un po’ troppo istituzionale
Mercoledì, sono quasi le 19.30 e penso: “vediamo cos’è successo in Calabria”. Accendo il televisore e mi sintonizzo sul tg3, curioso di apprendere qualche novità sulla fluidissima situazione politica regionale. Ci sono in ballo le candidature per le prossime elezioni amministrative, con Reggio da tempo ormai al centro dell’attenzione. Che farà l’Udc? Si accoderà alla linea regionale che riconferma in toto il patto di ferro con il Pdl o seguirà la strategia romana del Nuovo polo? Il Pdl sfoglierà la margherita (Fedele-Raffa) o, alla fine, salterà fuori un nome capace di mettere tutti d’accordo? Il Pd è vivo e lotta insieme a noi o è capitolato definitivamente, sotto i fendenti di Bova- Adamo- Loiero da una parte e Musi dall’altra? Mi attendo delle risposte e sono tutto orecchie davanti alla giornalista Maria Luigia Cozzupoli.
Si inizia con la cronaca. Ci può stare. In una regione martoriata dalla criminalità è pure normale. E poi, proprio il giorno prima c’era stata l’operazione “Crimine 2”. Si continua su quel filone. Per cui, in rapida successione: il rapporto della Direzione nazionale antimafia che assegna alla ’ndrangheta il primato nella classifica delle associazioni criminali; il sequestro di beni per un valore di 40 milioni di euro, effettuato tra Calabria, Basilicata, Lazio e Toscana; gli spari contro la segreteria politica di Salvatore Magarò, presidente della Commissione regionale antimafia e l’intimidazione al consigliere regionale Gianni Nucera. Completano il quadro della “nera”, gli aggiornamenti sulla scomparsa di Maria Pelaia a Serra San Bruno.
Grande risalto per la firma del protocollo di legalità sottoscritto tra Anas e prefettura di Reggio Calabria per la prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nei lavori riguardanti il VI macrolotto della A3 (tratto compreso tra Scilla e Villa San Giovanni). Poi, la presentazione a Catanzaro del rapporto dell’Unicef sull’adolescenza e il consiglio provinciale aperto, tenuto a Cosenza per la presentazione del progetto di istituzione della facoltà di Medicina. A Cirò Marina, invece, il progetto presentato (“Io denuncio”) riguarda l’educazione alla legalità. Ma si “presenta” anche nella sede del consiglio regionale, dove Candeloro Imbalzano illustra la sua proposta di legge per l’istituzione di un Centro regionale per il sangue. Il disegno di legge sulle “quote rosa” andrà invece in votazione la settimana prossima. Le notizie di politica finiscono qua. Si chiude con lo spettacolo: il Jazzmin della “Sosta” di Villa San Giovanni, con l’intervista al mitico Mimmo Pitasi, e la “Compagnia del sorriso” che al teatro rendano mette in scena la commedia “Nobili e Povaromi”.
Il telegiornale è finito. Forse sono i miei interessi a non essere in sintonia con la linea editoriale della testata giornalistica regionale. Ma l’impressione è che sia la notizia a trovare il giornalista, non viceversa. Quasi che la redazione si limiti a svolgere il compitino senza “osare”, senza “ricercare” le informazioni. Colpisce il taglio “istituzionale”, ma se le notizie di politica si riducono alle note per la stampa preparate dalle segreterie, al fatto compiuto che non spiega le dinamiche e i retroscena (senza per questo diventare morbosi), il solco tra cittadino comune e istituzioni è fatalmente destinato ad allargarsi.
La lezione dei bambini/bis
Nella rubrica che cura su “Il Quotidiano della Calabria”, il professore Pietro De Luca ha così risposto, ieri, al mio intervento – inviato al giornale in una versione leggermente ridotta rispetto all’articolo pubblicato sul blog – sull’episodio di discriminazione accaduto in una scuola media di Catanzaro:
Caro Forgione, siamo qui a raccogliere i cocci di quel vaso che si è rotto quando il governo fece il suo bilancio e tagliò i fondi all’istruzione. Capimmo subito che a farne le spese sarebbe stata la riduzione degli insegnanti di sostegno. Lo scrivemmo più di una volta.
