L’aveva detto in tempi non sospetti: “Ci rivedremo presto. E sempre con la schiena dritta”. Era la chiusura dell’editoriale sofferto, ma orgoglioso, con il quale Paolo Pollichieni, il 20 luglio 2010, annunciava le dimissioni da direttore di CALABRIA ORA, il quotidiano che aveva guidato per più di tre anni. In tanti tirarono un sospiro di sollievo. “Chissà cosa uscirà stamattina” era diventato l’incubo ricorrente per gli amici degli amici, per i compari dei compari, per tutta quella gente dotata della dose di pelo sullo stomaco indispensabile per coltivare amicizie “pericolose” e per essere “qualcuno” in Calabria. I rapporti tra politica e ’ndrangheta sono stati spesso al centro delle inchieste portate avanti da Pollichieni e dai suoi collaboratori, una pattuglia giovane, agguerrita, coraggiosa, che non ha esitato a seguire l’esempio del direttore di fronte alle pressioni della proprietà del giornale.
Casta Calabra (sottotitolo: La politica? Sempre meglio che lavorare…), edito da Falco (Cosenza, dicembre 2011), è lo sbocco naturale di vicende personali e professionali vissute in prima linea. La sistemazione organica del discorso interrotto bruscamente quell’estate e ripreso un anno dopo, dalle colonne del CORRIERE DELLA CALABRIA, settimanale di inchieste e approfondimenti che ogni venerdì provoca parecchi bruciori di stomaco a Palazzo Campanella e a Palazzo Alemanni.
“C’è di tutto nel libro. Per cominciare, la denuncia del degrado culturale”, il giudizio del giornalista del CORRIERE DELLA SERA Gian Antonio Stella, al quale va il merito (da dividere con il collega Sergio Rizzo) di avere per primo scoperchiato il malcostume della classe politica italiana con La casta, exploit editoriale datato 2007, che ha aperto la strada ad un filone giornalistico di successo.
Pollichieni, Eugenio Furia, Giampaolo Latella, Pablo Petrasso e Antonio Ricchio accompagnano i lettori girone dopo girone, in un abisso popolato da politici e politicanti, faccendieri, mafia e antimafia, massondrangheta e borghesia mafiosa, quella “zona grigia” già definita dal direttore del CORRIERE DELLA CALABRIA “il vero capitale sociale della ’ndrangheta”. E che è diventata classe dirigente in una realtà dominata dal “familismo amorale”, modello di comportamento sociale fondato sul perseguimento dell’interesse “familiare” a scapito del bene della collettività. Nella notte della politica calabrese, le differenze tra gli schieramenti sono impercettibili. Anche perché la cronaca è un inciucio continuo, sublimato nella legge sul “concorsone” (2001), ma riscontrabile in un modus operandi che non distingue tra gli schieramenti politici. Leggi sul taglio dei costi della politica che si rivelano fonti di ulteriori sprechi. Consulenze inutili e incarichi esterni assegnati a politici trombati alle elezioni, tra gli sbadigli annoiati del personale interno. Carrozzoni come l’Afor e l’Arssa, aboliti per legge da cinque anni, che continuano ad assumere personale. Società partecipate perennemente in rosso: emblematico il caso della Sogas, la società che gestisce l’Aeroporto dello Stretto e che dalla data della sua costituzione (1986) non ha mai chiuso un bilancio in attivo. Nelle pagine di Casta calabra sfilano politici e burocrati, con il relativo codazzo di parenti attaccati alla mammella pubblica, tutti accomunati dal longanesiano “tengo famiglia”. Tutti sorridenti dietro al vip di turno portato a sfilare sul corso Garibaldi per promuovere l’immagine di Reggio, mentre nelle periferie manca l’acqua e le buche nelle strade sono voragini. Il tanto sbandierato “modello Reggio”, assurto prima a modello da esportare a livello regionale, quindi declassato a “modello peggio”: scandali, debiti, misteri, il suicidio di Orsola Fallara, la nomina prefettizia della commissione d’accesso antimafia. E nuvoloni neri all’orizzonte.
Addio al ponte sullo Stretto
Il cittadino comune lo sa da sempre: “solo gli allocchi possono pensare che si farà il ponte sullo Stretto” e “né io né tu vivremo abbastanza per passarci sopra” sono le frasi ricorrenti quando si affronta l’argomento. Accompagnate da considerazioni sulla strumentalizzazione politica che da sempre accompagna il progetto, in particolare negli ultimi anni, in concomitanza con l’aspirazione berlusconiana a lasciare ai posteri un segno tangibile della propria grandezza. Certo, c’era anche la proverbiale premura dell’ex premier per le questioni di cuore: “se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle tre di mattino, senza dipendere dai traghetti”.
Dovranno farsene una ragione le coppie separate dalla lingua di mare, il progetto è congelato. Più o meno come il “bianco ghiaccio” che il 45,5% dei 4.476 votanti il sondaggio proposto dal sito www.pontedimessina.it ha indicato come colore ideale per la megastruttura. Per cui, addio al ponte dei record, l’opera faraonica che avrebbe oscurato l’Akashi Bridge (Giappone): 3.300 metri la campata centrale (+ 1.100 metri), 382 metri l’altezza delle torri (+ 85 metri), un metro e 24 centimetri il diametro dei cavi di sospensione (+ 12 centimetri), oltre 44.000 cavi d’acciaio (+7.000).
