Non sono affatto pentito di avere disertato le urne, né mi sento toccato dalla contestazione che, così facendo, ho permesso ad altri di decidere per me. Lo accetto con serenità. Né mi indigna l’esito delle elezioni, poiché non credo che nessuno abbia l’autorità morale per stabilire quando un risultato è eticamente accettabile e quando no. Chi vince è stato più bravo e sarà giudicato per quello che riuscirà a fare o a non fare.
Sono un elettore di centro-sinistra, ma non ho la vocazione al suicidio e nemmeno paraocchi che mi impediscano di vedere il caos (apparentemente) calmo calabrese.
Avrei avuto a disposizione tre scelte, una più scalcinata dell’altra. A partire dalla coalizione guidata da Amalia Bruni, candidata dell’ultima ora di PD, Cinque Stelle e un paio di liste allestite per fare gonfiare il petto in conferenza stampa: «Ci sostengono sei liste». Ma quando mai. Le ultime tre, insieme, non hanno raggiunto il 2%.
Anche la seconda alternativa (De Magistris) contemplava la presenza di diverse liste in funzione puramente decorativa. Opzione personalistica molto pompata a livello mediatico, con il velleitario lancio di una “rivoluzione gentile” in salsa populista. Proprio ora che il populismo mostra la corda: vedi a livello nazionale il mesto e inarrestabile declino dei Cinque Stelle. Basta bandane, basta toni ultimativi da salvatori della patria, basta l’arroganza di chi si ritiene il più puro tra i puri. Non guasterebbe un bagno d’umiltà. Che, per la verità, è mancata anche a Carlo Tanzi, autore ad urne aperte della dichiarazione più atroce: «A me interessa solo che la mia lista raggiunga il 4%». Sì, ciao.
La terza possibilità (Oliverio) più che una proposta politica, era il gesto estremo del marito che si taglia gli attributi per fare un dispetto alla moglie. La quale guadagna l’uscio con una ragione in più.
La vittoria di Occhiuto restituisce (ci si augura) la politica ai politici. D’altronde, puoi essere bravo e rispettabile quanto vuoi, ma alla fine contano i numeri. E i numeri, a livello locale, fortunatamente ancora li possiede chi sta sul campo 365 giorni su 365, chi ha rapporti con le comunità e con i territori, chi si confronta con le persone in carne e ossa, non con gli algoritmi. Se lo comprendessero anche a sinistra, finirebbe la stagione delle imposizioni romane, fatte digerire con il baratto della garanzia di qualche strapuntino personale. Impareranno la lezione? Qualche dubbio permane.
Non è serio scaricare responsabilità proprie su un elettorato comprensibilmente disorientato. Forse si è davvero toccato il fondo, dal quale non si può che risalire. E questa potrebbe davvero essere l’unica nota positiva di un disastro annunciato.
La scossa di mastro Mimmo
Ieri sera ha avuto luogo in Piazza Libertà l’evento “Festival della Moda 2021”, a cura dell’Associazione regionale sarti e stilisti calabresi e dell’Accademia nazionale dei sartori di Roma. La serata, presentata da Marilena Alescio, si è conclusa con una degustazione di dolci offerta dall’Associazione pasticcieri gelatieri artigiani.
“Niente di straordinario”, avremmo commentato qualche anno fa, quando il cartellone dell’estate eufemiese presentava iniziative a cadenza quasi quotidiana. Non voglio scomodare aggettivi enfatici, vorrei soltanto fare notare che la manifestazione di ieri è stata a mio avviso molto importante. Non si può vivere di nostalgia e di piagnistei, né di rabbia. Bisogna invece trovare la forza per reagire alle difficoltà del momento, all’abbattimento che serpeggia tra i tanti che negli ultimi decenni si sono molto spesi per la crescita culturale e sociale di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Abbiamo subito un duro colpo, non possiamo nascondercelo. Ma io credo che subire passivamente non sia la strada giusta. Né bisogna aspettare “tempi migliori”. I tempi questi sono, e con questi occorre misurarsi e, caso mai, cercare di indirizzarli in un senso più positivo. Ma dobbiamo farlo noi per primi. Se non ci risolleviamo da soli, di certo non lo farà nessuno al posto nostro. Il tempo sarà galantuomo. E con il tempo ogni cosa assumerà la sua reale dimensione. Una dimensione di giustizia, scevra dal pregiudizio.
