I voti alle primarie

Premessa: non ho votato alle primarie. L’ho fatto in passato e l’esperienza non è stata esaltante. Ho avuto però un attimo di esitazione ieri mattina. Confesso che se fossi riuscito a trovare il seggio ci sarei andato. C’era anche l’indirizzo sul sito “primarie bene comune”, ma stranamente, sul posto, neanche un’indicazione, un manifesto, niente di niente. Però stamattina abbiamo saputo di 200 voti a Bruno Tabacci (su 202 votanti). Un exploit rilevante per il candidato di Agazio Loiero in Calabria, a pochissimi voti dal risultato di Reggio Calabria, prima tra le città della provincia (215 voti, ma su 2.688 votanti). E questo mi basta per pensare che ho fatto bene a risparmiare quei due euro. Nichi Vendola ha preso un voto in meno, io ho evitato di rodermi nuovamente il fegato.

In Calabria le primarie hanno una credibilità prossima allo zero. Truppe cammellate e signori delle tessere gestiscono tutto. Per questo, può verificarsi (si è già verificato) che in certi paesi i voti alle elezioni politiche siano inferiori di quelli raccolti dal partito (o dai partiti) alle primarie. Per la stessa ragione, un voto “carbonaro” come quello di Sant’Eufemia, nel quale non c’è stata mobilitazione da parte di alcuno, nel quale nessun partito svolge attività politica da tempo immemorabile, può dare un esito così sorprendente. Chi doveva fare bella figura con Loiero l’ha fatta e Loiero, anche grazie a questo genere di consenso, avrà argomenti da esporre al tavolo delle candidature, perché su un 6% scarso a livello di coalizione nessuno è disposto a sputarci sopra.

Tralasciamo quindi il contesto regionale e spostiamoci su quello nazionale, basandoci sui dati ufficiosi. Hanno votato circa 3 milioni e 100 mila cittadini. Non tantissimi, ma neanche pochi, in tempi di generale disaffezione per la politica:

Bersani 8 – Ha fatto bene il suo compitino, che era quello di serrare le fila e respingere l’assalto dei rottamatori. La nomenclatura del partito si è schierata compatta in suo sostegno. Bisognerà vedere cosa, se la spunterà al ballottaggio, ciò comporterà in termini di mortificazione della richiesta di novità che sale prepotentemente dalla base e dai movimenti (44,9% in Italia; 54% in Calabria; 51,78% in provincia di Reggio Calabria).

Renzi 9 – È il vincitore morale delle primarie, capace di una mobilitazione che sfrutta al meglio le opportunità fornite dai social network. Personalmente, non mi sta molto simpatico, tranne che per l’affermazione “con noi, l’alleanza con Casini non si fa”. Sfonda in settori della società difficilmente raggiungibili dal Pd: la sua forza, ma anche il suo limite. L’interrogativo è: “cosa faranno i suoi elettori in caso di vittoria di Bersani?” (35,5% in Italia; 22,7% in Calabria; 24,19% in provincia di Reggio Calabria).

Vendola 6,5 – Bene al Sud, per fare bingo avrebbe dovuto superare il 20% e magari (il suo sogno segreto) arrivare al ballottaggio. Probabilmente è stato punito dal format del confronto televisivo: i tempi contingentati (domanda e risposta quasi secca) mal si addicono al suo stile oratorio. Era il candidato più a sinistra, ora dovrà cercare di capitalizzare il suo peso per dare, in sede di stesura del programma elettorale, risposte di sinistra alla crisi economica (15,6% in Italia; 16,5% in Calabria; 19,65% in provincia di Reggio Calabria).

Puppato 5 – Praticamente, era la “quota rosa” di queste primarie. Partiva svantaggiatissima: lei stessa ha ammesso di avere fatto solo 20 giorni di campagna elettorale e di non essere riuscita a toccare 6 regioni. Una candidatura quasi di testimonianza, che ha avuto un riscontro tutto sommato non fallimentare, se si pensa che poteva contare esclusivamente sull’endorsement dell’artista Marco Paolini (2,6% in Italia; 0,7% in Calabria; 0,85% in provincia di Reggio Calabria).