Il Cipe ha infatti sbloccato, nella riunione del 20 gennaio, 6,2 miliardi di euro, definanziando nel contempo 1.624 milioni precedentemente destinati dal governo Berlusconi alla società Stretto di Messina e dirottandoli verso altri interventi. IL SOLE 24 ORE, che ha per primo dato la notizia, ha sottolineato il “doppio cambio di filosofia” rispetto all’era Tremonti: “si favoriscono da una parte interventi diffusi sul territorio piuttosto che mega opere dai tempi lunghi; e dall’altra si definiscono piani dettagliati e già concordati con il territorio allo scopo di far partire prima possibile le ruspe”. È anche vero, però, che la decisione era nell’aria, diretta conseguenza di scelte già fatte, sia in Italia che in Europa. Dopo l’estate, la commissione europea aveva dato un segnale inequivocabile, non inserendo il ponte sullo Stretto tra le opere infrastrutturali prioritarie per il periodo 2014-2020. E già a fine ottobre la Camera aveva approvato la mozione di Idv che prevedeva di destinare al trasporto pubblico locale i fondi per il ponte. Una votazione che sollevò un vespaio di polemiche per il parere positivo espresso dal viceministro alle Infrastrutture, Aurelio Misiti. Può darsi che sia finalmente finita la pantomima “ponte sì, ponte no”, in scena da troppo tempo. Vince Berlusconi e il ponte si fa. Perde e non si fa. Ma non è detto. Uno spreco di denaro senza fine. Cinquanta milioni di euro, nel periodo 2001-2007, soltanto per le consulenze di terzi e per il personale della società Stretto di Messina.
Il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo ha commentato con ironia: “Il Cipe toglie i fondi al ponte, che i siciliani vogliono, e li mantiene per la Tav, che in Val di Susa non vogliono”. Affermazione che andrebbe verificata. Per esempio, consultando le popolazioni interessate. La società dello Stretto l’ha fatto sul proprio sito e il risultato smentisce la convinzione granitica di Lombardo. Su 30.513 votanti, il 59% è contrario (percentuale alla quale va aggiunto il 5,6% del parere che “sarebbe meglio fare altro”), mentre soltanto il 33,6% si è dichiarato a favore. Evidentemente, il numero delle coppie “interregionali” deve essere in forte calo.
Il 2011 dalla A alla Z
A – AZZARÀ. È durata quattro mesi la prigionia di Francesco Azzarà, logista presso un centro pediatrico aperto da Emergency a Nyala, nel Darfur meridionale. In mano a una banda di sequestratori sudanesi dal 14 agosto, il cooperante di Motta San Giovanni (RC) è stato rilasciato il 16 dicembre, dopo che il suo rapimento aveva provocato una vasta mobilitazione dell’opinione pubblica.
B – BIN LADEN. Nel decennale dell’attacco qaedista alle Torri Gemelle, lo “sceicco del terrore” viene scovato ed eliminato in un nascondiglio ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio. Il corpo di Bin Laden viene poi gettato in mare. L’immagine che passerà alla storia ritrae il presidente Obama, il vice Biden, Hillary Clinton, il capo del Pentagono e lo staff presidenziale mentre seguono in diretta il blitz dei Navy Seals dalla Situation Room della Casa Bianca.
C – CATASTROFI NATURALI. L’Italia frana e ogni temporale diventa un’emergenza ambientale. Anche il 2011 piange parecchie vittime (5 nelle Marche e in Romagna, 12 nello spezzino e in Lunigiana, 6 a Genova e 3 nel messinese) e conta danni per milioni e milioni di euro. La devastazione ambientale e l’incuria dell’uomo sono il migliore alleato della natura, che ogni tanto si ribella e lascia dietro di se soltanto fango e morte.
D – DSK. Annus horribilis per il direttore generale del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn, passato dall’altare della possibile sfida a Sarkozy per la conquista dell’Eliseo al carcere, accusato di tentata violenza sessuale ai danni della cameriera di un hotel di New York. Accuse rivelatesi infondate, che hanno alimentato le voci di un complotto politico. Prosciolto negli Usa, DSK è stato successivamente accusato di molestie in Francia.
E – EURO. Lo strappo di Londra, il tandem Francia/Germania, le due velocità dell’Europa, zavorrata dal peso del debito dei PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) e dalla sofferenza dei conti italiani. La crisi del debito “sovrano” in Grecia è stata la spia della difficoltà dell’eurozona. Il rischio è che sulla moneta unica si scateni la resa dei conti: “salvare l’Euro o salvare l’Europa?”. Senza unione politica, il destino dell’euro sembra segnato.