Potrà dirmi, caro Forgione, che la realtà del nostro caso è più complessa. Di sicuro lo è, ma l’insegnante di sostegno, prima ancora di essere una scelta economica, è una scelta di civiltà. Se è lì presente e tutti possono vedere che uno (il ragazzo destinatario) vale quanto l’intera classe per la cura che gli è prestata, allora si comprende in maniera concreta il valore della persona nella sua singolarità. La reazione della classe (neanche noi parteciperemo d’oggi in avanti a qualsivoglia iniziativa, se il nostro compagno non può uscire dall’aula) costituisce la prova provata che quei ragazzi hanno capito tutto, soprattutto il valore della personalità del loro amico. Un giorno gli avevano scritto: “Tu sei la nostra forza”, forse per dire finanche “tu sei il nostro maestro, colui che ci insegna e ci dispiega un mondo altrimenti sconosciuto”. Nel coro solidale si può leggere ancora: “se a te viene negato un diritto, anche noi ne facciamo a meno perché il titolo per riscuoterlo non può essere costituito da una semplice sperimentata abilità, a questa ha già provveduto madre natura, manca sempre quello della cittadinanza”. Bravissimi quei ragazzi, cittadini controcorrente di questa Italia individualista e sorda al disagio altrui. Mi domando perché, invece di dare la stura a vecchi e stereotipati luoghi comuni, non si espliciti chiaramente il disagio nel quale è piombata la scuola da quando è caduta sotto la mannaia Gelmini-Tremonti. Questo andrebbe detto, così semplicemente, perché tutti lo sappiano.
Caro Forgione, lei ha il vantaggio di parlare da dentro quel mondo della disabilità al quale offre la sua vicinanza e ne viene ripagato con un surplus di maturità riscontrabile. Per tale motivo sa bene che il buon cuore degli operatori non ha prezzo e quando manca nulla lo rimpiazza. Ci vuole anche dell’altro, però: mezzi, strumenti, strutture. Perché non si apre allora al volontariato per certi ammanchi di personale nelle strutture pubbliche? Che resta da pensare, che si vuole persino mortificare chi si trova in una necessità? Ma questo sarebbe solo mostruoso. Non vorrei neanche pensarlo per un minuto in più. Preferisco occupare la mia mente con la grande lezione della solidarietà di quella classe.
La lezione dei bambini
Ho avvertito un senso di vuoto e molta amarezza nell’apprendere la notizia di quella dirigente scolastica di un Istituto comprensivo di Catanzaro che voleva impedire ad un ragazzino affetto dalla sindrome di Down di prendere parte alle uscite della sua classe. La storia è ormai nota. Durante una giornata di orientamento presso l’Istituto alberghiero di Soverato, dopo che la preside aveva tentato di tenere a casa l’alunno disabile perché quel giorno non c’era l’insegnante di sostegno (l’accompagnatore è obbligatorio fuori dall’edificio scolastico), questi rompe un bicchiere e si dimostra alquanto vivace. Per tale motivo, la preside comunica ai docenti l’intenzione di vietare in futuro al ragazzino la partecipazione alle gite, e lo stesso fa con gli alunni della classe, giustificando il provvedimento con la motivazione che “tanto, lui non capisce niente”. I compagni però si oppongono: “senza di lui, non andiamo neanche noi”, dando una lezione agli adulti e sconfiggendo il luogo comune suoi giovani di oggi senza valori, attratti soltanto dai vestiti firmati e dai telefonini di ultima generazione, dall’effimero e dal vacuo. Finiscono così sulle prime pagine di tutti i giornali perché, come ha fatto notare Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, si sono dimostrati “più generosi, più civili, più veri uomini e vere donne” della preside.
Non bisogna ovviamente generalizzare. Ci sono tantissimi insegnanti che risolvono con il buon senso questo genere di problemi. Sono quelli che hanno come obiettivo non tanto il magro stipendio di fine mese, quanto il perseguimento della funzione educativa della scuola. Se non c’è l’insegnante di sostegno (eventualità non peregrina, dopo i tagli della Gelmini), assumono essi la responsabilità di portare in gita gli alunni disabili. Perché, quand’anche il disabile non dovesse capire niente, va ricordato che tra i compiti della scuola vi è anche quello di sviluppare le capacità dei ragazzi di socializzare e relazionarsi con gli altri.