Tabacci 4 – Il più “vecchio” tra i candidati, aspirava a raccogliere preferenze tra la galassia ex e post democristiana del partito democratico e dei movimenti che a quella tradizione fanno riferimento. In Calabria, “Autonomia e diritti” dell’ex governatore Agazio Loiero. È stato un flop, appena appena mitigato dal discreto risultato ottenuto tra la Sila e l’Aspromonte (1,4% in Italia; 5,4% in Calabria; 3,74% in provincia di Reggio Calabria).

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Il giornalismo copia-incolla

Sostengo da tempo che tutti i giornali locali dovrebbero fare uno sforzo economico per assumere in redazione un giornalista che si occupi esclusivamente della supervisione dei contributi di giornalisti e collaboratori vari. Figura professionale che tra l’altro esiste e la cui importanza nell’economia di un giornale non va assolutamente sminuita. Sono innumerevoli i casi di giornalisti famosi che hanno iniziato come correttori di bozze. Partendo dal gradino più basso, Eugenio Balzan arrivò addirittura alla direzione amministrativa e alla comproprietà del “Corriere della Sera”, negli anni in cui il giornale di via Solferino era diretto da Luigi Albertini.

Ciò eviterebbe lo spettacolo che si presenta agli occhi dei lettori con la pubblicazione di strafalcioni ortografici e sintattici raccapriccianti e, francamente, inammissibili. Se poi il correttore di bozze fosse anche un discreto lettore di libri (dotato di un minimo di cultura generale) e un fruitore attento alle dinamiche e alle modalità della comunicazione sul web, il giornale farebbe bingo.

Quanto meno non incapperebbe nella figuraccia occorsa a Calabria Ora. Il giornale diretto da Piero Sansonetti, nell’edizione di oggi, ha infatti dedicato uno speciale di tre pagine (I Quaderni di Calabria Ora) ai novant’anni della “marcia su Roma”. A pagina 14, Quel che resta a 90 anni da quella marcia, articolo di Giuseppe Cantarano. A pagina 15, due interviste: la prima, di Marco Cribari, al presidente de “La Destra” Francesco Storace (“Negarla? È antistorico”); la seconda, di Camillo Giuliani, allo storico Giovanni De Luna (Fu vera rivolta solo nel ’25). Il capolavoro (si fa per dire) è però a pagina 16, interamente riservata alla ricostruzione della “marcia” (La capitale sotto tiro). Insospettito dalla mancanza della firma dell’autore in calce all’articolo, ho voluto prendermi la briga di fare una veloce verifica. Come sospettavo, l’articolo è tagliato/ copiato/ incollato dalla voce “marcia su Roma” presente su Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, redatta sostanzialmente dagli internauti e cliccatissima sul web. Pezzi interi sono copiati e incollati, altri modificati soltanto nel raccordo tra un taglio e l’altro (l’articolo online è infatti più lungo di quello del quotidiano calabrese).

La deontologia, in questi casi, prevede la citazione della fonte e il virgolettato, ma per ragioni facilmente intuibili non “fa figo” citare Wikipedia, molto utilizzata (ahinoi) dagli studenti per le loro ricerche, ma sulla cui autorevolezza è bene non mettere la mano sul fuoco.

Il giornalismo copia-incolla è la metafora di un’epoca che ha messo sull’altare l’approssimazione, la superficialità e la strafottenza. Tempi tristi.

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Chi cerca, (non sempre) trova

Sono stato di recente alla biblioteca comunale di Polistena. Fornitissima, in possesso di volumi dei quali neanche la biblioteca nazionale di Firenze è dotata. Un’eccellenza? La classica mosca bianca nel panorama desolante dei servizi culturali offerti a queste latitudini? Avremmo voluto che fosse così. Le condizioni ci sarebbero. E però.
C’è sempre un però nelle vicende concernenti quel che di buono la nostra terra potrebbe offrire. Un “però” che ho scoperto un paio di settimane fa, al momento della richiesta per la consultazione di due testi che l’OPAC (On-line Public Access Catalogue) indica in possesso della sola biblioteca di Polistena.