F – FUKUSHIMA. Il numero delle vittime provocate dal terremoto (8.9 scala Richter) e dallo tsunami che ha colpito il Giappone l’11 marzo è incerto (circa 30.000), ma la tragedia della centrale nucleare di Fukushima avrà conseguenze sull’ecosistema dell’intero pianeta per i prossimi decenni. Radiazioni, contaminazione dell’aria e del sottosuolo: il disastro ecologico ha indotto la Germania ad abbandonare l’energia atomica; in Italia, un referendum ha chiuso la porta al nucleare.
G – GURU. “Stay hungry, stay foolish” (Siate affamati, siate folli), il monito lanciato da Steve Jobs ad una platea di neolaureati quando già il male lo stava divorando. Vinto dal cancro il 5 ottobre, il cofondatore di Apple e ideatore di prodotti tecnologici innovativi come l’iPhone e l’iPad è diventato un’icona, un “genio creativo e visionario” paragonato a straordinarie personalità del passato (Leonardo, Newton, Einstein) per la capacità di incidere sul corso della storia.
H – HASHTAG. Il 2011 è stato l’anno di Twitter. Dalla Primavera araba alla crisi di governo italiano, alle manifestazioni degli Indignati, non c’è stato avvenimento che non sia stato raccontato da protagonisti e testimoni comuni armati di smartphone. Simbolo di questo nuovo modo di raccontare la cronaca è l’hashtag (#), l’etichetta che raccoglie i tweet su un determinato tema. #yearinhashtag, ideato da Claudia Vago, Luca Alagna, Marina Petrillo, Maximiliano Bianchi e Mehdi Tekaya sintetizza dodici mesi di notizie “da un punto di vista particolare: la Rete e i suoi utilizzatori”.
I – IRAQ. Otto anni e 4.474 morti dopo gli Usa lasciano l’Iraq. Per le vittime irachene il bilancio è incerto: almeno 100.000 tra militari e civili, “effetti collaterali” dei bombardamenti di villaggi sospettati di nascondere truppe fedeli al regime di Saddam. Delle cause portate a pretesto per scatenare la guerra (appoggio ad Al-Qaeda e programma di armamenti di distruzione di massa) nessuna si è rivelata fondata. L’eliminazione di Saddam non ha pacificato l’Iraq e il ritiro dell’esercito Usa lascia un grosso punto di domanda sul futuro di Baghdad.
L – LACRIME. Quelle di Elsa Fornero, ministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Monti, durante la presentazione della manovra economica “lacrime e sangue” (tanto per restare in tema). Ma soprattutto le nostre, se tagli al welfare, tasse e aumenti vari non saranno compensati da misure per la crescita. Ora come ora, l’impressione è che a pagare saranno i soliti, mentre altri soliti la faranno franca, visto che rendita, patrimoni e privilegi sono stati appena scalfiti. Non ci resta (davvero) che piangere.
M – MONTI. Anche se un suo ministro piange, il professore rimane impassibile, tanto da continuare ad illustrare i contenuti della riforma previdenziale e, bando alla ciance, “correggimi; commuoviti ma correggimi”. Invocato come il salvatore della patria per porre un argine ai disastri del governo Berlusconi, con Monti l’Italia sta lentamente riguadagnando la credibilità che scandali, “cene eleganti” e altre amenità del genere avevano affossato. Il Paese però appare sfiduciato e depresso. Il 2012 sarà un anno di ulteriori sacrifici.
N – NIPOTE DI MUBARAK. È stata la bufala dell’anno, ma l’Italia è un Paese talmente bizzarro che ha ricevuto l’avallo istituzionale. Ruby “rubacuori”, amichetta del premier finita in Questura per un litigio con una prostituta brasiliana, è la nipote marocchina dell’ex leader egiziano Mubarak. L’ha stabilito la Camera dei deputati votando la richiesta di sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria per spostare il processo “Ruby” dal Tribunale di Milano al Tribunale dei ministri. La degna chiusura del ciclo berlusconiano.
O – OCCUPY WALL STREET. Per il magazine statunitense “Time” è il contestatore la “persona dell’anno 2011”. Dagli Indignados in Spagna, scesi in piazza a maggio per manifestare contro le misure economiche del governo Zapatero, a Piazza Tahrir, dove sboccia la primavera araba, a Zuccotti Park, luogo simbolo della protesta nel cuore di Manhattan sgomberato a metà novembre, dopo due mesi di occupazione, è un susseguirsi di manifestazioni culminate con la giornata mondiale dell’indignazione, il 15 ottobre.
P – PRIMAVERA ARABA. È appena iniziato l’anno quando muore Mohamed Bouazizi, laureato disoccupato e venditore ambulante abusivo che a dicembre si era dato fuoco in segno di protesta per le condizioni di miseria in cui vive gran parte della Tunisia. Inizia la “primavera araba”: migliaia di giovani si riversano in piazza e costringono il presidente Ben Alì alla fuga. La rivolta contagia il Nord Africa. Piazza Tahrir, al Cairo, diventa l’epicentro della rivolta egiziana, che costringe Mubarak a passare la mano ai militari. Quindi è la volta della Libia, che si solleva contro Gheddafi e, grazie al sostegno decisivo dell’Occidente, pone fine alla dittatura ultraquarantennale del rais.
