La grande fuga di Mario

In questi giorni, su L’Ora della Calabria, si è sviluppato un dibattito innescato dal corsivo di Francesco Ferro, pubblicato il 31 agosto: “Una terra senza futuro. Non resta che scappare”. Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti ha poi ospitato le testimonianze di alcuni calabresi emigrati, mentre Aldo Varano, direttore di Zoomsud.it, è intervenuto con l’editoriale “Calabria. La grande fuga di chi può alla ricerca di un’altra vita”.

Avendo in casa la possibilità di una testimonianza diretta, ho chiesto a mio fratello Mario (che vive a Londra da sedici anni) di raccontare la sua esperienza. Ciò che salta agli occhi è il confronto tra una realtà che offre delle opportunità, beninteso senza regalare niente (si pensi alle periodiche valutazioni alle quali è sottoposto il lavoratore), e un’altra che non dà a tutti le stesse possibilità. Per cui l’ingresso nel mondo del lavoro è un sei al superenalotto o un umiliante questuare davanti alla porta di chi può fare il miracolo. Senza girarci troppo attorno, dalle nostre parti politica o criminalità organizzata.

(D. F.)

Da bambino, la mia materia preferita era la geografia, e l’Atlante Mondadori il volume al quale ero più legato. Mi affascinavano le mappe e le foto di quei luoghi lontani e sconosciuti. Sognavo di andarci in quei posti, visitarli tutti per poi poter dire – alla fine dei miei giorni – che sì, il mondo è stato veramente la mia ostrica.

Col senno di poi, penso che la voglia di viaggiare ed evadere, scoprire, capire e vivere a contatto con diverse culture mi abbia salvato da un’esistenza grigia e da una realtà, quella calabrese (che poi è un riflesso di quella italiana), che a me è stata sempre stretta.

Ricordo che mentre i miei compagni di liceo si chiedevano che facoltà universitaria scegliere una volta raggiunta la maturità, io pianificavo la fuga, una fuga a tutti i costi. Ero incoraggiato dalla mia professoressa di italiano, la quale spesso – dopo avermi dato del fetente e del lavativo – mi diceva che avevo il potenziale ed il cervello per riuscire in qualsiasi cosa avessi deciso di fare.

La mia prima esperienza lavorativa in Italia sono stati quindici mesi nell’esercito italiano: sottotenente ufficiale di complemento. Mi ero arruolato per denaro. Avevo 20 anni e lo stipendio mi procurò quella indipendenza economica alla quale, in seguito, non avrei saputo più rinunciare. Oltre ad essere valsa il titolo di Nobiluomo a vita (e che mio fratello il dottore schiatti di invidia!), quell’esperienza mi convinse che chiedere favori e raccomandazioni non fa per me. Inizialmente ero stato infatti scartato alla visita medica ma poi, con una telefonata, il mio torace si sviluppò magicamente di 5 centimetri! Superai la visita, ma mi sentì sporco.

Una volta congedato, spesi otto mesi a Palermo, giusto il tempo per verificare che l’Università non era il mio forte. All’insaputa dei miei, dopo aver risposto all’annuncio letto su un giornale, mi trasferii a Milano, dove trascorsi tre mesi facendo il porta a porta per i prodotti più impensabili.

Un giorno lessi un articolo sull’Inghilterra. Il pezzo parlava di come fosse facile trovarvi lavoro ed anche imparare la lingua. Con gli ultimi risparmi, due giorni dopo comprai un biglietto per Londra. Avevo 22 anni. Non avevo mai preso un aereo in vita mia, a parte quello che mi aveva portato dall’Australia in Italia, a neanche tre anni. Ricordo che a bordo non chiesi nemmeno un bicchiere d’acqua e rifiutai il cibo che mi offrirono. Avevo paura che mi chiedessero il conto. Arrivai a Londra il 16 giugno 1997, con in tasca i soldi per pagare la stanza di un ostello per due settimane (da dividere con tre estranei), quattro sterline e TANTA fame. Trovai lavoro in un McDonalds due giorni dopo. Una manna: mangiavo gratis per 8 ore al giorno!

Londra non l’ho più lasciata. Ho cambiato occupazione mano a mano che il mio inglese è migliorato. Negli anni ho lavorato in vari bar, ottenendo promozioni e arrivando persino a dirigerne uno. Per tre anni sono stato consulente bancario per una multinazionale del calibro di HSBC, per altri due agente della Polizia metropolitana londinese. Ora lavoro come steward di volo per la Virgin Atlantic, un’occupazione che settimanalmente mi porta in giro per il mondo, facendomi rivivere i miei sogni di bambino.