Ho la fortuna di avere un minimo di familiarità con la disabilità. Ribadisco “fortuna”: chi fa volontariato mi comprenderà. Ma prima ancora, ho avuto la fortuna di avere amici che hanno iniziato prima di me, ai quali sarò riconoscente per tutta la vita, perché è grazie a loro che ho potuto conoscere una realtà che mi riempie il cuore e che mi ha consentito di essere ciò che oggi sono, un uomo certamente migliore del ragazzo che fui. Ho pianto pochissime volte nella mia vita. Due sono legate all’emozione delle esperienze che ho avuto modo di vivere grazie all’Agape, l’associazione della quale faccio parte da undici anni. La prima, un musical preparato dall’associazione, “La bella e la bestia”, con “la bella” interpretata da una ragazza down. La seconda, un pranzo consumato nel giorno di Natale presso una casa di cura per anziani. E poi tante altre emozioni, occasioni come la convivenza, giorno e notte, con soggetti disabili durante le colonie estive, che fanno capire cosa conti davvero nella vita, al di là delle maledette urgenze dettate dalla quotidianità. La mascotte della nostra associazione è un’altra ragazza down, che abbiamo visto crescere sin da quando era una bimba e che ora è maggiorenne. Anche lei ogni tanto è molto vivace. A volte ci prende a schiaffi, o si siede per terra perché non vuole più camminare e allora diventa dura, dato che pesa cento chili. Però ci recita la filastrocca dell’ “echifante” (l’elefante), ci fa le coccole e ci dà tanti baci. Ecchissenefrega degli schiaffi: se ne subiscono ben altri nella vita e quelli fanno male per davvero.
Il prezzo del rinnovamento
Diciamoci la verità, appare lievemente ipocrita questo stracciarsi le vesti perché non si riesce ad arrestare l’emorragia del partito democratico calabrese. Come nei castelli di carta, tirata via una tessera viene giù tutto. Anche se basta una bava di vento, non certo un uragano. Figurarsi dopo una batosta come quella delle passate elezioni regionali.
Fino a non molto tempo fa si rimproverava al Pd di essere arroccato a difesa della rendita politica di pochi oligarchi. Oggi che ci si sta liberando di un personale gerontocratico e autoreferenziale si piange perché all’orizzonte non si intravede nient’altro che deserto. Eppure è illusorio pensare di condurre a termine a costo zero una rifondazione che elimini vecchie e resistenti incrostazioni. Soltanto dalle macerie è possibile ricostruire ex novo, se non si vuole continuare ad applicare palliative e litigiose toppe al buco. È un prezzo che occorre pagare, dopo che per venti anni a tutto si è pensato tranne che a preparare una fisiologica e necessaria successione politica. A meno che non si voglia considerare maturazione di un nuovo ceto politico la pura e semplice cooptazione al vertice imposta dai ras locali.
Con la fuoruscita dei vari Adamo, Bova e Loiero si può invece aprire una fase finalmente nuova, che segni una cesura netta con il più recente passato. E se, nell’immediato, inevitabilmente ci sarà da scontare qualcosa in termini di consenso elettorale, a lungo andare sarà benefica una rigenerazione che produca chiarezza facendo tabula rasa del passato. Una volta per tutte, si dovrebbe avere il coraggio di lasciare sull’uscio i signori delle tessere fasulle, il cui numero, in molti comuni, è stato superiore ai voti del partito nelle elezioni. Si dirà: è utopia, è sempre stato così. Ma ai tanti giovani che, nonostante i molteplici negativi esempi, coltivano una passione, non si può chiedere di avvicinarsi alla politica sbandierando abusati rituali da Prima Repubblica. Non ci si può nascondere che, tanto per fare un esempio, l’inciucio sulla legge 25 del 2001 che bandì il “concorsone” rappresenta, dopo dieci anni, una ferita ancora viva tra molti militanti e simpatizzanti. Così come le primarie taroccate dell’anno scorso non sono certo state un esempio di buona politica. Il disimpegno e l’astensionismo dilaganti hanno ragioni sulle quali per troppi anni si è evitato un dibattito serio.