Q – QUATTRO SÌ. Dopo 24 quesiti affossati consecutivamente a partire dal 1995, il 12-13 giugno è stato raggiunto il quorum necessario per rendere valida la consultazione referendaria. Le urne hanno detto che gli italiani sono contrari al nucleare e alla privatizzazione dell’acqua. Ma hanno anche bocciato Berlusconi, già bastonato nelle amministrative di maggio, cancellando la legge sul “legittimo impedimento”, una delle tante leggi ad personam licenziata dal Parlamento dei “nominati”.
R – ROYAL WEDDING. Il “matrimonio reale” tra William e Kate è stato l’evento mediatico dell’anno. Seguito in diretta televisiva e sul web da oltre due miliardi di spettatori in tutto il mondo, il “sì” pronunciato nell’abbazia di Westminster ha riconciliato la monarchia Windsor con il popolo inglese, che non aveva mai completamente elaborato il lutto per la perdita di Lady D. La favola moderna della giovane coppia reale ha tutti gli ingredienti per soddisfare la richiesta di sogno presente, in tutti i tempi e ad ogni latitudine, presso l’opinione pubblica.
S – SPREAD. Non avremmo mai sospettato che il nostro primo pensiero, una volta svegli, potesse essere rivolto allo spread. Ormai il nostro umore sale e scende in maniera inversamente proporzionale all’andamento della differenza di rendimento tra i Bund tedeschi e i Btp italiani. Superata quota 500, chiamiamo il 118. Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana lo spread ha fatto cadere un governo e ne ha issato un altro. È il primato dell’economia sulla politica.
T – TELEVISIONE. Non siamo ancora al superamento del duopolio Rai-Mediaset, ma segnali di novità importanti arrivano dall’ascesa di La7, trascinata dall’effetto Chicco Mentana e da una politica semplice, favorita dallo smantellamento dell’azienda di viale Mazzini. La Rai si lascia scappare i pezzi pregiati e mantiene fino alla caduta di Berlusconi Minzolini, autore del “più brutto telegiornale della storia” (Aldo Grasso). A parte le quattro puntate di Fiorello, c’è poco da salvare. Interessante l’esperimento di Santoro, in onda su una “multipiattaforma” (emittenti locali, Sky, siti internet e radio).
U – UNITÀ D’ITALIA. Il 150° anniversario è stata un’occasione persa, scivolato nella retorica delle ragioni unitarie e identitarie, da un lato, e nella strumentalizzazione di un revisionismo politico prima che storiografico, dall’altro. Affidata alla penna di giornalisti polemisti più che al rigore scientifico degli storici, la ricostruzione del Risorgimento italiano si è per lo più trasformato in una “controstoria” buona soltanto per i rutti leghisti e per le parate in costume dei neoborbonici.
V – VASTO. Non sappiamo se qualcuno, contraddicendo la raccomandazione di Nichi Vendola, abbia strappato la foto di Vasto, che ritraeva sorridenti il leader di Sel, quello di Idv Antonio Di Pietro e il segretario del Pd Pierluigi Bersani, proiettati verso un’alleanza elettorale e di governo per il dopo-Berlusconi. La costituzione del governo Monti ha rimescolato le carte. Soprattutto l’approvazione della manovra economica ha raffreddato i rapporti tra chi l’ha votata (Pd), chi ha negato la fiducia (Idv) e chi, non avendo rappresentanti in Parlamento, si è ritrovato nel mezzo (strattonato ora dall’uno, ora dall’altro). Le sirene del Terzo polo potrebbero dare il colpo definitivo alle speranze di unità a sinistra.
Z –ZAPATERO. Che sia un periodaccio per la sinistra, anche a livello internazionale, lo conferma la parabola del premier spagnolo Zapatero, travolto dopo sette anni di governo dalla crisi economica: 5 milioni di disoccupati, rischio default e Indignados nelle piazze. Il leader del Psoe ha almeno salvato la faccia, dimettendosi prima della scadenza naturale del mandato e affidando il destino della Spagna ad elezioni anticipate, stravinte dal candidato del partito popolare Mariano Rajoy. Si chiude così una stagione di importanti conquiste in materia di diritti civili (la più nota, la legislazione sulle coppie omosessuali), guardata con interesse dalle sinistre di tutto il mondo.
Pubblicato il 31 dicembre 2011 su http://www.scirocconews.it/index.php/2011/12/31/lalfabeto-del-2011-dalla-a-alla-z/
Finalmente libero Francesco Azzarà
La notizia è stata lanciata da Emergency su Twitter, alle 15.47:
Gino Strada: “Alte autorità del #Sudan ci hanno comunicato l’avvenuta liberazione di Francesco. Aspettiamo le conferme” #freefrancesco
Attendiamo ulteriori aggiornamenti, ma sembra proprio che stavolta ci siamo. Una bella notizia per Francesco, per Emergency, per l’Italia, per la Calabria, per Reggio, per i suoi familiari e amici, per chi, come me, prima di questa sua disavventura, non sapeva niente di lui.