Mi ritengo fortunato, perché so che ogni volta tutto dipende dalle mie forze. Questo vuol dire vivere in una realtà meritocratica. Qui non si chiedono favori, a nessuno. Ci si prepara e ci si presenta ai colloqui. Punto. Il lavoro te lo offrono se sei qualificato, o se individuano in te del potenziale.

In banca ero stato assunto nonostante i miei stiracchiati 42/60 di maturità scientifica, dopo tre settimane di training retribuite (!): alla fine del periodo di formazione mi fu offerto un posto in prova e, dopo sei mesi di valutazioni mensili, un contratto a tempo indeterminato. Quando ho realizzato che avrei voluto fare altro, ho lasciato quel lavoro: chi, in Italia, abbandonerebbe un posto in banca?

Negli anni mi sono lasciato alle spalle tre contratti a tempo indeterminato, e non ho mai avuto paura di non riuscire a trovarne un altro. Londra mi ha insegnato che il lavoro attuale serve per migliorarsi e creare delle opportunità per il lavoro successivo, e poi per il prossimo ancora. Così ci si costruisce un curriculum ed una carriera, e magari un giorno ci si sveglia con la sensazione di stare vivendo, e non soltanto sopravvivendo.

A distanza di sedici anni e dopo aver acquistato un appartamento, Londra è diventata la mia casa e Sant’Eufemia il paese in cui sono cresciuto. Va bene così.

Talvolta mi mancano i sapori e gli affetti, ma non ho rimpianti. Se fossi rimasto in Calabria sarei vissuto solo a metà, o forse neanche.

Sono contento per chi è in pace. Soprattutto ammiro e rispetto chi ha avuto il coraggio di rimanere e lottare in una realtà che offre poco o niente. Chissà, anche se non sembra, forse io ho scelto la strada in discesa. Ho solo un’amara certezza: la tristezza che provo per chi è rimasto ed ha lasciato che la nostra terra divorasse tutto, non solo talento ed ambizioni, ma con il tempo anche i sogni.

Mario Forgione

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Il mio ricordo di Pasquino Crupi

Pasquino Crupi se n’è andato. Ci sarà tempo per tracciare il profilo dell’intellettuale e del meridionalista senza riserve.

Ho due ricordi particolari. Uno legato alla mia infanzia, a quando il professore, insieme ai dirigenti provinciali del partito socialista, veniva spesso a Sant’Eufemia per incontrare i militanti nella sezione di piazza Matteotti che mio padre frequentava con una certa assiduità, nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Anni in cui il partito – qualsiasi partito – non era un comitato elettorale, ma uno strumento della “base”. Anni in cui il militante si sentiva investito di una responsabilità che trascendeva il proprio destino personale.

Nel momento della deflagrazione (tangentopoli) restò a sinistra, con i pochi che avemmo il coraggio di dire e dimostrare che un socialista mai avrebbe fondato un club di Forza Italia, come anche a Sant’Eufemia accadde, con la quasi totalità dei vecchi compagni passati armi e bagagli alla corte di Sua Emittenza.

Vicino a Rifondazione comunista e quasi sempre in polemica con i Democratici di sinistra, gli eredi di quel partito comunista che i socialisti videro sempre – con qualche ragione – come il proprio carnefice.

Il secondo ricordo risale a circa cinque anni fa. Andai a trovarlo e il discorso cadde su uno dei massimi esponenti del socialismo calabrese. Non ho mai sentito così tanto odio e rancore (sì, odio e rancore sono i termini più appropriati per descrivere la violenza delle sue parole) come in quell’occasione. E questo spiega molto del socialismo, della sinistra in generale e della autolesionistica guerra tra bande che storicamente ne costituisce il tratto distintivo.

Controcorrente, spesso scomodo, qualche volta livoroso. Come nell’ultima sua crociata contro le “sindachesse” dell’antindrangheta che sinceramente non ho ben compreso, insieme ad altre posizioni a mio avviso troppo manichee sul tema scivoloso della giustizia e del garantismo. Di certo, mai banale.
Amava questa nostra disgraziata terra. Mi mancherà la sua quotidiana “Luna rossa” su “L’ora della Calabria”. Alla Calabria mancherà un intellettuale onesto e raffinato.