C’è molta confusione sotto il cielo del PD. La situazione dovrebbe essere eccellente (ma non lo è)
Come Jacques de La Palisse, il generale francese morto in battaglia a Pavia nel 1525, anche il partito democratico “se non fosse morto sarebbe ancora in vita”. La parabola elettorale del PD dimostra come in politica quasi mai due più due fa quattro. Il tentativo di fondere due tradizioni importantissime nella storia della Repubblica italiana, quella cattolica e quella comunista, è stata un’iniziativa nobile e per certi versi romantica. Ora però occorrerebbe prendere atto che l’esperimento è fallito miseramente e che, probabilmente, sarebbe il caso di fare un passo indietro. Se errare è umano, perseverare, in questo caso, è masochista. È evidente che alleati ma separati si ottengono risultati più positivi, alla faccia della vocazione maggioritaria del partito e di un bipartitismo impossibile nel nostro sistema politico. Lo dice anche la storia. L’unificazione socialista realizzata nel 1966 fu sonoramente rispedita al mittente dagli elettori due anni più tardi, quando PSI e PSDI ottennero, insieme, il 4,5% di voti in meno rispetto a quelli conquistati, separatamente, nelle precedenti elezioni. Guarda caso, una percentuale quasi identica a quella ottenuta dal PSIUP, che in quell’occasione realizzò l’unico exploit della sua breve esistenza. Nenni e Saragat, che non erano fessi, compresero che quella bocciatura esprimeva la rivendicazione di un elettorato che voleva custodire gelosamente la propria identità. Per cui preferirono fare ritorno ai rispettivi alvei partitici.
E poi, cos’è, oggi, il PD? Qualcuno sarebbe in grado di spiegarne strategia e linea politica? La sua classe dirigente è sempre impegnata a rincorrere e strattonare la giacca di chi, incidentalmente e per le più svariate ragioni, sembra essere in grado di mettere in difficoltà Berlusconi. Lo ha fatto con Fini, con Casini, con Montezemolo, con Emma Marcegaglia, addirittura potrebbe essere disposta a farlo con Tremonti. Ma così non si va da nessuna parte. Altrimenti avrebbero dovuto puntare su José Mourinho o Veronica Lario, gli unici davvero in grado di appannare l’immagine di invincibile che il premier con ostentato auto-compiacimento promuove. A furia di flirtare con il terzo polo, nell’attesa messianica di un incidente di percorso che azzoppi definitivamente il presidente del consiglio, il PD si è ridotto a fare il figurante di una rappresentazione in cui i protagonisti sono altri. Guardiamo a casa nostra, in Calabria. C’è un commissario, Adriano Musi, con un compito poco chiaro a lui per primo. Adamo e Bova, i dioscuri provenienti dalla tradizione comunista, al momento sono fuori dal partito. L’altro uomo forte del PD calabrese, Loiero, gioca da sempre una partita in proprio, nonostante la ricorrente puntualizzazione (excusatio non petita) di essere stato tra i fondatori del partito. Una posizione molto sui generis, certificata dall’esistenza di Autonomia e diritti. Il PD non è in grado di avanzare una candidatura credibile e seria né alla provincia, né al comune di Reggio. Per questo sembra cercare qualcuno da sacrificare (film già visto con la candidatura, alle passate comunali, di Lamberti-Castronuovo, praticamente abbandonato al proprio destino). Si parla di un “papa straniero”, De Sena o Minniti. Ma con quali criteri vengono scelti i candidati? Non occorre essere dei geni, basta possedere un minimo di buon senso per comprendere che in un comune il candidato a sindaco deve essere espressione del territorio per avere qualche possibilità di vittoria. Caratteristica che non appartiene, per mille motivi, né a De Sena, né a Minniti. Per la provincia, si attende la nascita del terzo polo e l’eventuale candidatura di Fuda. Come nelle passate regionali, il rischio è che, alla fine, un accordo UDC-PDL possa mandare tutto all’aria. Anche in questo caso, l’attendismo e l’immobilismo del PD risultano incomprensibili, e di corto respiro la sua strategia politica.
Il finale, scontato, rimanda alla celebre scena in cui Fantozzi, tutto preso dalla visione della partita della nazionale di calcio, neanche capisce ciò che gli succede intorno e alla moglie che gli sta confessando di essersi innamorata di un altro dice “va bene, ora che l’hai detto puoi andare”. Manca solo il rutto libero.