E allora non nascondo l’emozione provata nell’ascoltare l’intervento iniziale di Domenico Fedele, che è delegato regionale dell’Accademia nazionale dei sartori e presidente dell’Associazione regionale sarti e stilisti calabresi. Un invito rivolto agli eufemiesi, affinché si diano una “scossa” e reagiscano. Che l’abbia fatto “mastro Mimmo” è un segnale molto forte: «Se posso farlo io a 85 anni – il senso delle sue parole – a maggior ragione potete e dovete farlo voi».
Grazie, quindi, a “mastro Mimmo” e grazie a Maria Bagnato e a Pietro Monterosso, due giovani stilisti eufemiesi che da diversi anni operano nel settore, facendoci sentire orgogliosi di appartenere a questa comunità. Possano i nostri tre concittadini essere di esempio e di incoraggiamento per tutti noi.
Salviamo Favazzina
Dopo le mareggiate del 23-24 dicembre, Favazzina è uno strazio. Il mare ha travolto le sue caratteristiche e graziose spiaggette, portando via tutto. Quel che è rimasto somiglia tanto a un campo di battaglia subito dopo un bombardamento. Terra arata, rivoltata, franata. Spaccature lungo il poco di spiaggia rimasta, profonde come ferite dell’anima.
Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. A Favazzina mio padre mi ha insegnato a nuotare, quarant’anni fa. Favazzina è stata teatro delle gare di resistenza in apnea tra bambini. A Favazzina mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli sull’acqua limpida. Gli stessi scogli che, adolescente, ho esplorato a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata sulle piccole onde.
Tutte le estati degli anni 80 le ho trascorse a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle, spruzzi e tuffi, gol e parate. Favazzina sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro frutta, panini e bibite. Favazzina è la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday e Adriano Celentano per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h.
Alla fine degli anni 90, Favazzina fu per me una piacevole riscoperta, fatta insieme a tanti altri amici e a tanti bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando a Favazzina bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da qualche anno Favazzina mi attende a settembre, il periodo in cui preferisco andarci per lasciarmi cullare dalle onde e dal silenzio. Nella solitudine della “mia” spiaggia ho letto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo ed è stata una doppia emozione.
Ora è tutto molto doloroso. La strada d’accesso è crollata e della stessa spiaggia non è rimasto quasi niente: una lingua ristretta di massi sputati dal mare. La furia del mare si è abbattuta anche sui miei ricordi di bambino, di adolescente, di adulto. Come se abbia portato via anche una parte di me.
Favazzina deve continuare a vivere anche per noi, suoi innamorati. Sul sito charge.org Carmen Santagati ha promosso una petizione (“Ricostruiamo Favazzina di Scilla distrutta dal maremoto”), che ho sottoscritto e che chiedo di sottoscrivere ai tanti che come me amano quest’angolo di Paradiso.
Oliverio sì, Oliverio no
Da mesi e mesi il quadro politico del centrosinistra calabrese è avvitato sul quesito “Oliverio Sì – Oliverio No”. Non proprio uno spettacolo edificante. Messa così la vicenda si presenta come una questione personale, più che politica. E forse lo è. La gestione del Partito democratico in Calabria nella legislatura che si sta per concludere è stata fallimentare. Lo certifica la fuga di diversi consiglieri regionali e di personalità che in questo quinquennio vi hanno giocato un ruolo di primo piano. I nomi di questi signori è possibile verificarli nelle cronache politiche di questi ultimi mesi, caratterizzati da copiose transumanze e dal fiorire di associazioni e movimenti che ruotano attorno ai fuorusciti, ovviamente già collocati o in cerca di collocazione in altri più accoglienti e (prevedono) vincenti lidi.
D’altronde, quando ciò che tiene insieme è soltanto il potere, quando manca la visione su ciò che si è, su ciò che si vuole fare e a vantaggio di chi, un partito finisce col diventare il contenitore di un pastone indigeribile.
Leggo di dirigenti del partito che ora, soltanto ora, chiedono una discussione. Giusto, giustissimo. Tuttavia, mi chiedo dove fossero questi dirigenti quando gli si faceva notare lo snaturamento del Pd, che si era consegnato al peggior trasformismo locale e aveva mortificato la storia di esperienze genuine. Allora si preferì mettere la testa sotto la sabbia e pensare che uno meno uno avrebbe dato zero: insomma, non sarebbe cambiato niente. E invece no: la matematica della politica poggia su teoremi più complessi. Fatto sta che chi è stato mortificato si è allontanato, chi vi era entrato per opportunismo ha abbandonato la nave alla prima onda leggermente più alta. Tutto questo è avvenuto senza che vi sia stata un reale dibattito, a nessun livello, e calpestando le più elementari regole democratiche (ad esempio nei tesseramenti).