L’impatto è surreale. Si entra nei locali della biblioteca e la prima sensazione è di smarrimento. “Staranno effettuando un trasloco”, la mia prima considerazione. Dappertutto, scatoloni pieni di libri e oggetti del museo civico di Polistena, provvisoriamente sistemato nelle stanze della biblioteca (statue, mobili, reperti vari). Sommersa, la postazione dell’impiegata comunale: gentilissima e garbata, visibilmente dispiaciuta per la condizione in cui si trova ad operare.

Abbiamo cercato, insieme, i libri. Invano. Come cercare un ago in un pagliaio. Scaffali sovraffollati, oltre ogni logica. Due, tre file di libri accatastati, dei quali diventa difficile leggere il titolo, se non dopo averli tirati tutti fuori dalla loro sede. Libri per terra, fuori e dentro scatoloni pieni zeppi, privi di un numero di inventario o di una qualsiasi collocazione. Ricerca vana, dunque.
Non mi è rimasto altro da fare che lasciare il mio recapito telefonico, per cui sarò avvisato se e quando i due volumi saranno rintracciati.

Da quel che ho capito, biblioteca e museo civico dovrebbero essere trasferiti nel Palazzo Sigillò, appena (quando?) termineranno i lavori di restauro e la struttura diventerà il “Palazzo della Cultura” di Polistena. Fatto sta che, nell’attuale condizione, la biblioteca non ha alcuna utilità poiché un patrimonio librario (circa 60.000 volumi, con un’eccellente sezione “Calabria”) ed emerotecario equiparabile, per certi versi, a quello della biblioteca “Pietro De Nava” di Reggio o alla “Domenico Topa” di Palmi, nel “buco” in cui si trova non è di fatto fruibile. Un vero peccato.

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L’alba di un nuovo giorno

“Vogliamo che Reggio Calabria possa trovare la serenità e possa riprendere il suo cammino. Saremo molto vicini alla città di Reggio Calabria: come governo abbiamo deciso di mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari e possibili per fare risorgere questa città, per dare a questa città delle risorse importanti, compatibilmente con i mezzi che abbiamo a disposizione. Questo è un atto di rispetto per Reggio Calabria”.

[Anna Maria Cancellieri – ministro dell’Interno]

Non c’è da gioire.
Lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria per “contiguità” con la ’ndrangheta è una ferita lacerante, che brucia nelle carni delle istituzioni e della società civile. Un primato non certo invidiabile (non era mai successo per un comune capoluogo di provincia), “addolcito” dalla presentazione come atto preventivo, non sanzionatorio, e dal riferimento alla brevissima esperienza di Arena, con esclusione dell’era Scopelliti. Dura da digerire, in ogni caso. Sul piano politico, appare arduo trovare punti di discontinuità in quel “modello Reggio” che ha scandito l’ultimo decennio a Palazzo San Giorgio.

Non c’è da disperarsi.
Il provvedimento governativo non è il frutto delle invenzioni giornalistiche dei “nemici di Reggio”. Il complotto non esiste. Esistono le 250 pagine di relazione della commissione d’accesso; esistono le 3.000 pagine di allegati. Lo scioglimento è stato deciso dopo una lettura attenta di questo corposo materiale, non sulla base di una presunta ostilità del governo centrale nei confronti di Reggio.
Un marchio indelebile, quindi, ma anche l’opportunità, per tutti, di ripartire con umiltà, serietà, trasparenza.

Né gioia, né disperazione.
Ma l’alba di un nuovo giorno. E diciotto mesi per fare chiarezza e stabilire, una volta per tutte, chi possa realmente essere considerato “nemico” e chi “amico”. Nei fatti, non con gli slogan.

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Per qualche copia in più

Non mi piace il giornalismo urlato. Non mi piacciono i titoloni sparati in prima pagina per vendere qualche copia in più. Lo stile de “Il Giornale” o di “Libero”, tanto per fare due esempi (non) a caso. Da un po’ di tempo, “Calabria Ora” sembra avere sposato il belpietrismo. L’ultimo cavallo di battaglia di Sansonetti è la difesa del Sud dagli stereotipi nordisti che dipingono, da Napoli in giù, una terra irredimibile. Territori in mano alla criminalità organizzata, popolazioni che attendono a bocca aperta la mammella dello Stato, barbari che fanno dell’abusivismo edilizio la regola e della difesa delle bellezze naturali e paesaggistiche l’eccezione. Oddio, i reportage di ispirazione quasi lombrosiana sono intollerabili, ma non credo che certe repliche siano un bene per il Sud. Di sicuro, non lo sono per il giornalismo.