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Per qualche spicciolo in più

Comodo, per voi indivanados, saltare da un canale all’altro e sparare sentenze a destra e a manca brandendo il telecomando come un machete, lo sguardo schifato di chi non ne può più del letame che sale, una voglia irresistibile di Mojito per non pensarci. Non questa sera almeno, ché l’happening mi aspetta. Domani, forse.
Facile, anche per voi indignados, sventagliare a raffica sui social, o fare caciara davanti a parlamenti, sedi di partiti e sindacati, aziende che licenziano: per strada o sui tetti, incazzati bestia per il lavoro che non c’è, la benzina che aumenta, le bollette da rateizzare, lo Stato che s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità.

La fate semplice, voi col sopracciglio alzato e il ditino puntato, per quattro spiccioli spesi dai gruppi politici della Regione Calabria in attività istituzionali. Sono i costi della politica, bellezza. Perché la democrazia non è star sopra un albero, giusto? Bisogna darsi da fare, battere le strade, andare tra la gente: tutte attività che non sono a costo zero. Sono soldi spesi per la collettività: perché ciascuno di voi, rientrando a casa, possa rilassarsi, consapevole che qualcuno si sta occupando del bene comune.
Voi, invece, no: non riuscite a comprendere un’evidenza lapalissiana. Tutti a correre appresso alle rivelazioni a puntate di Giuseppe Baldessarro sul “Quotidiano della Calabria”. Tutti con la monetina in mano, come davanti al Raphael. O col cappio già pronto, roteante come un lazo della Pampa. Tricoteuses sferruzzanti sotto il palco della ghigliottina.

E giù con “Rimborsopoli” e l’ennesima vergogna dei nostri politici. Ogni nome uno scontrino, una fattura, un buono acquisto. Una solerzia che andrebbe premiata, altroché. Non c’è scandalo: venghino, signori venghino.

Viaggi, pernottamenti, pranzi al ristorante per 30, 40, 90 ospiti. Crepi l’avarizia. Set di valigie da mille e passa euro, perché partire è un po’ morire, se non ti porti appresso il necessario e se quel necessario non viene sistemato in trolley top class. Biglietti di auguri, argenteria varia e regalini perché – vivaddio – non siamo bifolchi cresciuti nelle caverne, ma persone a modo, che sanno fare “i doveri” come ogni cristiano degno di questo nome. Giornali, perché va bene la rassegna stampa, ma vuoi mettere l’odore dell’inchiostro delle rotative ancora fresco?

Prime colazioni. Certo. Anche i settanta centesimi di un caffè. Da quando in quando è diventato osceno tutto questo? Non so voi, ma io senza caffè al mattino non riesco a mettere a moto il cervello. Mentine e caramelle sono indispensabili: la gente ti perdona l’ignoranza della Costituzione; mai e poi mai ti perdonerebbe un alito agghiacciante tipo fogna di Calcutta.
Le multe per eccesso di velocità, cari i miei Savonarola, sono la prova inconfutabile del lavoro di un politico in favore dei cittadini che rappresenta. Si va di corsa per non perdere tempo nella soluzione dei tanti problemi che affliggono la nostra martoriata terra. Se non è attività politica e istituzionale questa, ditemi voi quale possa esserlo.

E per favore, basta con questa storia del gratta e vinci: bisogna rischiare qualche investimento se si vuole rilanciare l’economia. Vi ha dato fastidio anche l’acquisto di film o partite su Sky: ma avete idea della noia degli alberghi a cinque stelle? Suvvia, finiamola con questo grillismo a buon mercato; basta con la questione morale, buona soltanto per rimediare sul piano etico al fallimento di tante inchieste giudiziarie. La politica è l’arte del possibile, non la scala per il cielo.

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L’exploit di Gino Trematerra