E però… quando la finiremo di essere trattati come colonia? Sul principio che a decidere debbano essere gli elettori di centrosinistra della Calabria non dovrebbero esserci dubbi. Solo su questo mi sento di essere d’accordo con i sostenitori di Oliverio, al quale già la volta scorsa fu fatto di tutto per impedirne la candidatura. Lo affermo da ex sostenitore dello stesso Oliverio che in quell’occasione dovette pagare un prezzo altissimo, politicamente ma anche in termini di rapporti personali. Da presidente di un seggio delle primarie che dovette ingoiare la sfilata di votanti assurdi. Guarda caso, il candidato a governatore che sostenevano è oggi schierato apertamente con il centrodestra.
Ma non è questo il tema. È un altro ed ha a che fare con valori democratici che bisognerebbe sempre tenere in mente. Piaccia o no (personalmente non mi entusiasma), quella di Oliverio è l’unica candidatura in campo, alla luce del sole, che non vive nelle ombre dei palazzi romani. Se ci sono altri che legittimamente aspirano alla candidatura si facciano avanti e non si nascondano dietro le indicazioni interessate del partito nazionale. Non si può essere democratici a giorni alterni, un giorno invocare le primarie e un’altra volta impedirle. Perché l’antipolitica ingrassa proprio laddove la politica non riesce ad essere credibile.
Tempo di partenze
Partono senz’allegria. Partono senza dolore. Sanno che si deve, come la medicina che va presa nonostante il suo sapore amaro. È una storia che si ripete, che si tramanda come gli occhi scuri o le spalle larghe. Sono le strade dei nostri nonni, dei nostri genitori. Di quelli rimasti a casa di Cristo e sepolti lontani. Di quelli tornati per i propri figli, perché a loro fossero risparmiati gli addii sulle banchine.
Invece no. Si parte ancora. Sui treni, con le auto, in aereo. Come un sortilegio. Giovani con i trolley imbottiti di speranza e adulti con gli occhi bassi della sconfitta. Senza rimpianti, le lacrime asciutte di chi comprende il senso dell’ineluttabilità. Anche il nodo in gola è meno acre. Per chi resta è un dolore sordo, da interpretare. Pensieri cattivi che si vogliono scacciare lontano, come nuvole spazzate dal vento; ed è inutile piangersi addosso. Non è più tempo di lamenti, né di rabbia.
Nessuno che li trattenga; nessuno che sia capace di lanciare lo sguardo al di là del proprio miserabile orizzonte. Terra persa, terra maledetta. Con i suoi tramonti mozzafiato, con il suo mare colore del vino, con i suoi alberi puntati contro il cielo. Terra bella e maledetta. Che non sa afferrare un braccio, che non sa dire “restate”.
È la sconfitta dell’amore. È una condanna ai ricordi e alle videochiamate, sul comodino i sassolini della spiaggia e le fotografie di una favola triste.
Tra poco sarà inverno, la stagione delle lunghe notti. Chissà quanto ancora durerà questo buio, se mai passerà.
Il terremoto del 1894 in una lettera di Vittorio Visalli
Il terremoto che il 16 novembre 1894 colpì il circondario di Palmi provocò 98 vittime e danni ingentissimi. San Procopio fu il paese che pagò il più alto tributo di sangue (48 morti); a seguire Bagnara (13), Seminara (8), Palmi (8) e Sant’Eufemia (7), mentre gli altri centri dove si registrarono decessi furono Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. I danni quantificati a Sant’Eufemia ammontarono a circa due milioni di lire: 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve.
Una testimonianza eccezionale di quell’evento è la lettera inviata il mese successivo dallo storico Vittorio Visalli a Giuseppe Mantica, che con Enrico Emilio Ximenes curò nel febbraio del 1895 la pubblicazione di un numero speciale della rivista “Fata Morgana”.
Si tratta di un documento preziosissimo, del quale sono venuto in possesso quasi per caso mentre spulciavo le “Carte Visalli”, custodite presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria. In apertura, Visalli descrive ciò che era successo nella sua casa di Messina, dove allora viveva:
«Eran quasi le sette di sera, quando un ruggito sotterraneo, lungo sibilante, annunziò la catastrofe: ed ecco un urto immane, una rapida vibrazione di sotto in sopra, da sinistra a destra, e le case oscillano, sbattono le imposte, i quadri si staccano dalle pareti, le travi scricchiolano come i fianchi di una nave in tempesta. Perdo l’equilibrio, mi appoggio allo stipite di un balcone, e vedo turbinare in un vortice i palazzi, i fanali accesi, la gente nella strada, e un vento caldo e furioso m’investe tutta la persona. Corro a prendere nelle braccia la mia bambina che dormiva, e preceduto dalle donne di case allibite e singhiozzanti, scendo all’aperto».