Prendiamo la lunga e bella intervista di Alessia Principe a Paolo Villaggio, in tournée con il suo spettacolo teatrale. Foto centrale dell’attore genovese e un’apertura che istintivamente suscita un moto d’antipatia: “Il Sud? Un posto tremendo”. Ed è quel “posto tremendo”, decontestualizzato dal resto del colloquio (morte, storia della cristianità, omosessualità, Fantozzi, Angelo Rizzoli, Fabrizio De Andrè e Silvio Berlusconi) che ispira anche il titolo delle due pagine centrali del giornale: “Fantozzi story. Il Sud? è una cagata pazzesca”. Adattamento in chiave meridionalista dell’urlo liberatorio di Fantozzi nel dibattito al cineforum sulla “Corazzata Potemkin”. Quel “posto tremendo” diventa anche il calamaio nel quale il direttore di “Calabria Ora” intinge il pennino per argomentare (“Scusa, caro maestro, il Sud è un’altra cosa”) che “il degrado” del Sud “è il risultato della sopraffazione” del Nord sul Meridione e concludere, amaro e beffardo: “vede Villaggio, detto con affetto, la sua idea del Sud è un po’ una cagata”. Opinione legittima, per carità. Se però si va a leggere il passaggio incriminato, i conti non tornano. O tornano di meno. Virgolettato dell’intervista: “Il Sud è terribile. Ed è spaventoso come la cultura del voto di scambio, alimentata in tutti questi anni, lo abbia rovinato in questo modo. Come avete fatto? – pausa. Ma non abbassa lo sguardo. Ha le mani raccolte. Me lo chiede davvero. Lo vuole sapere. – La corruzione è cresciuta indisturbata. Mi è bastato vedere, appena arrivato in Calabria, il vostro litorale rovinato da costruzioni abbandonate, decadenti, obbrobriose. Ma perché… Perché?”.

Niente di eclatante e neanche di originale, ad essere sinceri. Considerazioni arcinote, che si leggono quotidianamente sulla stampa locale. Dunque, siamo alle solite: soltanto i calabresi possono muovere critiche ai calabresi. Quelle di un “forestiero” sono pregiudizi intollerabili. Certo, l’attacco a una celebrità è sempre un ottimo strumento per guadagnare visibilità, un’occasione da prendere al volo, anche a costo di qualche forzatura interpretativa. Oltretutto, in questi giorni, Paolo Villaggio è finito nell’occhio del ciclone per una dichiarazione infelice sulle paralimpiadi: “sono tristi” e “non fanno ridere”. Come se lo scopo delle paralimpiadi sia fare ridere qualcuno. Ecco, la richiesta di una precisazione su queste ben più gravi frasi non sarebbe dispiaciuta. E forse avrebbe consentito a “Calabria Ora” di fare un titolo più bello.

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Venditori di fumo

E siamo a tre. Terzo consigliere regionale arrestato in due anni. Prima, due politici del Pdl: Santi Zappalà (associazione mafiosa, corruzione elettorale, voto di scambio), insieme ad altri quattro candidati pro-Scopelliti, a dicembre 2010; Franco Morelli (concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d’ufficio e corruzione), a novembre 2011. Ora, Antonio Rappoccio, repubblicano eletto nella lista “Insieme per la Calabria”, accusato di associazione a delinquere, truffa, corruzione elettorale aggravata e peculato. I fatti sono ormai noti: 850 giovani truffati con la promessa di un posto di lavoro in cambio della preferenza. Un sistema oleato, utilizzato anche per supportare la candidatura di Elisa Campolo al consiglio comunale di Reggio Calabria. I disoccupati-elettori avevano anche dovuto pagare 15 euro per iscriversi a una cooperativa e 20 euro per partecipare a un concorso del quale, prima del voto, era stata svolta la prova scritta. Dell’esame orale, invece, non si ha nessuna notizia (chissà come mai).