Poco più di una settimana fa, sul blog, ero tornato per la seconda volta sulla sua vicenda e, sarà stata una coincidenza, dopo che l’articolo è apparso anche sul “Quotidiano della Calabria”, è stato un susseguirsi di altri interventi pubblici, tra cui quello del sindaco di Motta San Giovanni, che aveva preannunciato una grande iniziativa per chiedere nuovamente la liberazione di Francesco. Coincidenza o meno, sono felice per avere dato il mio piccolo contributo di sensibilizzazione attorno alla vicenda di Azzarà.
Buon Natale Francesco
I crumiri con la ramazza
Sporcare l’immagine del “modello Reggio” sarebbe stata una carognata insopportabile sotto feste. Sporcare. È proprio il verbo giusto. Per cui non possiamo che esultare per la soluzione raggiunta sulla questione degli stipendi dovuti agli operai di Leonia, la società mista che si occupa della raccolta dei rifiuti. Una breve riflessione però va fatta, visto che qualcuno ha trovato scorretta la protesta dei lavoratori, uno sciopero non autorizzato che ha impedito lo svolgimento del servizio minimo essenziale.
E questo non va bene. Fin quando la spazzatura invade le strade delle periferie è un conto, ma se cumuli di sacchetti deturpano il salotto della “Reggio bene” diventa difficile sposare la causa di circa trecento padri e madri di famiglia che non sanno più cosa fare per vedersi riconosciuto un diritto sacrosanto. Metà stipendio di ottobre e l’intera retribuzione per il mese di novembre.
Garantire i servizi essenziali. Perché, una vita decente non va garantita? E un piccolo pensiero da fare trovare sotto l’albero ai propri figli? E fare la spesa senza doversi umiliare nel chiedere credito? Fare a meno dei prestiti di familiari o amici, è pretendere troppo?
La verità è un’altra. Senza azioni eclatanti, senza disobbedienza civile non si ottiene nulla. Partiti e sindacati non hanno mai avuto un livello di credibilità così basso. Difatti, all’incontro tenuto in prefettura con il sindaco Arena e il direttore di Leonia, non c’erano. Avvenimenti come quello verificatosi a Reggio Calabria certificano il loro fallimento. La messinscena allestita da consiglieri e assessori comunali, trasformatisi in crumiri a favore di teleobiettivo, giusto il tempo di qualche foto, è solo avanspettacolo. Immortalati con la ramazza in mano e il tacco spinto. La metafora più calzante del distacco tra politica e società.
L’Italia, Monti e l’ombrello di Altan
Tempo di sacrifici. Occorre farne tutti. Benissimo. Ma è troppo pretendere un minimo di equità? Le misure approntate dal governo Monti col fiato dello spread sul collo vanno in altra direzione. L’impressione è che a pagare sarà il cittadino comune, destinato ad un progressivo e rischiosissimo impoverimento. A farla franca, o comunque a ricevere un piccolo buffetto e niente più, saranno i soliti noti, le molteplici caste abituate a godere di privilegi intollerabili. Siamo sempre all’ombrello di Altan.
Una manovra sbilanciata sul fronte delle tasse, come certificano le tabelle del ministero del tesoro, che prevedono un aumento della pressione fiscale dal 42,5% del 2011 al 43,8% nel 2012. E che chiunque può già tastare nelle pompe dei carburanti, il cui prezzo è schizzato alle stelle per l’aumento delle accise: in media, 9,9 centesimi in più per la benzina; 13,6 per il gasolio; 2,6 per il Gpl. A questo salasso, vanno aggiunti l’introduzione dell’Ici-Imu sulla prima casa e l’aumento dell’Iva, provvedimenti che non possono che causare la contrazione dei consumi. E senza consumi, che crescita ci può essere?
Il senso di ingiustizia è tutto in questo accanimento contro i ceti medio-bassi. L’annunciato aumento dell’Irpef sui redditi alti non c’è stato. Le tasse su barche e Suv sono propaganda e basta, ininfluenti. La deindicizzazione delle pensioni al di sopra dei 936 euro un’ingiustizia, a fronte del costante aumento del costo della vita. Talmente ingiusta che negli ultimi giorni sta prendendo piede l’ipotesi di portare l’asticella a 1.400 euro. L’abolizione delle pensioni di anzianità, senza distinguere tra lavoro e lavoro, una vigliaccata. Una bazzecola il prelievo dell’1,5% sui capitali scudati, peraltro tecnicamente difficile da realizzare nei casi in cui siano stati reinvestiti in altre attività. Un provvedimento serio dovrebbe attaccare stipendi e pensioni d’oro, rendita e patrimoni milionari. Inutile girarci attorno. Senza il buon esempio, non è onesto pretendere sacrifici. E finiamola con le strumentalizzazioni dei cattolici impegnati in politica. L’Ici sul patrimonio immobiliare della Chiesa è una misura di equità, non di ostilità. Specialmente in questo frangente.