Dal 1892 Visalli era vicedirettore della scuola normale di Messina, città nella quale risiedette fino al terremoto del 1908: in quell’occasione la moglie Giuseppina Augimeri e l’unica figlia, la sedicenne Maddalena, ebbero infatti minore fortuna e perirono sotto le macerie.
A mano a mano che passano le ore, scrive Visalli:
«…si propagano dicerie di gravi danni accaduti non si sa dove; tutte le paure, tutti i pregiudizi risorgono in quel trambusto; s’interroga il mare, la luna, le nuvole. E intanto, ad ogni due o tre ore, i boati e le scosse si ripetono, sollevando pianti e clamori: le donne cadono in ginocchio, i ragazzi strillano, appaiono da ogni lato file di lanterne ed immagine sacre portate in processione».
Il pensiero di Visalli corre ai parenti che vivono in Calabria:
«Questo pensiero ci torturava. Erano là i vecchi genitori, là i fratelli, le famiglie nostre. Avranno sentito il terremoto? sono feriti? sono salvi? E quando cominciò a spuntare l’alba, già mille fosche notizie circolavano di bocca in bocca: in Calabria la rovina è immensa, vi son paesi distrutti, centinaia di morti, migliaia di feriti, la strada ferrata interrotta, la linea telefonica spezzata».
Il giorno successivo Visalli attraversa lo Stretto. Nel corso del viaggio chiede informazioni, ma le risposte sono angoscianti:
«Domando ai passeggeri che incontro, e mi rispondono: Sant’Eufemia e San Procopio sono spariti dal mondo, Palmi, Bagnara, Seminara quasi demolite, guasti enormi a Reggio, la provincia tutta ricaduta nelle condizioni in cui dovette trovarsi nel febbraio del 1783».
I suoi parenti, sparsi tra Sant’Eufemia e i centri viciniori, avevano superato incolumi la tragedia. La visione che gli si presenta è però sconvolgente. La prima città visitata da Visalli è Palmi:
«Entrando a Palmi, non si scorge a prima vista la gravità del danno, essendo le case in piedi e le vie quasi sgombre di frantumi; ma, fermando un po’ lo sguardo, si osserva uno spettacolo che agghiaccia il cuore. Spigoli aperti, imposte sgangherate, pareti oblique e spaccate da larghe fenditure, tetti sfondati, e per le strade una turba livida di stanchezza e di paura, che non ha ricovero, ed improvvisa capannucce e baracche di tavole o di cenci. Il giardino pubblico, quella stupenda terrazza d’onde l’occhio spaziava incantato sul cerulo Tirreno, da Capo Vaticano al Mongibello, ora sembra l’attendamento d’una lurida tribù di zingari. Vedo le signore più superbe, le più eleganti signorine, accoccolate in un angolo, ravvolte in coperte da letto o in vecchi scialli già smessi; vedo centinaia di persone inginocchiate innanzi ad un confessionale, aspettando l’assoluzione in articulo mortis: ed altre centinaia urlano e piangono a pie’ delle statue dei santi, che in lunga riga sono schierate nella piazza maggiore».
Quindi arriva a San Procopio. Nella tragedia di un paese raso al suolo rifulge l’eroismo del dipendente comunale Marafioti:
«San Procopio non esiste più: non è altro che un ammasso informe di tegole, di travi, di calcina, di mattoni, purtroppo chiazzati di sangue, da poi che fu questo il comune che diede il maggior numero di morti. I popolani erano dentro la chiesa della Madonna degli Afflitti, quando avvenne il terremoto: i più vicini alla porta cercarono scampo nella fuga, ma trentaquattro di essi rimasero schiacciati sotto la facciata che precipitava con orrendo fracasso. I superstiti e i feriti, forse più sventurati dei morti, son ora sparsi intorno al diruto paese, tremanti pel freddo, affamati, pieni di cordoglio e di raccapriccio. Ma in quel paese v’è un eroe, il vicesegretario comunale Marafioti: egli passò la notte brancolando sui ruderi, chiamando a nome coloro che supponeva sepolti, parecchi svincolando dalla stretta mortale, e continuò l’opera salvatrice pure quand’ebbe rinvenuti fra i cadaveri due suoi fratelli ed una sorella adorata!».