Fin qua, verrebbe da dire, nulla di nuovo sotto il sole. Il tema non è questo, né il degrado morale di partiti che fanno credere di vivere sulla luna, quando tutti sanno che loro per primi vanno a bussare a certe poco raccomandabili porte, e vorrebbero nascondere dietro il paravento di inutili codici etici l’incapacità di selezionare un personale politico del quale non vergognarsi. Non è nemmeno la constatazione del marcio che ci circonda o della sonnolenza della società civile, che non reagisce e resta passiva, salvo indignarsi quando il magistrato di turno fa esplodere il bubbone. Aurelio Chizzoniti, presidente del consiglio comunale di Reggio ai tempi del “modello Reggio” di scopellitiana memoria e primo dei non eletti dietro Rappoccio, ha evidentemente un interesse personale nella vicenda. Ma le sue accuse risalgono a due anni fa e, in tutto questo tempo, la sua è stata una battaglia solitaria. Basti pensare che, tra i truffati, soltanto in dieci hanno presentato un esposto alla procura. Perché la promessa del posto di lavoro per molti non è un reato, bensì il giusto compenso in uno scambio considerato tutto sommato “naturale”. Se va male, si può sempre sperare che vada meglio la volta dopo, magari affidandosi a un politico “più serio” del chiacchierone la cui parola non vale niente. Facile intuire quanto sia libero il voto in un sistema così fragile e quanto dalla politica ci si attende, in una realtà dove tutto è politica, anche l’economia.

La questione, dicevamo, è però un’altra e riguarda il clima di veleni che ammorba l’aria nel palazzo di giustizia di Reggio. Chizzoniti non ha usato giri di parole: “Rappoccio ha fatto tutto questo perché gliel’hanno consentito”. Una pesantissima accusa di omessa contestazione dei reati, rivolta all’ex procuratore della Repubblica di Reggio, Giuseppe Pignatone, ma anche ai giudici Sferlazza e Musolino, che il politico reggino interpreta come conseguenza dello scontro con il giudice Alberto Cisterna per la scalata alla Procura di Roma. In questo contesto, anche l’utilizzo del pentito Nino Lo Giudice, che ha svelato i rapporti tra il fratello Luciano e l’ex numero due della Dna, rientrerebbe nella strategia “politica” di Pignatone, che avrebbe insabbiato la vicenda per un proprio tornaconto personale.

La denuncia di Chizzoniti non è compatibile con il profilo professionale di Pignatone. O l’una, o l’altro: tertium non datur. Ecco perché occorre fare chiarezza, al più presto, nell’interesse dei soggetti coinvolti e per la credibilità dello stesso sistema giudiziario italiano.

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L’autostrada più bestemmiata del mondo

Al tg2 delle 13 è stata data una buona notizia: sulla Salerno – Reggio Calabria sono stati chiusi quattro cantieri e riaperti non ricordo quanti chilometri di autostrada.
Poi dice che uno diventa un bufalo fumante. Ovvio, quando si parla dell’autostrada più bestemmiata del mondo.

Due giorni fa, nei pressi di Scilla, si è staccato il cornicione di una galleria e solo per una fortuita coincidenza non ci è scappato il morto. Autostrada chiusa e traffico deviato nel centro di Scilla, in una lunga notte di passione, per i residenti e per gli automobilisti bloccati in qualche stretto tornante della strada provinciale. Il giorno successivo, concessione – non richiesta – del bis, con Anas e Polizia stradale sempre più nel pallone, incerte se riaprire o no. Perché diventa una responsabilità pesantissima autorizzare il traffico su un tracciato maledetto da Dio e dagli uomini. Il problema vero è che la manutenzione sul vecchio tracciato è quasi inesistente, da quando sono cominciati i lavori per l’ammodernamento del quinto macro-lotto della SA-RC. In alcune gallerie piove, letteralmente a dirotto. Altro che infiltrazioni: non so come si possa autorizzare la viabilità e spero, per i responsabili, che non succeda mai niente. Ma ogni volta che ci passo, mi ripeto: “speriamo che non venga giù tutto”.
Ovviamente, i telegiornali si guardano bene dal dare simili notizie. Non è una novità. E poi, si rischierebbe di mettere paura a chi ha intenzione di mettersi in viaggio e puntare a Sud.