L’uomo e la regina
La passione per il teatro, così come quella altrettanto intensa per i classici greci, traspare un po’ ovunque tra le pagine del bel romanzo di Aldo Coloprisco, L’uomo e la regina (Laruffa editore, Reggio Calabria 2009). L’incipit stesso, con il protagonista che si guarda allo specchio e si sistema il cappello con cura, rimanda alle indicazioni per la messa in scena di un’opera teatrale. C’è un’attenzione per i dettagli nella descrizione sia dei posti che dei comportamenti dei personaggi che ci riporta all’attività di regista e di autore teatrale di Coloprisco: “il bastone di legno leggero dal manico d’osso” del protagonista; la donna che ha “il mento appoggiato sul manico della scopa” mentre conversa; la preparazione meticolosa del caffè, la descrizione minuziosa della bottega del “restauratore”, o quella della cappella privata, nella scena che introduce, in pagine di grande lirismo, il toccante ricordo delle dolci carezze all’anziano padre e della morte della madre.
Credo quindi che il romanzo debba molto all’amore del suo autore per il teatro, inteso secondo il celebre aforisma di Eduardo De Filippo: “lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”.
Questa cura per i particolari a volte sembra avere anche altre ascendenze. Mi riferisco alla descrizione della stanza e degli oggetti che circondano il protagonista nel passaggio in cui ricorda le veglie notturne, nell’attesa del ritorno a casa dei figli. Si possono infatti rilevare delle assonanze con “le buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano nella poesia L’amica di nonna Speranza, oppure – operando un collegamento al di fuori della letteratura – con la canzone Vite, di Francesco Guccini, nella quale il cantautore si pone le stesse domande del protagonista del romanzo sul destino degli oggetti e delle persone che, nel fluire del tempo, li hanno di volta in volta posseduti e utilizzati.
La vicenda si consuma nell’arco di una giornata, nel corso della quale il protagonista rivive tutta la propria vita, come nel nastro di un film riavvolto, ma incontra anche tutta una serie di personaggi che danno un senso alla sua intera esistenza nelle ore che precedono il suo distacco dalle cose terrene. La complessità delle tematiche affrontate non impedisce all’autore di riuscire a farsi leggere sovente col sorriso sulle labbra. Il romanzo è infatti pervaso da un’ironia ora sottile ora corrosiva, ma in nessun caso triviale. Penso ad alcune riflessioni sulle giovani donne che sposano uomini molto più maturi, sugli intellettuali che polemizzano sui massimi sistemi e sul sesso degli angeli; o all’incontro con il “restauratore”, un personaggio che sembra uscito dalla fortunata tradizione letteraria romanesca che va da Gioacchino Belli a Trilussa.
Lo svolgimento dell’intreccio avviene su più piani, sia temporali che spaziali, grazie al sapiente ricorso al flash-back come artificio narrativo efficace per tenere insieme una trama ricca di storie e di personaggi. Tra le pieghe dei ricordi si intravedono persone e luoghi che fanno senza dubbio parte dell’album autobiografico dell’autore.
Il presente – in una città caotica e dai ritmi forsennati – rivela tutte le rughe fisiche e interiori che comporta l’incedere della vecchiaia e si contrappone ad un passato quasi onirico nel quale situazioni e personaggi affollano la mente del protagonista come fantasmi che appaiono all’improvviso, in una Calabria che è “terra selvaggia ma bellissima”, soggiogata dalla violenza che governa la natura e la società. Una terra in cui è ancora possibile assistere al delitto d’onore di un giovane per mano dei suoi “tre più cari amici”, sulla scorta di accuse probabilmente false. In pagine che riecheggiano il migliore Corrado Alvaro, viene descritta la morte di massaro Rocco, “travolto con le sue pecore dalla furia di fango e di pietre”. Altrove, il barbaro assassinio di Antonio – un giovane che si era ribellato ai soprusi e al malaffare e che aveva osato candidarsi a sindaco in un paese di “quattro case e un forno” – si pone invece nel solco tracciato da un altro calabrese d’esportazione, il carfizzoto Carmine Abate. Il paesino di Calabria è soprattutto il luogo dell’infanzia e della giovinezza, rappresentato da un ciliegio fiorito che rimanda ad uno dei più bei libri di Enzo Biagi, L’albero dai fiori bianchi, anch’esso venato da una forte nostalgia per i luoghi e i volti della gioventù. Volti, in alcuni casi, mai rivisti nel corso degli anni. Storie consumate nell’arco di un pomeriggio, come l’amore per Elisa, della quale il protagonista non sa più nulla, ma il cui ricordo continua a provocare un’emozione intensissima. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, canta d’altronde Fabrizio De Andrè nella canzone Giugno ’73. Un microcosmo destinato forse a scomparire (“il paese muore – ammonisce l’autore – senza che nessuno faccia niente per salvarlo”), agonizzante a causa dell’emorragia costante di giovani che emigrano alla ricerca di lavoro, che si contrappone alla Capitale, “una camera a gas” popolata da esseri inscatolati in trabiccoli metallici, alienati e frenetici nel loro andare senza meta e con un bisogno pressante di stare in mezzo alla folla per sentirsi vivi, anche soltanto per sproloquiare su qualsiasi argomento (tempo, governo, calcio, salute). Nel caos quotidiano, anche un’azione apparentemente insignificante come quella di lasciare a casa volontariamente il telefonino può costituire un gesto di grande libertà, un volersi riappropriare della propria esistenza di fronte alle invasioni che la nostra privacy di continuo subisce. Coloprisco non rinuncia ad aprire una finestra sull’attualità, lasciandosi andare a considerazioni mai banali sulla libertà, la democrazia, il potere della televisione e la condizione dell’uomo nella società dei consumi. Mai come in questo momento, di fronte ai tentativi di omologazione cui siamo quotidianamente sottoposti, allo squallore intellettuale di chi vuole farci credere che questo è il migliore dei mondi possibili e che è sovversivo chiunque non lo riconosca, servono voci limpide e terse che denuncino l’inganno. Altrimenti diventa impossibile accorgersi di un’umanità dolente, che può assumere le sembianze di una donna “tradita e delusa” che improvvisamente si dedica soltanto alle faccende domestiche, rinunciando ad avere qualsiasi altro ruolo nella famiglia e nella società; di un disoccupato che “non sa dove sbattere la testa”; di un ragazzo che pensa di superare i propri problemi esistenziali togliendosi la vita; di un barbone che mendica qualche spicciolo; di una prostituta che per necessità o per costrizione vende il proprio corpo. Coloprisco ci presenta questa umanità con delicatezza, con quella “com-passione” che, come ci spiega l’etimologia, rende partecipi della sofferenza altrui ed esalta la pietas che sta alla base dell’amore e del rispetto per il prossimo. L’incontro con Marisa, che si definisce “un trenino rotto” e che convive con il dolore atroce causato dalla morte del figlio per overdose, non è soltanto la denuncia contro uno dei mali più subdoli della nostra società, ma offre anche all’autore lo spunto per affrontare una questione sulla quale più volte ritorna: il rapporto problematico con la religione. La posizione intellettualmente più saggia non può che essere rappresentata dall’agnosticismo, che non va confuso – come spesso accade – con l’ateismo. L’ateo nega l’esistenza di Dio, l’agnostico non si pronuncia, in quanto non può dare una risposta razionalmente sicura, per cui lascia aperto il campo a qualsiasi ipotesi. C’è però un bisogno di fede e di certezze difficile da nascondere, una ricerca ossessiva che forse, come sosteneva Sant’Agostino, è essa stessa fede. Strettamente legato a questo è poi il tema della morte, colei che finalmente darà le risposte alle infinite domande che ognuno si pone e che Coloprisco propone in pagine altamente introspettive.
L’inseguimento tra il protagonista e la “regina” si conclude con l’incontro finale. Questa donna che appare e scompare, rinviando di fatto l’appuntamento dell’uomo con la morte ricorda, per certi versi, il celebre film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, nel quale il cavaliere e la morte giocano una partita a scacchi dall’esito scontato mentre attraversano i mali della società. Anche Coloprisco ci fa vedere le piaghe del mondo, prima fra tutte la guerra, contro la quale scaglia un anatema vigoroso (“maledetti gli uomini che vogliono la guerra, bestie più delle bestie”) e contemporaneamente ci fa commuovere con la “favola della stella” che una nonna racconta al proprio nipotino. Per altri versi, credo sia invece possibile azzardare un paragone con la produzione teatrale (ma non solo) di Samuel Beckett. Anche gli eroi beckettiani – ad esempio i protagonisti di L’ultimo nastro di Krapp; Finale di partita; Aspettando Godot – sono generalmente colti nel momento che precede la fine, una fine che inconsciamente cercano. Come il protagonista de L’uomo e la regina, sono personaggi un po’ avanti negli anni che si raccontano e ci raccontano delle storie nel tentativo di prolungare così la loro agonia perché sentono “l’obbligo di esprimere in un mondo in cui non c’è niente da esprimere”, rinviando così il raggiungimento di quella fine che pure desiderano perché “non c’è più niente da rimpiangere, non ci sono anni da rivolere indietro”.