Infine Sant’Eufemia, il caro paese natio:
«Sant’Eufemia è distrutta. Un’ansia affannosa deprime l’energia dei superstiti, erranti per le campagne, senza lavoro, senza cibo, mentre le piogge cadono dirotte e la neve già si affaccia dai culmini dell’Aspromonte. Addio, mia povera e cara dolce casetta nativa! Quando mio nonno ti fece costruire e mio padre ingrandire, quando io bambino tornava di scuola a ricevere in te il premio d’un bacio materno, eri tanto lieta e graziosa che non avrei sognato mai di doverti un giorno rimirare in così misero stato. Il mio piccolo nido sembra oggi un sepolcro abbandonato; ed i muri esterni incombono sovr’esso come scheletri minacciosi o crollanti».
Sant’Eufemia non sarebbe più stata la stessa. Nel terreno denominato “Pezza Grande” fu infatti costruito un baraccamento che ospitava circa 200 famiglie. Si trattava del nucleo originario del rione che si sarebbe ulteriormente sviluppato dopo il terremoto del 1908 e che avrebbe determinato l’attuale assetto urbano, caratterizzato tra tre grandi aree: Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), Petto e Pezzagrande.
*Testo integrale della lettera, datata 10 dicembre 1894, in «Fata Morgana», Pei danneggiati del terremoto in Calabria e Sicilia, (a cura di Ettore Ximenes e Giuseppe Mantica), febbraio 1895, pp. 76-78.
**Link utili su questo blog:
– Sant’Eufemia d’Aspromonte e il terremoto del 16 novembre 1894.
– Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici.
Sabbia: Totò Ligato custode della memoria melicucchese
Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, Totò Ligato ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. Il periodo storico più setacciato da Ligato, che da qualche anno ci ha lasciato, va dai Quaranta ai Sessanta del Novecento, anni vissuti in un paese piccolo ma vivace come poteva essere in quel tempo Melicuccà, prima che l’emigrazione lo svuotasse della meglio gioventù.
A quelle storie paesane Ligato ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf.
Nell’immaginaria ma facilmente identificabile Bagolaro prendono vita i personaggi mitici del ricordo e le care figure dell’infanzia. Come in una pellicola proiettata nel leggendario cinema di don Saro, che per una volta non vede protagonista l’affascinante Amedeo Nazzari, davanti agli occhi del lettore scorrono fatti e volti di un secolo passato in fretta e ormai dimenticato.
La saga familiare si intreccia con gli avvenimenti della storia grande; tutto sembra muoversi con un unico, grande respiro. Tra le pagine di Sabbia fa addirittura capolino il generale Garibaldi, del quale era stato compagno d’arme Gianni, padre di Rosa “a piririca” che – come spesso capitava – aveva dato da sola alla luce Francesco, futuro padre dell’autore del libro. Ancora, le baracche del dopo terremoto e la Grande Guerra, il Ventennio ed il secondo conflitto mondiale, con il ferimento di Francesco in terra libica ed il racconto del suo rocambolesco ritorno in paese, dove sarà assunto come guardia municipale in quanto mutilato di guerra e sposerà la maestra elementare Teresa.
Bagolaro è la metafora di un sud povero ma vitale, che nutre la speranza del proprio riscatto. Quella speranza che oggi sembra latitare, nel clima di generale rassegnazione che attanaglia i piccoli centri aspromontani, condannati al destino di un inesorabile spopolamento. Ligato diventa il testimone di una civiltà scomparsa, quella del sapone fatto in casa e del bucato nel torrente, due operazioni descritte con una maniacale attenzione per i dettagli. Una società dignitosa nelle sue ristrettezze e capace di divertirsi con poco: la musica del grammofono, il cinema di don Saro, la littorina, le trasferte a piedi per disputare una partita di calcio, le esilaranti burle che qua e là puntellano il racconto.
Sarebbe bello se l’amministrazione comunale di Melicuccà, le associazioni culturali e gli amici di Totò Ligato ne onorassero il ricordo e l’opera facendosi promotori della pubblicazione di una selezione dei “ritratti” più significativi apparsi sulle colonne della “Gazzetta del Sud” e della ristampa di Sabbia, l’affresco di una stagione che sopravvive in pagine significative sotto il profilo letterario e storico.
La matematica non è un’opinione
Nell’edizione odierna Il Quotidiano del Sud ha pubblicato nella rubrica “Lettere e interventi” alcune mie considerazioni relative ad un recente sondaggio sull’operato del presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio. Di seguito la mia lettera e la risposta di Annarosa Macrì.
Gentile dott.ssa Macrì, Il Sole 24 Ore ha diffuso i dati di un sondaggio sulla fiducia dei cittadini nei confronti del proprio presidente della Regione. Mario Oliverio ha avuto un gradimento pari al 38,1%, da cui si deduce che il 61,9% ne ha bocciato l’operato.