Soddisfazioni. Per esempio, sentirsi degnamente rappresentati. Nel consiglio regionale, al Parlamento italiano, a quello europeo. Perché i nostri politici sanno sempre distinguersi. Hai voglia a pensare che, in fondo, gli altri ci sopportano a stento, con la tipica puzza sotto il naso di chi avverte un evidente senso di superiorità per quattro “straccioni” che contano quanto il due di coppe quando cade a bastoni.
E invece no. Arriva Gino Trematerra e riscatta un’intera classe politica. Di più. Un’intera regione.
Fresco incoronato “assenteista d’oro” (solo il 35% di presenze alle sedute del Parlamento europeo, secondo la classifica pubblicata da Andrea D’Ambra), l’europarlamentare dell’Udc si è trovato suo malgrado coinvolto nell’edificante vicenda che ha visto protagonista il collega Raffaele Baldessarre (Pdl), beccato con le mani dentro il vasetto della marmellata da un giornalista “ienista” di una televisione olandese.
Baldessarre stava “soltanto” certificando la propria presenza ai lavori del Parlamento, alle 18.30 (!), in modo da poter riscuotere i 300 euro di diaria che altrimenti non gli sarebbero stati corrisposti.
Non sia mai.
Nella baruffa che ne è seguita (“I don’t understand” e “non capisco”, l’arrogante arrampicata sugli specchi di Baldassarre), con tanto di tentativo di aggressione al giornalista, il “calmi, calmi” di Trematerra ci ha rassicurati. Davvero.
I nostri politici sanno sempre da che parte stare. Scopelliti difende a spada tratta uno condannato per reati che dovrebbero fare cadere la faccia. L’ex ministro Fabrizio Barca scaglia un siluro contro il Pd regionale, commissariato da tempo immemorabile e in mano a pochi “capibastone”. Sel (la vicenda della federazione provinciale reggina è emblematica) non ha dubbi nello scegliere vecchi arnesi e vecchi metodi, spingendo fuori dal partito, di fatto, una nuova classe politica ancorata ai bisogni del territorio e proiettata nel futuro. Tutto il resto è noia.

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Il Santuario di Sinopoli… a Firenze

Da circa un anno sto raccogliendo gli scritti degli autori eufemiesi del Novecento. Non è semplice, perché spesso si tratta di opere dalla tiratura limitatissima, pubblicate 50-60 anni fa e oltre, più facili da trovare in possesso di collezionisti privati che presso le biblioteche pubbliche. Tra Reggio, Polistena e Palmi ho recuperato una cinquantina di pubblicazioni, che ho fotocopiato o riprodotto digitalmente. Ma ancora c’è da lavorare.
Necessariamente incompleta, ad esempio, è stata la sintesi della produzione letteraria di don Luigi Forgione, da me proposta in occasione del centenario della nascita, anche se all’appello mancavano due opere su sette: Sinopoli e il suo Santuario; Verso l’Alto.
Mancavano.
La cosa che più mi sta gratificando in questa ricerca è la disponibilità che riscontro tra gli amici ai quali necessariamente devo rivolgermi. Roberto è uno di questi, il mio asso nella manica. Lui è il protagonista di Pulp fiction: “mi chiamo Wolf, risolvo problemi”. Grazie a lui, la Biblioteca nazionale di Firenze è dietro l’angolo di casa mia. E io, sfacciatamente, ne approfitto. Gli ho addirittura affidato una lista di pubblicazioni che sono conservate soltanto in riva all’Arno!
Per tale motivo, periodicamente e compatibilmente con i suoi impegni universitari, mi arriva via email qualche “regalino”, in formato sia word che pdf: Per un prode. In onore di Luigi Cutrì, maggiore nel 12° reggimento fanteria, caduto sul campo il 30 novembre 1915, di Bruno Gioffré (Ditta D’Amico, Messina 1916) e Commemorazione del comm. avv. Michele Fimmanò, letta al Consiglio comunale di S. Eufemia d’Aspromonte nella tornata dell’11 marzo 1913, di Pietro Pentimalli (Tip. Succ. Fratelli Nistri, Pisa 1913) sono stati fondamentali per la stesura di due voci del mio libro Il cavallo di Chiuminatto.
Ieri sera, un nuovo cadeau: Sinopoli e il suo Santuario, Istituto padano di arti grafiche, Rovigo 1955. Una piccola raccolta di componimenti poetici (23 pagine) pubblicata “A ricordo dell’anno mariano e della consacrazione della parrocchia alla Madonna”, in occasione della festa dell’Immacolata del 1954: “Sinopoli”; “Breve storia del celebre santuario di Maria SS. delle Grazie – Sinopoli (Reggio Calabria)”; “Novena: A Maria SS. di tutte le Grazie – Nel celebre santuario di Sinopoli”; “Preghiera”; “Preghiera – Da recitarsi alla festa dell’8 settembre”; “Inno a Maria SS. delle Grazie”; “Canzoncina tradizionale – Da cantarsi nei sabati sacranti della Madonna delle Grazie di Sinopoli”; “La festa della Madonna delle Grazie”; “La commissione della festa della Madonna delle Grazie”.
Di seguito, riporto i leggeri e scherzosi versi dedicati ai membri della commissione della festa, a beneficio degli amici di Sinopoli che vi ritroveranno, forse, qualche vecchio parente.