Sacrifici, sacrifici, sacrifici. Dal 1992 in poi, gli italiani hanno ampiamente dimostrato di possedere uno spirito squadra formidabile. Testa bassa e pedalare, quando c’è da raggiungere un obiettivo. Però diventa complicato continuare a chiederne, se non servono a innescare processi virtuosi. Se non creano sviluppo e lavoro per i giovani. Una perplessità avanzata anche dal direttore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che ha definito la manovra necessaria e urgente, ma recessiva, priva di misure per la crescita. Guardando alla Calabria, la “razionalizzazione” del servizio decisa da Trenitalia e Alitalia (soppressione di 20 tratte e di 52 voli) non è un segnale incoraggiante, alla vigilia dell’annuncio delle misure per il Sud. Non si capisce proprio come si possa produrre sviluppo isolando un’intera regione dal resto del Paese.
I silenzi sul rapimento di Francesco Azzarà
C’è un preoccupante silenzio attorno alla vicenda di Francesco Azzarà, l’operatore di Emergency rapito il 14 agosto a Nyala, nel Darfur, regione del Sudan dove dal luglio del 2010 è attivo un centro pediatrico messo in piedi dall’organizzazione fondata da Gino Strada. La Farnesina tace, mantenendo la linea inaugurata da Franco Frattini nei giorni successivi al sequestro. Siamo fermi alla dichiarazione del deputato Pdl Lella Golfo, che riprendeva fonti diplomatiche: “Francesco è in ottime condizioni e sarebbe stato individuato il luogo in cui è tenuto prigioniero”. Da quattro mesi è un “non possiamo parlarne per motivi di sicurezza”, per “problemi di intelligence” e per “non mettere a repentaglio l’incolumità del prigioniero”.
La mobilitazione iniziale è stata imponente, in Calabria e in tutta Italia. L’immagine di Azzarà sugli edifici pubblici di moltissime città, negli stadi, portata alla Marcia per la pace di Assisi dal comitato “Francesco Libero”. Poi è sceso il silenzio. Le uniche informazioni al di fuori del burocratese del ministero degli esteri sono venute da Cecilia Strada, che davanti alla Commissione straordinaria dei diritti umani del Senato, a metà settembre, dichiarò che Emergency era riuscita a stabilire un contatto diretto con Azzarà (“resiste bene, per quanto possibile nella situazione in cui si trova. Mangia e beve e tiene duro”) e, qualche settimana dopo, da Gino Strada, intervenuto telefonicamente a Che tempo che fa per annunciare che “ci sono buoni motivi per dire che molto presto potremo riabbracciare Francesco”.
Quando si immaginava imminente la soluzione, qualcosa si è però inceppato, facendo saltare tutto. Da allora, non è più filtrato nulla. Sui giornali e sulle televisioni nazionali la notizia non ha ormai alcuna risonanza. A tenere alta l’attenzione sembra essere rimasto soltanto il deputato del Pd Franco Laratta, che già nei mesi passati aveva ripetutamente esortato l’ex ministro degli esteri Franco Frattini ad intervenire in Aula sulla questione. Una nuova interrogazione, presentata insieme al collega di partito Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, chiede ora al neoministro Giulio Terzi di riferire “se il governo segue con costanza il sequestro di Francesco Azzarà; se vi sono stati contatti con i rapitori; se si hanno notizie sulla condizioni e sullo stato di salute del rapito”.
A chi su twitter gli ha posto domande sulla sorte del volontario di Motta San Giovanni, il ministro Terzi (più verosimilmente, il suo ufficio stampa) ha risposto: “seguiamo costantemente, con massima attenzione. Il riserbo è nell’interesse di Azzarà”. Per cui difficilmente se ne saprà di più. Qualcosa però non torna in una vicenda che, data per risolta nello spazio di un mese, si è rivelata complessa e, per l’opinione pubblica, indecifrabile. Proprio per questo, sul caso Azzarà occorre tenere accesi i riflettori.
Aveva ragione Bennato
Ci hanno insegnato che tutti gli –ismi sono la degenerazione di idee buone. A parte il fatto che una simile affermazione è opinabile, è giustizialismo – quindi negazione della giustizia – indignarsi per quanto sta accadendo a Reggio Calabria e, più in generale, in Calabria?
Un altro facile e diffuso luogo comune accusa la magistratura di invadere lo “spazio” della politica e di fare, essa stessa, politica. Un’azione eversiva, al servizio di non meglio precisati “poteri forti”, contro l’ordine costituito, quello che una malintesa idea di democrazia considera legittimato a qualsiasi porcheria dal consenso popolare, che viene così caricato di un significato etico e populista contrario ad ogni principio democratico. Invece è vero il contrario. La magistratura occupa uno spazio vuoto, lasciato incustodito da partiti che non sono capaci di selezionare una classe politica degna di questo nome, e da una società civile tenuta al guinzaglio dal padrone di turno, oggi come 150 anni fa.