Sono stato un sostenitore di Oliverio e sarei ingeneroso se non considerassi il disastro che ereditò al momento dell’insediamento. Però non posso negare la grande delusione della sua gestione: nessuno dei problemi strutturali della Calabria è stato, non dico risolto, ma neanche affrontato adeguatamente. Inoltre, qualche scivolone a livello di immagine gli ha parecchio nuociuto: se dici che ti incateni a Roma per protestare contro il commissariamento della sanità, poi devi farlo; se dici che fai lo sciopero della fame contro l’ingiustizia dell’obbligo di dimora, poi devi farlo. Quanto meno per una questione di credibilità personale.
È singolare, ma non sorprende, leggere sui social i commenti al limite dell’entusiasmo dell’inner circle oliveriano. Evidentemente, si tratta di gente che preferisce guardare i 2/5 di bicchiere pieno e ignorare i 3/5 del bicchiere vuoto. Capisco la fedeltà e il senso di appartenenza, ma la freddezza dei numeri non dovrebbe consentire divagazioni sentimentali.
La Calabria è sempre più il paese dei Peppinielli. Certamente ricorderà la scena di “Miseria e nobiltà”, celebre commedia teatrale di Eduardo Scarpetta adattata cinematograficamente da Mario Mattoli con uno strepitoso Totò nei panni del protagonista Felice Sciosciammocca: il maggiordomo don Vincenzo dice a Peppiniello che, per restare nella casa di don Gaetano, deve dire di essere suo figlio. Peppiniello non ha esitazioni: «Don Vince’, basta che mi date da mangiare io vi chiamo pure mamma!».
RISPOSTA
Ho letto anch’io, carissimo. “Miracolo Oliverio”, ha scritto qualcuno, più oliveriano, evidentemente, dello stesso Oliverio, provando contestualmente ad ubriacarsi per la gioia. Invano: il bicchiere è drammaticamente mezzo vuoto. Del 23 per cento di consensi che Oliverio ha perso, strada facendo e governando faticosamente questa, glielo riconosciamo, faticosissima regione. Da dove si continua a partire per lavorare (i giovani), per curarsi (quelli di mezza età), per andare a fare da baby-sitter ai figli dei figli (i vecchi).
E se uno amministra una regione così, e non prova a inventarsi qualcosa, un’idea, un progetto, un’illusione, più che il bravo governatore, può solo aspirare a fare il bravo capostazione. Altro che “miracolo”! a parte il fatto che la parola “miracolo”, così come la sua cuginetta “boom”, mi fa aggricciare la pelle…
Per non parlare dei “peppinielli”, come li chiama lei, signor Forgione… i quali, a dire il vero, tutti i torti non ce l’hanno: il 38 e uno per cento di gradimento, in un sondaggio rilevato peraltro in marzo, quando il Nostro era “al confino” e non erano chiari i contorni di una vicenda giudiziaria che si è rivelata una bolla di sapone, seppure avvelenato, beh, non è poco…
Secondo me, lo stesso Oliverio, detto anche “il lupo”, uno che avrà mille difetti, ma gli altri lupi del branco li conosce benissimo, per non parlare degli agnelli, si sarà sorpreso moltissimo, così tanto da rimanere basito, e non proferire, prudentemente, parola (mi pare che non ci sia nessun suo commento in giro), ma, tra sé e sé, si sarà detto: Sila maiala… il bicchiere è mezzo pieno…
E’ che i “peppinielli” dovrebbero spiegargli (ma lui lo sa benissimo) che quel 38 e uno per cento non è un voto di gradimento a lui, ma di s-gradimento di quelli che potrebbero prendere il suo posto, la Destra, insomma, che sia Forza Italia, o, peggio, la Lega… perché le (cinque) stelle, mi sa, stanno a guardare… chiamasi insomma “sindrome della diligenza”: l’assalto è feroce, serriamo le fila, i vecchi e i nuovi barbari stanno arrivando…
Riuscirà la diligenza a imbarcare – ragiono come la casalinga di Voghera e mi perdoni – l’altro 12 e nove per cento che le serve per superare la Destra? Difficile. Anche perché una bella parte dell’era della giunta oliveriana, la penultima che, insieme allo sprint finale, è tradizionalmente quella pre-elettorale, è stata obbiettivamente azzoppata dalla bolla di sapone avvelenato preparata dai magistrati.
E poi perché non c’è Pagnoncelli o Noto o Ghisleri che tengano: i Calabresi, da che esiste la Regione, hanno sempre votato per l’alternanza, illudendosi che “cambiando il campo”, possano cambiare le cose.
E io dico: a ’sto giro, purtroppo. Anzi, aggiungo: fatemi salire sulla diligenza. Mi basta un predellino, mi accontento di poco, di molto poco.