La Commissione della festa della Madonna delle Grazie
Voglio dirvi, se aspettate,
se un pochino pazientate,
in che modo si compone
la solerte Commissione
della Festa di Maria,
tutta piena d’armonia.
Pronti i nomi, ecco la lista.
Bella vista, bella vista,
ma più bello il loro cuore
freme e palpita d’amore
per la Mamma di Gesù
e risplende di virtù.
E’ Domenico il Sergente
nostro bravo Presidente.
E fa Bruno il suo mestiere
di simpatico cassiere.
L’altro Bruno viene poi
e son tanti i meriti suoi.
Pur del tempo fan buon uso
i devoti e pii Caruso.
Gode infatti buona fama
quel che Angelo si chiama.
Or ricordo il caro Antonio
ed il buon Francescantonio.
Né dimentico Giovanni,
il fedel di tutti gli anni.
Antonio poi presento,
ch’è di nobil sentimento.
Due i Romeo ed un Lirosi,
sì gentili e rispettosi.
Anche il terzo Fimmanò
fede e slancio vi portò.
Condò, Sabato e Puccini,
noti ai grandi ed ai bambini,
per la Festa, in pia unione,
ora restano e Carbone.
Ahi!… rimàn quest’anno solo
l’indelebile Bartòlo.
Son carissime persone,
tanto buone, tanto buone!
O Madonna, benedici,
tutti rendili felici.
D’ogni pena li compensa
e ogni grazia a lor dispensa.
Benedici i tuoi devoti:
chi ti prega e chi fa voti.
I vicini ed i lontani
rendi sempre lieti e sani,
o dolcissima Maria,
Mamma nostra. Così sia!

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Ancora una scusa per restare

Il respiro di ogni città ha il colore della notte, quando si ripongono nell’armadio gli abiti della quotidianità e si procede nudi per le sue vie, finalmente in grado di sentire sulla propria pelle le ferite delle molte solitudini che la popolano. Spesso invisibili. Ma non per gli occhi sensibili di Katia Colica, che della vita raccattata ai bordi delle strade di Reggio Calabria ha tratto i racconti-reportage di Ancora una scusa per restare (Città del Sole edizioni, 2012): “storie di ordinaria invisibilità in una notte metropolitana”, strappate dall’autrice alle tenebre del cuore, allo sguardo distratto di quella “maggioranza” che – con Fabrizio De André – immaginiamo alla guida della “colonna di dolore e di fumo che lascia le infinite battaglie al calar della sera”.

Nei protagonisti del libro non c’è rabbia, neanche di fronte alle ingiustizie e alle inefficienze di un sistema attento più alla propaganda di eventi inutili, che al reale miglioramento della qualità della vita della comunità. Un sistema che invece di includere, tende all’espulsione, presentandosi con la faccia matrigna della “città-prigione” che non dà al diversamente abile Lorenzo “una buona ragione per restare”. Una città in cui uno straniero può sentirsi “lontano” dagli stessi vicini di casa, perché i discorsi (e le politiche) sull’integrazione durano lo spazio del finanziamento di un progetto, ma poi – nella realtà di tutti i giorni – la società è ulcerata da persistenti sacche di diffidenza e pregiudizi. “Io non conosco nessuno in questa città”: è l’amara considerazione di Milka, ventitré anni, due figli e neanche il tempo per piangere. Un destino che accomuna la ragazza serba a Rosa, che rischia l’infarto per inerpicarsi lungo la salita del “Riuniti”, trascinando sulle spalle la sdraio per “fare la notte” al marito malato; a Livio, clochard invisibile con un solo grande desiderio: consumare un caffè dentro al bar; a Rosario, venditore di rose bangladese che attraversa la città come un fantasma; a Mariya, che preferisce ascoltare il silenzio del mare o i fischi del treno che – spera – un giorno la salverà dalla prostituzione.
Solitudine è la triste condizione di molti adolescenti, nonostante le uscite in gruppo e le serate trascorse nei locali più à la page della città. Giovani permeati dall’insana subcultura dello sballo, file di chupitos trangugiati secondo le regole del binge drinking, “l’unico oggetto di interazione tra ragazzi che non si guardano, non si parlano” e “stanno lì, ognuno col proprio cellulare a scorrere chissà cosa col dito indice sullo schermo”.