Il problema è uno solo e racchiude tutti gli altri. Se di notte tutte le vacche sono nere, se il magistrato è uguale all’avvocato, che è uguale al politico, che è uguale allo ’ndranghetista, che è uguale all’imprenditore, che è uguale al poveraccio che non sa come arrivare a fine mese nella regione più povera d’Italia; se tutto è uguale e immutabile, vinceranno sempre “loro”. Possono arrestarne 100 al giorno. Vinceranno sempre “loro”, perché ridurre tutto a una questione di ordine pubblico fa soltanto comodo a chi si sciacqua la bocca con l’antimafia da salotto e da convegno, con l’antipolitica, con le banalità qualunquiste. Perché qua – Calabria 2011 – questo sta succedendo. Che non si capisce più chi sta con chi. E per spiegarcelo, deve scendere un giudice da Milano.
Joe Sarnataro & Blue Stuff, Nisciuno! (dall’album E’ asciuto pazzo ‘o padrone, 1992). Venti anni dopo, le parole scritte da Edoardo Bennato per Napoli sono ancora attuali.
Striscia o non striscia, la discarica è un problema
Ieri doveva essere il giorno dell’arrivo di Striscia la notizia alla discarica di contrada “La Zingara” di Melicuccà, ma come è stato reso noto da un comunicato stampa di Legambiente “Aspromonte”, il viaggio in Calabria dell’inviato Max Laudadio – che avrebbe anche dovuto fare tappa a Catanzaro, presso gli uffici dell’assessorato regionale all’ambiente – è stato rinviato a causa del maltempo. Ma con o senza le telecamere di Canale 5, la questione della discarica tocca da vicino la nostra comunità e richiede alla popolazione uno sforzo di partecipazione alla battaglia che, quasi in solitaria, sta conducendo da tempo Mimmo Rositano, presidente del circolo aspromontano di Legambiente.
Andiamo con ordine. Tutto inizia nel dicembre 2010, quando la chiusura della discarica “Marrella” di Gioia Tauro provoca i primi veri disagi nella raccolta dei rifiuti nella Piana. Il governo regionale decide l’apertura di nuove discariche e chiede collaborazione alle amministrazioni comunali. Invito colto immediatamente da Emanuele Oliveri, sindaco del comune di Melicuccà, all’interno del quale ricade la località “La Zingara”, che di fatto, però, è incastrata tra i comuni di Sant’Eufemia e Bagnara Calabra. Costo dell’operazione per la realizzazione della conca e la bonifica del sito (che contiene una discarica già utilizzata negli anni scorsi): 2.756.518,48 euro. La multinazionale Veolia attraverso una sua controllata (Tec) dovrebbe poi gestire la discarica, destinata ad accogliere il FOS (frazione organica stabilizzata) proveniente dal termovalorizzatore di Gioia Tauro, con un ulteriore introito per le casse del comune di Melicuccà di 5 euro a tonnellata.
Smaltimento dei rifiuti, sovraffollamento del pianeta e depauperamento delle risorse naturali rappresenteranno la questione centrale in questo secolo. Produciamo rifiuti con un ritmo esponenziale, per cui non possiamo pensare di scansare gli oneri del loro smaltimento. Qualcosa però non torna. Il primo a capirlo è Mimmo Rositano, un eufemiese abituato a “fare le pulci” alle amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore politico. Raccoglie materiale, ascolta pareri tecnici, fa opera di sensibilizzazione. Anche a Bagnara qualcosa comincia a muoversi, per iniziativa di un comitato di residenti di contrada Piani di Pomarelli, praticamente a due passi dalla discarica, e di Daniela Monterosso, segretaria provinciale del Partito popolare sicurezza e difesa. A fine aprile 2011, un consiglio comunale aperto, a Melicuccà, affronta la questione. I sindaci di Bagnara (Cesare Zappia) e di Sant’Eufemia (Enzo Saccà), si dichiarano pronti alla mobilitazione, mentre alcuni cittadini manifestano perplessità di fronte alla promessa che la vecchia discarica sarà bonificata e la nuova costruita nel rispetto di tutte le norme di sicurezza. C’è il timore che, una volta aperta, vi finisca dentro di tutto. Non è un timore infondato. L’odore acre che ogni tanto giunge in paese e la colonna di fumo che talvolta si vede salire in cielo non sono segnali rassicuranti. Il ricordo del fumo nero e dell’olezzo tossico sprigionato per una settimana dall’incendio di trentamila traversine al creosoto, finite non si sa come nella vecchia discarica, a cinque anni di distanza è ancora vivo.