Nel frattempo, a Sant’Eufemia d’Aspromonte abbiamo perso lo svincolo autostradale. Tagliati fuori dalle grandi (si fa per dire) reti di comunicazione, siano esse stradali o ferroviarie, con ricadute intuibili sulla nostra già asfittica economia. Per collegarsi al nuovo tracciato, occorrerà fare i salti mortali, con dispendio di tempo, soldi e bile. L’assessore regionale ai trasporti, Luigi Fedele, eufemiese, per il momento tace. L’ex sindaco Saccà preannuncia battaglia. Come l’attuale, Creazzo.
La mia opinione è che ci sia poco da fare, perché è tutto deciso. E non da ora, nonostante certe periodiche e rassicuranti dichiarazioni. A ogni modo, mi permetto un piccolo suggerimento a tre politici che rappresentano – credo – la quasi totalità della cittadinanza eufemiese. Mettete da parte ogni tentazione personalistica. Sulla vicenda dello svincolo, ci sono già state troppe strumentalizzazioni. Soprattutto, bando alle chiacchiere, ai tavoli e agli incontri più o meno chiarificatori con Anas, prefetto, istituzioni politiche. L’unica strada da percorrere, per diventare “visibili”, è creare il massimo disagio a quanto più persone possibili. Si blocchi l’autostrada, sine die, fino a quando non ci sarà la certezza che lo svincolo si farà o fino a quando non ci arresteranno tutti. Solo su questa base vi seguiremo. Siete pronti a prendervi qualche denuncia? Altrimenti, lasciate perdere, sarebbe tempo sottratto a qualche bella giornata di mare. Si creeranno disagi a gente che non ha colpe? Perché, noi che colpa abbiamo ad avere questa autostrada e a passarvi sopra ore di inferno, da quasi dieci anni?

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Millenovecentotrentaseivirgolaottanta

Ora sappiamo quanto vale la vita di un precario. Neanche duemila euro. Per la precisione, 1936,80. È il risarcimento assegnato dall’Inail alla madre di Matteo Armellini, l’operaio trentunenne morto a Reggio Calabria, lo scorso 5 marzo, schiacciato dal palco in allestimento per il concerto di Laura Pausini.
A determinare l’ammontare della vergognosa cifra, la bassa retribuzione di Matteo, lavoratore privo di alcuna tutela (men che meno della copertura assicurativa), senza precisi orari di lavoro (a volte, turni di sedici ore) e senza uno stipendio regolare. Destino comune a tanti giovani, laureati (in storia, Matteo) e non, costretti ad accettare condizioni da schiavi pur di sbarcare il lunario. O ti mangi questa minestra…
Sarebbe da sporchi comunisti pretendere che vite del genere valgano quanto quella di alti dirigenti e politici, che percepiscono stipendi di centinaia di migliaia di euro e per i quali (o almeno per i loro familiari) anche la morte diventa un affare, ma qua siamo di fronte all’insulto, all’inaccettabile offesa della dignità umana. Dignità che si stupra anche definendo l’obolo elargito “risarcimento per infortunio e malattia professionale”, mentre – sostiene la madre, che ha sporto denuncia e pretende giustizia – “Matteo non aveva ancora cominciato a lavorare”.
Mi rifiuto, mi rifiuterò sempre di accettare che il valore delle persone lo stabiliscano il mercato e gli stipendi loro assegnati o che esistano persone più uguali di altre: l’esiguità della somma liquidata dipende, infatti, anche dalla circostanza che Matteo non aveva moglie, né figli.

Piero Sansonetti, dalle colonne di “Calabria Ora”, ha lanciato una proposta, chiedendo a Laura Pausini, attualmente impegnata nella preparazione di un concerto con Pino Daniele, di sospendere tutto “finché l’Inail non chiederà scusa e non moltiplicherà per mille il risarcimento a Matteo”.

Io credo che la cantante romagnola possa fare di più e più in fretta. Conosciamo i tempi biblici della giustizia italiana e conosciamo anche le doti umane di un’artista spesso promotrice di importanti iniziative di solidarietà. Sarebbe bello se, autonomamente, Laura Pausini decidesse di tenere un concerto in memoria di Matteo per devolvere alla madre l’incasso dello spettacolo.