I leghisti calabresi e il carro dei vincitori
Non mi sorprendono i sei bus che partiranno dalla Calabria per partecipare, sabato 8, alla manifestazione in sostegno della Lega di Matteo Salvini. Così come non mi ha sorpreso il pienone registrato qualche giorno fa, alla manifestazione leghista di Roccella Ionica su “Giovani e politica”.
Nel Sud e in Calabria è sempre stato così, sin dai tempi dell’ascarismo giolittiano. In un bel racconto (“Masse e potere”, in: “Il popolo delle cantine e altri racconti della Caulonia di un tempo”), Ilario Ammendolia narra la storia di Ciccillo, nato ai primi del Novecento. Il nostro protagonista era appena un ragazzo quando nella cittadina si sparse la voce che dalla stazione ferroviaria (da raggiungere a piedi alla marina) sarebbe passato il principe ereditario, il futuro Umberto II. Vestito a festa dalla madre, anche lui assistette con altre centinaia di persone al passaggio del figlio di Vittorio Emanuele III: sindaco con tanto di fascia tricolore e cilindro sulla testa, carabinieri in alta uniforme, magistrati, gnuri e gente comune. Un’attesa frustrata dal ritardo del treno, che quando arriva rallenta appena ma non si ferma, per la delusione del sindaco, che aveva preparato due pagine di discorso, della banda musicale e dei cittadini accorsi: solo un veloce saluto con la mano portata alla visiera. Anni dopo sarebbe stata la volta del Duce. Anche in quella circostanza tutto il paese viene mobilitato: tutti vestiti in camicia nera o nelle divise delle organizzazioni fasciste ad accogliere l’Uomo della Provvidenza. E anche quella volta un passaggio rapido: il treno rallenta e subito riparte. Finita la guerra è la volta dei pullman per la DC di De Gasperi, per il PCI di Togliatti, per i monarchici di Lauro.
«Ogni volta – considera Ammendolia – la gente partiva a salutare il “Salvatore” di turno. Poi tutto tornava come prima». Ormai vecchio e stanco Ciccillo, che in gioventù aveva partecipato a tutte le manifestazioni, va anche a vedere Fanfani, all’epoca presidente del consiglio dei ministri, in visita al centro storico. Tuttavia, “un tarlo gli rodeva il cervello”: la constatazione di una “sostanziale continuità” tra vecchie e nuove generazioni, entrambe – ogni volta – esaltate e organizzate per acclamare il politico di turno “eccezionale”, colui che avrebbe risolto ogni problema. Ma che puntualmente non risolveva un bel niente, lasciando tutti con l’amaro in bocca.
Un Ciccillo vissuto negli ultimi 25 anni avrebbe probabilmente acclamato il Berlusconi “unto del Signore”, come molti in Calabria hanno fatto finché Sua Emittenza è stato l’elemento centrale della politica nazionale. Successivamente sarebbe impazzito per Renzi. Ho bene impresse nella memoria, per averle vissute da (allora) segretario del Pd di Sant’Eufemia d’Aspromonte, le primarie che incoronarono l’uomo di Rignano segretario nazionale e le successive regionali, che contrapposero Mario Oliverio e Gianluca Callipo nella candidatura a governatore. In entrambi i casi ci fu la straordinaria mobilitazione di un elettorato tradizionalmente e platealmente di destra a supporto di Renzi e di Callipo. Nel primo caso, perché l’exploit renziano era nell’aria e il berlusconismo allo sbando: insomma, personaggi in cerca d’autore se ne videro parecchi. Nel secondo caso, perché il Pd nazionale fece di tutto per stoppare una candidatura che godeva di ampi consensi, ma che risultava indigesta al giglio magico: ricordiamo tutti le pressioni per non fare svolgere le primarie e decidere il candidato a Roma.
Oggi Ciccillo è leghista, non ci sono dubbi: è stato al convegno di Roccella e sabato sarà a Roma. Niente di nuovo sotto il sole. Questo è il momento di Salvini: quelli più in buona fede si affidano al nuovo “salvatore”, quelli più furbi prosaicamente si schierano con il vincente di turno. Questi ultimi, in genere, sono quelli che decidono le elezioni: alcuni cambi di casacca e distinguo dell’ultimo periodo, dalla Sila all’Aspromonte, non fanno altro che confermare la tendenza atavica degli ascari nostrani ad accodarsi al potente del momento, in cambio della propria sopravvivenza e di qualche briciola. Il popolo, come Ciccillo, va avanti e indietro dalla stazione, con in mano il fazzolettino da sventolare.