Il protagonista del romanzo di Coloprisco va incontro al suo destino, come gli eroi delle tragedie greche, senza tentare di procrastinare un incontro che comunque avverrà, con un’ansia di affrontare l’ignoto paragonabile alla smania di Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante. Nonostante l’epilogo tragico, l’autore riesce a consolarci con parole e immagini di speranza e di vita perché – come egli stesso ci ricorda – è vero che sono stolti gli uomini che vogliono conoscere il proprio destino, ma è anche vero che è saggio l’uomo che nel suo piccolo spende la vita per lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello ereditato dai suoi predecessori.
La Santa Alleanza
Il rapporto Mezzogiorno-Governo centrale rischia di scivolare verso una china molto pericolosa, ma c’è una generale sottovalutazione di questa emergenza. Fino a quando, infatti, le popolazioni meridionali potranno sopportare di essere defraudate da un governo sfacciatamente sbilanciato sopra la linea Gustav?
Basta mettere in fila i provvedimenti adottati o comunque proposti per farsi un quadro del grado di attenzione riservato alle regioni meridionali e, in particolare, alla Calabria.
La vicenda dei fondi FAS (fondi per le aree sottosviluppate) è emblematica. Istituiti per sostenere lo sviluppo e l’occupazione al Sud, negli ultimi due anni sono stati platealmente saccheggiati (circa 31 miliardi di euro su un totale di quasi 54) dal governo con una logica da Robin Hood alla rovescia che ha consentito la redistribuzione alle regioni del Nord di fondi destinati a quelle meridionali.
Come se si trattasse di un bancomat, sono stati prelevati soldi per ripianare il debito pubblico, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per la riqualificazione energetica degli immobili, per il taglio dell’Ici, per ripianare i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per mettere a posto i conti dell’Alitalia e delle Ferrovie dello Stato e per tanti altri provvedimenti (uno su tutti: la realizzazione, mai avvenuta, del G8 della Maddalena).
L’utilizzo improprio ha provocato la condanna della Corte dei Conti, che ha stigmatizzato l’andazzo di considerare i fondi FAS veri e propri “fondi di riserva” ai quali “si è fatto ricorso in modo massiccio” e in settori “non direttamente connessi con la missione concernente il riequilibrio territoriale”. Che tradotto vuol dire che soldi assegnati per risollevare l’economia del Sud sono stati invece utilizzati per coprire spese di diversa natura al Nord. Per essere più chiari: lodevole quanto si vuole (ci mancherebbe altro) l’iniziativa di alleviare con la cassa integrazione le pene degli operai rimasti senza lavoro, ma i soldi prelevati dai fondi FAS per finanziare l’operazione andavano destinati ad altri interventi, al Sud (mentre gli operai beneficiati risiedono prevalentemente al Nord).
Per non parlare degli imprenditori senza scrupolo scesi dal Nord – secondo la denuncia della senatrice UDC Dorina Bianchi – per fare della Calabria “terra di conquista”, approfittando dei finanziamenti della legge 488 e del Contratto d’area che hanno consentito loro di aprire le aziende “giusto il tempo necessario per avvalersi degli incentivi. Poi hanno chiuso le imprese, lasciando a spasso i lavoratori e tornandosene al Nord”.
E che dire della proposta, contenuta nella bozza originaria della manovra correttiva, poi scartata (ma ora riapparsa in un emendamento al disegno di legge sulla Carta delle autonomie all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera), di sopprimere le province con popolazione inferiore a 220.000 abitanti? È un esempio classico di come un progetto in linea di principio condivisibile – l’abolizione degli enti provinciali per tagliare un po’ di spese inutili, anche se, personalmente, preferirei tornare all’impianto originario del nostro Stato, abolendo le Regioni e conservando le province – diventi indigesto per la Calabria, visto che la scure governativa avrebbe risparmiato le province delle Regioni a statuto speciale e quelle direttamente confinanti con Stati esteri. Facevano prima a scrivere “si aboliscono le province di Vibo e Crotone”.
Non è antimeridionalista un provvedimento che, pur necessario, diventa punitivo soltanto per una parte d’Italia?