Con le sue storie pescate ai margini della società, Katia Colica tocca le corde dell’emozione, dopo avere sbattuto in faccia al lettore i dati impietosi delle statistiche ufficiali su povertà, prostituzione minorile, alcolismo, condizione dei migranti, disagio giovanile e precarietà: siamo tutti Milena, una laurea inservibile inchiodata al muro e i sogni riposti nel cassetto, fregati dalla filosofia del “meglio che niente” cui ci si piega per non ribellarsi a lavori da co.co.pro che sono puro sfruttamento.

Per non cedere alla rassegnazione, occorre cercare dentro se stessi la via del riscatto. Una redenzione che ha il volto dei ragazzi con le ramazze, impegnati a pulire gli spazi all’aperto utilizzati per ballare la break dance. Gli unici, forse, ad avere ancora la forza di “credere” nella città e che ispirano il monologo finale in cui la stessa Reggio Calabria, rivolgendosi ai suoi figli, indica nella gentilezza l’àncora alla quale aggrapparsi per non affondare e per trovare, ogni giorno, un motivo per non scappare via.

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Per questo giro, passo

Se Berlusconi ha violato il silenzio elettorale lasciandosi andare alle sue consuete farneticanti esternazioni contro la magistratura, a margine di una conferenza stampa tenuta a Milanello, dove solitamente si parla di calcio (nello specifico, il derby meneghino), ritengo che anche a me possa essere consentito di dire qualcosa sul voto di domenica e lunedì. Credo di poterlo fare soprattutto perché il mio non è un tentativo di fare proselitismo, ma soltanto l’occasione tardiva di esprimere il mio pensiero.

In realtà la mia opinione l’ho già manifestata altre volte, però vorrei essere più preciso. Non voterò, ma vado in bestia se mi si dice che questa è antipolitica. Antipolitica è non riuscire, in cinque anni, a cambiare una legge elettorale vergognosa che toglie al cittadino la possibilità di votare il candidato che l’elettore reputa più idoneo a rappresentarne interessi e passioni. E ancor di più mi fanno perdere le staffe quelli che arrampicandosi sugli specchi se ne escono una motivazione vecchia di venti anni: dare il colpo di grazia a Berlusconi.
Si può cambiare disco o dobbiamo ancora farci dettare l’agenda da un personaggio screditato in tutto il mondo, che non gode di alcuna credibilità neppure tra i suoi stessi sostenitori e che è stato quasi costretto a ricandidarsi per non fare scomparire un’area politica allo sbando da due anni?

Vorrei sommessamente ricordare che i cittadini, la loro parte, l’hanno fatta per ben due volte mandando a Palazzo Chigi Romano Prodi: non è colpa loro se una volta al governo il centrosinistra non ha fatto una legge sul conflitto d’interessi che sarebbe stata una conquista di civiltà per il Paese e ha preferito invece dedicarsi all’autolesionismo più sfrenato e inspiegabile. O peggio all’inciucio: se penso al “patto della crostata” di casa Letta non ne mangio per il resto dei miei giorni.

Ora, mi sembra giunga fuori tempo massimo l’appello a serrare i ranghi. Anche perché, fino a qualche settimana fa, non era nemmeno ben chiaro lo scenario e poco decoroso il tentativo di equilibrismo del Pd stretto tra l’alleanza con Vendola e l’occhiolino strizzato a Monti.

La mia convinzione è che il leader del Pdl sia giunto al capolinea. Però ha fatto tutto da solo, i suoi avversari non ne hanno alcun merito. A questa considerazione si aggiunge quella pragmatica sull’inutilità del mio voto. Non “nel” voto in generale, me ne guarderei bene: libertà, democrazia e voto sono le più grandi conquiste dell’antifascismo. Cerco di spiegarmi meglio: alla Camera è praticamente certa la vittoria della coalizione di centrosinistra, che conquisterà quindi il premio di maggioranza e non avrà difficoltà di sorta. I problemi potrebbero sorgere al Senato, dato che la legge elettorale “stranamente” (perché mai si dovrebbero fare le cose semplici in Italia?) assegna il premio su base regionale, non nazionale. Per cui potrebbe verificarsi l’ipotesi che in quel ramo del Parlamento la coalizione vincente non riesca ad avere la maggioranza (soluzione per la quale tifano sia Monti che Berlusconi).
La partita vera, quindi, si gioca in quelle regioni che eleggono un elevato numero di senatori. Insomma, se risiedessi in Sicilia o in Lombardia (che vengono date come le regioni in bilico e decisive per l’elevato numero di senatori che esprimono) probabilmente andrei a votare, ma farlo qua non è proprio un esercizio inutile. Non condanno chi va a votare e non chiedo che altri seguano il mio esempio, che è quanto di più sofferto mi sia mai toccato fare da un punto di vista civico. Ma il ditino puntato contro l’antipolitica no, non l’accetto.