Antonino Calogero, segretario della Cgil della Piana rilancia, ponendo la domanda da un milione di dollari, quella alla quale nessuno ha ancora risposto: perché il Commissario per l’emergenza ambientale ha proposto la costruzione di tre nuove discariche, tutte in provincia di Reggio (Rosarno, San Calogero e Melicuccà)? C’è un progetto per fare della nostra area la pattumiera della regione? Il dubbio viene, anche perché, accanto alla vicenda delle discariche, c’è quella del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro. Una scelta illogica e antieconomica (basti pensare ai tempi e ai costi del trasporto) rispetto alla previsione iniziale di costruire un impianto nel cosentino, per il quale l’ex giunta Loiero, la provincia di Cosenza, ed il comune di San Lorenzo del Vallo avevano sottoscritto un protocollo d’intesa. La gestione emergenziale dei rifiuti si è rivelata un fallimento. Già il fatto che duri dal 1997 la dice lunga: un’emergenza dovrebbe essere affrontata e risolta nel più breve tempo possibile, non procrastinata all’infinito. Nessuno dei problemi è stato risolto: la discarica di Pianopoli va in tilt non appena piove, quella di Alli è finita sotto sequestro per la violazione delle norme ambientali e –notizia di oggi – l’inchiesta in corso (“Pecunia non olet”) ha portato all’arresto di cinque persone, al sequestro di beni per 12 milioni di euro e alla richiesta di interdizione per il Commissario per l’emergenza ambientale, Graziano Melandri, già dimessosi dall’incarico nei giorni scorsi. Per quanto riguarda la discarica di contrada “La Zingara”, sono tre gli elementi che suscitano perplessità e per i quali va verificato il rispetto delle leggi: la distanza della discarica dagli insediamenti abitativi, davvero minima; il passaggio su di essa dei cavi dell’alta tensione, con il conseguente rischio di un’esplosione nel caso di esalazione di gas infiammabili; l’esistenza nel sottosuolo di una falda acquifera che confluisce nell’acquedotto “Vina”, che serve diversi comuni della Piana.
La giornata di ieri è stata comunque importante. Il sindaco di Bagnara ha infatti reso noto di avere presentato una denuncia alla Procura della Repubblica per chiedere di verificare la regolarità dei lavori di costruzione e di accertare la commissione di eventuali reati ambientali. La scintilla di Legambiente è ormai diventata una battaglia di civiltà e di verità, da sostenere senza se e senza ma.
Si fa, non si fa, si fa, non si fa…
Il primo ad affrettarsi a dire che no, il ponte si farà lo stesso, nonostante l’approvazione della mozione presentata dal dipietrista Antonio Borghesi, è stato il ministro Ignazio La Russa: “la mozione dice che il governo eventualmente può sopprimere i finanziamenti per l’opera, ma posso assicurare che non lo farà”. A ruota, la precisazione di Palazzo Chigi, dello stesso tenore. Qualche giorno fa, era stato il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, a ribadire che il Ponte rimaneva una priorità del governo, nonostante l’Unione europea non avesse inserito il Ponte tra le opere prioritarie del Corridoio 1.
Troppo semplice cavarsela con la battuta di La Russa: “una mozione non si nega a nessuno, ma vale per quello che vale”. La sensazione è che sia stata posta una pietra tombale sulla grandeur berlusconiana da immortalare con una costruzione faraonica. Bocciata con un provvedimento di buon senso che rimedia ai tagli dei trasferimenti del governo a Regioni ed Enti locali per le infrastrutture, andando a recuperare così 1,7 miliardi di euro. Qualche considerazione sull’opportunità di un’opera che difficilmente risolverebbe i problemi della Calabria è inevitabile. Guadagnare trenta minuti nell’attraversamento dello Stretto non risolverebbe alcunché. Senza voler fare del facile “benaltrismo”, è un problema l’isolamento dei comuni calabresi delle zone interne, dovuto a collegamenti scarsi e disastrati. Sono un problema le code interminabili sull’A3, le stragi della 106 ionica, le frane che impongono la chiusura di intere strade provinciali, i fatiscenti treni-lumaca. Nello specifico, è un problema l’esistenza di un duopolio che gestisce il trasporto nello Stretto sulla pelle dei pendolari, permettendosi aumenti dei prezzi frequenti e inspiegabili, senza che le legittime proteste non si rivelino soltanto un avvilente abbaiare alla Luna.
Il Ponte unirebbe Calabria e Sicilia, in un deserto di infrastrutture. L’unica utilità sarebbe quella dichiarata da Berlusconi: “se uno ha un grande amore dall’altra parte dello stretto potrà andarci anche alle quattro del mattino senza aspettare i traghetti”. Sotto il profilo dello sviluppo economico, cambierebbe poco. La Calabria deve guardare oltre la Sicilia. Occorre puntare lo sguardo ai mercati del Nord Italia e dell’Europa, per cui servono strade e ferrovie che ne riducano le distanze. Deve guardare ai Paesi del Mediterraneo. Il suo sviluppo passa necessariamente dal rilancio e dal potenziamento del Porto di Gioia Tauro (indotto e iniziative imprenditoriali che non riducano lo scalo a box per il pit stop delle navi), ora in grave crisi per l’addio della Maersk Line che ha causato una drammatica diminuzione del traffico.
La quantità di soldi spesi fino ad ora per la “realizzazione” del Ponte è da guinness dei primati: 270 milioni di euro (8,5 miliardi il costo finale previsto). Niente male per un’opera che – probabilmente – non si farà. E pensare che l’11 giugno la Società Stretto di Messina ha compiuto trent’anni. Un compleanno che rischia di diventare amaro, anche se la sua scadenza è fissata al 31 dicembre 2050. Il tempo (per gli sprechi) non basta mai.