*Il Quotidiano del Sud, 8 dicembre 2018 (“Lettere e interventi”).
La chioccia dell’abate Conia
Chi non ha mai utilizzato, né ha sentito pronunciare l’espressione “n’atru ndaviva u stessu, e u mpittau a hhiocca”? Un modo di dire canzonatorio utilizzato per farsi beffe di colui che, fino al singolare incidente procurato da una gallina, condivideva soltanto con un altro esemplare del genere umano il possesso di virtù evidentemente eccelse.
È molto complicato riuscire ad attribuire una paternità certa a motti scherzosi che hanno origine nella tradizione orale e popolare. Questa locuzione molto diffusa nel reggino non sfugge alla regola.
Di recente mi sono imbattuto nella lettura della raccolta delle poesie dell’abate Giovanni Conia (Galatro, 1752 – Oppido Mamertina, 1839), stampata nel 1834 a Napoli “presso Faustino e fratelli De Bonis Tipografi Arcivescovili” e dedicata “a sua Eccellenza il Signor D. Nicola Santangelo, Segretario di Stato e Ministro degli Affari Interni nel Regno delle Due Sicilie”: Saggio dell’energia, semplicità ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia, canonico protonotario della Cattedrale di Oppido, con l’aggiunta di alcune poesie italiane dello stesso.
Non ho le competenze necessarie per esprimere un giudizio critico su un’opera che nel tempo ha ricevuto pareri autorevoli ma a volte discordanti, per i quali rimando al documentato volume di Raffaele Sergio, autore anche del busto in bronzo dedicato all’illustre concittadino dall’amministrazione comunale di Galatro nel 1974: L’Abate Giovanni Conia. Poeta dialettale calabrese. Testimonianze e poesie (Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1980).
Tuttavia, è certo che l’abate Conia fu personalità eminente e poliedrica. Rettore e professore di teologia dommatica del Seminario vescovile di Oppido Mamertina, godeva di fama di grande teologo, oratore e umanista (fece anche parte dell’Accademia Florimontana di Monteleone, ramo calabrese dell’Arcadia Romana): ascoltare un suo panegirico o una sua predica diventava un’esperienza indimenticabile per le emozioni che la sua parola riusciva a suscitare tra il pubblico.
La maggior parte delle sue poesie è di carattere religioso o encomiastico, ma a queste vanno aggiunti i componimenti di argomento più leggero, nei quali la vena satirica dell’autore trova piena esaltazione. Ad ogni modo, l’intera raccolta marca un punto importante nella storia della letteratura calabrese, perché il dialetto – più naturale, più semplice e più espressivo – assurge finalmente al rango di lingua letteraria e come tale viene infatti difesa dall’autore in una celebre “tenzone” con l’idioma italiano.
Il sonetto che contiene la nota locuzione dialettale è “Facezia ad un amico alquanto mordace nelle burle, di bassa statura”:
Fora chiacchieri mo: tardu mparai
D. Ciccantoni cu è: vogghiu laudari
li schiribizzi soi: quantu lu mari
su li soi laudi: no li arrivi mai.
Picciulu vasu, ma nc’è pipi assai.
È curciu, ma lu diantani passari
pe malizia lu poti: pe sprovari
cu avi pacenzia Ddeu mandau ssu guai,
D. Ciccantoni sì la cruci mia;
non muti mai; sì duru comu rocca:
bonu ca non si tratt’a guapparia.
L’autri vertù li teni a grappu, e schiocca.
Ti vasta ca omu grandi comu tia
n’autru nci nd’era, e lu mpittau na hhiocca.
Non è possibile stabilire se il verso conclusivo fosse già diffuso nella tradizione orale e sia stato quindi sostanzialmente ripreso, non concepito, dal religioso di Galatro. Si può però affermare con certezza che all’abate Conia va riconosciuto il merito di avere dato dignità letteraria ad una locuzione dialettale che tutt’oggi vive nella cultura e nel costume popolare. Anche per questo la bilancia sembra pendere più dal lato dei difensori della grandezza di Conia, la cui autorevolezza ha altri significativi riflessi nella società. Tra i giocatori di “scopa”, ad esempio, è molto diffusa l’espressione “u dissi puru l’abati Conia/ ca cu sett’oru non si cugghiunija”, che sottolinea certo l’importanza del settebello nel gioco delle carte ma, più in generale, consiglia a tutti noi di non scherzare con le cose serie della vita.
*GLOSSARIO ESSENZIALE
Curcio: nano, di piccola statura
Diantani: diavolo
Schiocca: ciocca
Vasta: basta
Mpittau: schiacciò
Hhiocca: chioccia