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Le parole di don Italo

Sorprende l’attualità delle parole di don Italo Calabrò (26 settembre 1925 – 16 giugno 1990) nel video che riprende un incontro tenuto dal parroco di San Giovanni di Sambatello con gli studenti del liceo scientifico “Vinci”, più di venti anni fa.

Don Italo è stato tante cose: collaboratore dell’arcivescovo di Reggio Calabria Giovanni Ferro e del successore Aurelio Sorrentino, presidente della Caritas Diocesana, vicepresidente della Caritas Italiana, fondatore della Piccola Opera Papa Giovanni e del Centro Comunitario Agape. Prete antimafia, ma non “professionista” dell’antimafia, secondo la calzante definizione di Mimmo Nasone nella presentazione del saggio biografico edito da Rubbettino nel 2007 (Don Italo Calabrò. Un prete di fronte alla ’ndrangheta, a cura di Domenico Nasone e Mario Nasone, con una prefazione di don Luigi Ciotti).

Una vita dedicata alla lotta alla povertà e all’emarginazione: “i poveri sono i nostri padroni”, la stella polare del suo cammino; “amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai!”, la raccomandazione finale contenuta nel suo testamento spirituale.

Don Italo è stato grande educatore e punto di riferimento dell’associazionismo cattolico reggino per diverse generazioni. Potrebbe suscitare stupore l’invito alla lotta rivolto agli studenti (L’obbedienza non è più una virtù, aveva scritto don Lorenzo Milani anni prima, suscitando scalpore prima di diventare autore di riferimento per il movimento del ’68 con Lettera a una professoressa), ma lotta e responsabilità dovrebbero rappresentare i cardini dell’impegno dei giovani (e non solo dei giovani) nella società.
Lotta non violenta, la più difficile da praticare perché comporta la formazione di una coscienza politica. E assunzione di responsabilità, fondata sul protagonismo di chi si espone in prima persona, senza attendere l’iniziativa altrui: “si può dare la delega per tutto… non esiste ancora l’istituto della delega perché un altro viva al posto tuo”.

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Mangino brioches

Ho letto il servizio del CORRIERE DELLA CALABRIA su quella porcata nauseabonda commessa da alcuni consiglieri regionali, l’approvazione del taglio del trattamento di fine mandato, strombazzato come il segnale inequivocabile di un nuovo modo di fare politica che non vuole privilegi, sta vicino alla gente che soffre e bla bla bla…
Non lo so se i nostri poco onorevoli rappresentanti, impegnati tra Natale e la Befana in simili toccanti esternazioni, siano poi corsi a nascondersi. Conoscendoli un po’, non credo. Dovrebbero però farlo, dopo l’articolo di Pablo Petrasso, il quale ha smascherato l’ennesimo colpo gobbo della casta, con tanto di corsa per ottenere la liquidazione dell’80% del tfm (poverelli, non era consentito richiedere tutto il “cucuzzaro”) prima che la nuova legge entrasse in vigore.

Una schifezza.

Ma questi dove vivono? Fino a quando pensano di potere continuare così senza che nessuno cominci ad andare a prenderli casa per casa? No alla violenza, per carità, ma nessuno può pensare che, stringi stringi, alla fine non si vada a finire là se non si cambia registro. Il disperato che non ha niente da perdere c’è sempre. Credo che i politici facciano male a sottovalutare la situazione. Soprattutto fanno male a continuare a prendere per i fondelli la gente con operazioni di facciata che non fanno altro che aumentare nella società la rabbia, l’indignazione e la nausea.

Forse davvero dal chiuso delle loro stanze dorate non hanno percezione dei drammi familiari che si verificano fuori per la mancanza di lavoro e per le tasche sempre più vuote. Sembrano tutti Maria Antonietta sorda alle lamentele di chi le faceva notare che il popolo moriva di fame: “Se non hanno il pane, che mangino brioches!”.