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Caldo africano e ospedali reggini

Ogni volta che rischio di liquefarmi, inscatolato e intrappolato sul “corpo del reato” più lungo del mondo (l’autostrada Salerno – Reggio Calabria), ripenso alla saggezza del Barone: “uno dei più grandi errori della tua vita”. Il termine utilizzato – a dire il vero – è un altro, irripetibile. Ad ogni modo, sì: l’acquisto, dieci anni or sono, di un’auto priva di climatizzatore (e a tre porte, pesante aggravante ai fini del negativo giudizio finale), va annoverato tra le mie topiche più clamorose.
Con Scipione ci siamo soltanto intravisti, Caronte invece mi è saltato addosso proprio mentre procedevo a passo di lumaca sull’asfalto infuocato. Lucifero, più in là, dovrebbe dare il colpo di grazia ai sopravvissuti delle prime due ondate di calore di questa estate 2012. Ci saranno tempi e modi. Intanto, un dato è certo: menzione speciale per l’ideatore dei nomi da attribuire all’anticiclone africano. Veramente rassicuranti. D’altronde, siamo abituati. In Italia, si è sempre di fronte ad emergenze catastrofiche, prossimi alla rovina. Ora è il momento dell’ “emergenza caldo”, che ha scalzato la precedente “emergenza freddo”. Passiamo dalle raccomandazioni allarmate su come fronteggiare il “generale inverno” (strano: in inverno fa freddo) alla litania sulle impennate della colonnina del mercurio (strano: in estate fa caldo).

Pensavo a questo, mentre imprecavo contro il nostro sistema sanitario, non comprendendo la ratio della sua farraginosa, inconcludente e irritante burocrazia. Un mese fa, un mio amico ha avuto un ricovero, dopo di che è stato dimesso con la prescrizione di una successiva visita di controllo. In un paese normale, un cittadino pensa che, essendogli stato detto di tornare giorno X, non serve prenotazione. Invece, non vanno così le cose e nessuno si premura di farlo presente all’ignaro utente.
Non solo. Nell’anno di grazia 2012, la prenotazione va fatta “esclusivamente” utilizzando l’apposito numero verde. Non esiste altro sistema, men che meno farlo direttamente in ospedale. Ora, intuisco che possano sussistere ragioni di natura organizzativa, ma snellire qualche procedura, informatizzando qualche passaggio, è chiedere troppo?
Il numero verde è il catalizzatore naturale di malanove per eccellenza. Componi il numero, ascolti per ore la musichina della segreteria telefonica, saggi il tuo livello di sopportazione, quindi esplodi, imprechi e spacchi la cornetta dell’apparecchio. Dopo interminabili tentativi, se non ti sei già trasformato nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, hai discrete possibilità di portare a casa il risultato.
Ricapitolando, per un’estate serena, occorre almeno una delle tre seguenti condizioni: a) una salute di ferro; b) un’auto climatizzata; c) temperature primaverili.

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Un commissario è per sempre

La dichiarazione del commissario regionale del Pd, Alfredo D’Attorre, sulle ragioni del rinvio del congresso regionale che avrebbe dovuto eleggere, dopo due anni di commissariamento, il segretario dei democrats calabresi, è un capolavoro di politichese, paragonabile ai fumosi e verbosi documenti dei partiti della Prima Repubblica: “avremo anche il tempo di recuperare vaste aree di opinione che si sono allontanate a seguito della lotta fratricida verificatasi nel 2009 e che oggi tornano a guardarci con interesse”. Auguri.

Se non ho inteso male, il congresso non si terrà per evitare una conta. Per non correre il rischio, cioè, di dimostrarsi sul serio un partito “democratico” che valuta le diverse proposte politiche e poi sceglie a maggioranza una linea politica. Per non apparire troppo litigiosi, le decisioni vanno prese all’unanimità, o quasi. Al limite, si è disposti ad accettare un’opposizione interna quasi “concordata”, utile soltanto per fugare scenari “bulgari”. Di più non si è disposti a concedere. Con le elezioni politiche dietro l’angolo, esibire l’immagine di un partito diviso sarebbe esiziale. Per le pulizie di primavera c’è sempre tempo. Ora è preferibile nascondere la polvere sotto il tappeto e accantonare la ramazza.