E la proposta di introdurre il pagamento del pedaggio sull’A3 Salerno-Reggio Calabria e sul raccordo reggino tra A3 e statale 106? O è uno scherzo, per cui chi l’ha proposto è inadeguato a governare, o è una vera e propria dichiarazione di guerra contro la Calabria. Vogliamo almeno sperare che il provvedimento riguardi qualche tratto già concluso e non il rischiosissimo budello-mulattiera che quotidianamente molti lavoratori sono costretti a percorrere facendosi il segno della croce prima di mettersi in viaggio.
Il ceto dirigente meridionale è chiamato ad un atto di grande responsabilità, pena il suo rovinoso naufragio. È necessaria una Santa Alleanza che superi le divisioni partitiche e realizzi un fronte comune (principalmente in Parlamento, dove non dovrebbe essere complicato bloccare i lavori affossando sistematicamente le iniziative della maggioranza) per ribaltare la logica del “divide et impera” che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi post-unitari.
O la classe politica riuscirà ad incanalare su binari istituzionali il magma che si agita nella pancia della società, o verrà travolta dagli eventi.
Cercasi becchino
Come quei personaggi delle fiabe che si svegliano dall’incantesimo, Guccione sembra essere uscito dal torpore invernale. Ha preso così coscienza di una verità sensazionale, l’ha messa per iscritto, sigillata, affrancata e fatta recapitare a Bersani: il PD in Calabria non è mai nato. In pratica, la confessione di una crisi d’identità in pieno svolgimento. Perché se il partito non esiste, il segretario regionale è un avatar.
Troppo approssimativa come spiegazione. Oltre che auto assolutoria. Il PD invece è nato, ma è stato immediatamente soffocato in fasce da troppe faide e giochi di potere (o di prestigio: il nuovissimo “gioco delle tre poltrone” inventato e a lungo esercitato da Bova, Loiero e Adamo). Da questo punto di vista, Pirillo ha ragione da vendere: “Non è affatto vero che il PD in Calabria non è mai nato. Semmai è vero il contrario e cioè che si sta tentando in tutti i modi di soffocarlo sotto il peso di personalismi, guerre intestine e, cosa ancora più grave, senza l’autorevolezza di qualsiasi guida politica”.
Sulla bocca di chi, subito dopo essere stato eletto al Parlamento europeo grazie al contributo decisivo di Loiero, ha preso le distanze dal proprio sponsor principale e ha cominciato ingenerosamente ad avversarlo in tutti i modi, parole di questo tono sono ovviamente poco attendibili. Il dato politico però è un altro. La richiesta di azzeramento e commissariamento dei vertici del partito non rispecchia più soltanto una posizione minoritaria (Gigliotti).
Franceschini, nel corso della convention nazionale di “Area democratica”, ha proposto di affidare il PD calabrese ad una “personalità di grande autorevolezza, capace di ricostruire investendo su nuove energie”. “Na chiacchiera”, direbbero a Roma. Perché un rinnovamento radicale è impossibile in un contesto in cui le “nuove energie” sono sempre emerse col metodo della cooptazione e con operazioni di maquillage eseguite dal gruppo dirigente col solo fine di conservare una rendita politica.
Lo scenario di “tutti contro tutti” autorizza a pensare che la lettera del segretario regionale sia una richiesta d’aiuto, un modo per dire a Roma: “per favore, intervenite voi altrimenti rischio di essere sbranato”. Ma Guccione non può pensare di farla franca scaricando sugli altri responsabilità che sono anche sue. Le primarie fasulle che hanno portato alla sua elezione sono state il frutto dell’accordo Bova-Loiero, non un evento accidentale.
Certo, i panni sporchi andrebbero lavati in casa. Se, come sostiene Caminiti, “si sceglie non di discutere e decidere in Calabria, ma a Roma, per poi magari tornare in Calabria solo a decisione presa, per farla digerire al partito-colonia, allora non c’è da stupirsi se tutto diventerà sempre più ingestibile e sempre più inaccettabile”.
Ecco perché serve un becchino. Occorre fare tabula rasa del passato, di politici autoreferenziali che hanno come obiettivo esclusivo la propria sopravvivenza. Se tutto si risolverà con la solita soluzione pasticciata, per cui ognuno conserverà il proprio strapuntino, vorrà dire che a nulla è valsa la sonora batosta delle regionali.