I nomi di questi galantuomini andrebbero scolpiti all’ingresso di ogni comune, perché oggi tutti sappiano e a futura memoria, se mai un giorno la politica si risolleverà, come esempio del fondo toccato in questo inizio di millennio dall’attuale classe dirigente.

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Blocco 52

Il cadavere di Utopia riposa dietro una lapide del “blocco 52” del cimitero di Catanzaro, sipario della vicenda umana e politica del comunista Luigi Silipo che Lou Palanca ha recuperato negli anfratti della storia, soffiando sulla polvere accumulatasi in quasi cinquant’anni di oblio. Lo pseudonimo dell’autore collettivo (ispirato a Massimo “O Rey” Palanca, idolo giallorosso specialista del gol su calcio d’angolo negli anni Settanta-Ottanta) si rifà all’esperienza avviata negli anni Novanta in Italia da Luther Blissett e proseguita da Wu Ming, culminata con l’esperienza del New Italian Epic, genere di romanzo che mescola realtà storica e finzione letteraria.
Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta, edito da Rubbettino e scritto a dieci mani (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri e Danilo Colabraro), si snoda su più piani e offre diverse chiavi di lettura. Personaggi reali, chiamati per nome e cognome, che incastrano le proprie esistenze con la trama del romanzo (“un delitto che dalla Calabria degli anni Sessanta arriva fino a Praga”), fotografie in bianco e nero di vicende da narrare perché, “se non c’è nessuno che fa memoria, è come se le storie non fossero mai esistite”.
L’assassinio dell’eretico Luigi Silipo (1 aprile 1965), dirigente di primo piano del partito comunista in Calabria che vede progressivamente incrinarsi le certezze granitiche sulla bontà del centralismo democratico e sulla prassi del comunismo internazionale, da “omicidio impunito, dimenticato o da dimenticare” assurge a metafora del bilancio amaro di una stagione politica e di una generazione costretta a tapparsi le orecchie per non sentire “il rumore che fanno i sogni che abortiscono”.

Il passato ha l’odore dell’aria ammorbata dal fumo delle sigarette nelle sezioni di partito e nelle sale cinematografiche, il colore delle palline usate come tappo per le bottigliette della gazzosa, le inquadrature della cinepresa di Pasolini in “Comizi d’amore”, la lezione sempre attuale di don Milani, le canzoni di una generazione che avrebbe voluto scalare il cielo e sognava di portare la fantasia al potere. Blocco 52 è la Catanzaro dei “bassi” invivibili e della speculazione edilizia, delle carte di Piazza Fontana incredibilmente sepolte in uno scantinato; è la Reggio degli anni Settanta, la controcultura e le bombe, l’intreccio inquietante di fascismo, ’ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Ma è anche la crisi materiale e morale della società attuale, sulla quale si posa lo sguardo ora amaro, ora ironico, di Vincenzo Dattilo, alter ego del “pendolare fisso” Fabio Cuzzola, dal quale prende in prestito anche il blog Terra è libertà.

Storia grande e piccole storie si intrecciano e si tengono assieme, seguendo il filo conduttore di un omicidio i cui possibili moventi (politico, passionale, affaristico-criminale) conducono a una lapide spoglia, abbandonata e dimenticata da tutti. Sullo sfondo, una serie di “vinti” (Nina, che mantiene i contatti con i futuri protagonisti della Primavera di Praga; Maria Grazia, che perde la verginità sotto lo sguardo corrucciato di Marx, Engels e Lenin; Caterina, vittima rassegnata di una società patriarcale) e il più “vinto” di tutti: Gavino Piras, funzionario del partito comunista mandato da Roma per gestire, all’indomani della morte del “Migliore”, lo scontro tra amendoliani e ingraiani e che sull’altare dell’ideale politico sacrifica amore e felicità personale.

La rivoluzione soffoca in tasca, come i pugni del celebre film di Marco Bellocchio, ed è amara consolazione rifugiarsi nell’illusione “che il cielo sia così vicino che lo puoi toccare con un dito”, parallelismo irriverente tra l’utopia comunista e l’esistenza della prostituta Assunta. Impegno politico e ricerca della verità si rivelano una battaglia persa, “ma le battaglie perse – ci ricorda Dattilo – sono le uniche che vanno combattute. O, perlomeno, le uniche che meritano il bacio sulle labbra che le trasforma in un libro”.

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