Come sovente accade, si è deciso di non decidere. Rinvio sine die. Che equivale, minimo, a un arrivederci a dopo le politiche del 2013. D’altronde, il nodo è proprio la scelta dei candidati, sia che venga modificata la “porcata” di Calderoli, sia che sciaguratamente si vada alle urne con l’attuale sistema elettorale. Per cui, onde scongiurare notti di lunghi coltelli in salsa calabra, fiducia a D’Attorre, al quale toccherà gestire, di concerto con Roma, le selezioni.

Dei cinque candidati alla segreteria regionale (Nicodemo Oliverio, Mario Maiolo, Demetrio Battaglia, Doris Lo Moro e Mario Muzzì), i primi tre hanno accolto con disappunto i motivi del rinvio. Comprensibile. Perché, in definitiva, i congressi che si tengono a fare, se non per decidere tra il ventaglio delle scelte sul tavolo? Ha ragione Maiolo: ritirare le candidature, “in nome dell’unità del partito”, sarebbe umiliante per chi si è speso a sostegno di esse. L’unità del partito sbandierata come valore assoluto rimanda, pavlovianamente, a performances indimenticabili anche a distanza di anni. Esempi luminosi delle mortificazioni patite da chi, pure, ci aveva creduto. Dall’avallo alla vergogna del “concorsone” per portaborse e parenti, al quale gli allora Ds prestarono faccia, voti e nominativi da sistemare nelle strutture della Regione, allo splendido esempio di trasparenza apprezzato ai congressi dei circoli del 2009 che produssero lo “strano” risultato di una partecipazione non confermata alle successive elezioni. Com’è noto, in molti comuni il Pd non ottenne neanche la metà di quei consensi e si sprecarono i titoli sul numero di elettori inferiore a quello degli iscritti al partito. E ancora, le primarie regionali del 2010, quelle dell’accordo di Caposuvero che diede il via libera alla ricandidatura di Loiero – in cambio della deroga per i consiglieri regionali che, da statuto, non erano ricandidabili, avendo superato due mandati – e all’inserimento in lista dell’allora segretario regionale, Carlo Guccione. Quello stesso Guccione, già beneficiario del “concorsone”, che ora s’indigna per “questo ennesimo tentativo di colonizzazione” e ringhia: “la nostra regione non può essere utilizzata per consumare tentativi di baratto finalizzati alle prossime candidature del 2013 alla Camera e al Senato”.

La questione del recupero di una credibilità che è ai minimi storici è troppo delicata e complessa per pensare di poterla lasciare in mano alla classe politica responsabile dell’attuale disastro. L’amara verità è che il Pd, in Calabria, è un ectoplasma, ripiegato su se stesso e fiaccato dalle faide interne. Non riuscire a dare segni di vita nel momento di maggiore difficoltà dello scopellitismo costituisce, politicamente, un dramma. Sperare in qualche buccia di banana giudiziaria non è politica. Soprattutto se si finisce con l’incappare nel consueto vizio della doppia morale, quella che provoca dichiarazioni a raffica sugli avvisi di garanzia agli avversari politici e silenzi assordanti sulla storiaccia del concorso vinto da Valeria Falcomatà all’azienda ospedaliera “Bianchi – Melacrino – Morelli”. Politica, invece, è riuscire a proporsi come alternativa valida e credibile. Un miraggio, allo stato attuale.

Ha ragione da vendere Fernanda Gigliotti, da sempre voce critica nel Pd calabrese, che si chiede se non sia il caso di abbandonare “il Pd che non c’è”, una “casa” che, “malgrado il nome, di fatto dimostra di non volerci e di non appartenerci, e forse non ci è mai appartenuta, né mai ci apparterrà”.
A dieci anni di distanza, ritornano alla mente – impietosamente e impetuosamente – le parole pronunciate da Nanni Moretti a piazza Navona (“con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”) e ci si domanda se fossero profezia o maledizione.

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